Questa stanza ha due finestre, e poi c'è il nuovo televisore piatto e a muro che è una terza, e non è mica piccola. E' proprio la conformazione che hanno gli ultimi modelli di questo apparecchio a sottolineare - avendogli tolto l'aspetto di un mobile qual era prima - tale caratteristica. Che del resto gli viene anche dall'essere, appunto, in tantissime case quasi perennemente acceso. Le due finestre originarie hanno un orizzonte limitato: mostrano il palazzo di fronte, e solo a sporgervisi si vede anche una strada con negozi ed autobus e gente che cammina. Ma questa nuova finestra in più ne mostra e quanti, invece, di panorami e cose. Cangianti ed affollati. Con più colori e più suoni. E tanti volti belli e/o vivaci che si susseguono a dirci di questo e di quello. Per forza che si sta più spesso affacciati a questa che alle altre due! Per forza che le esterne regìe comunicatrici son tentate di usarla quanto più possono per influire su di noi. Ed è così che finisce con l'esser quella il nostro prevalente contatto col reale, anche se si tratta di un reale solo presunto. E che dunque un mondo in effetti virtuale e concepito in studio prende fin da piccoli per mano i nostri figli e se li porta dietro: li consegnerà da adulti, e rimasti inadeguati, a una società sfasata alla quale qualche retromarcia farebbe molto bene, ma il comando per poterla attuare è praticamente introvabile fra quelli che ci sono e nel libretto delle istruzioni, altro che spiegare come si fa, neanche se ne parla. Una larghissima, davvero troppo larga, fascia di persone - e altre masse indotte vi si stanno accodando - ha finito col conoscere l'universo che la circonda attraverso un filtro come questo, che detto universo tramuta e virtualizza; anzi è senz'altro più esatto dire che lo sostituisce.

Da quella finestra il mondo non entra in casa nostra così com'è, anche se ha tutti i requisiti d'apparenza per essere convincente. Sta a noi dotarci dei filtri e dei correttivi, degli strumenti decodificatori ed interpretativi che sono necessari. Sta a noi spogliarci della passività che ci viene richiesta, sta a noi di esercitare le capacità prima selettive e poi critiche che intelligenza, esperienza e cultura ci hanno costruito. E questo non è facile per chi (e sono davvero tanti) siede davanti allo schermo già stanco e frastornato da una giornata di lavoro e a questo punto chiede, o chiedere vorrebbe, soltanto di non pensare, come se pigiasse finalmente un tasto interno staccante. Ma non è altresì facile, e uno fatto così anzi neppure ci prova, per chi abbia una consuetudine di prigrizia mentale (e neanche questi son pochi, andiamo) che gli faccia considerare la tv amichevole compagna del suo intero tempo casalingo, o comunque disponibile. E non è facile, infine, anzi è quasi impossibile, per quella fascia ancora anagraficamente immatura che è composta dai bambini e dagli adolescenti.

Vedete: è successo qualcosa che differenzia nettamente il medium tv, lo strumento comunicativo chiamato televisione, da tutti gli altri che c'erano prima. Proviamo a esaminare bene che cosa. E a farcene una ragione. Quando la televisione nasceva non era come la conosciamo adesso. E chi non la conosceva prima, neanche da tutte queste rievocazioni in onda per esempio in questi giorni dedicate al cinquantenario della Rai è in grado di farsene un'idea precisa. La televisione nasce come un medium regolato da un arco di durata, esattamente allo stesso modo degli altri. Il giornale lo comperi la mattina e "dura" fin che non l'hai letto. La radio l'accendi "per appuntamento": le notizie; la commedia; la rubrica; la partita; il concerto. Sì, ce l'hai magari anche per compagnia o solo sottofondo, ma allora è musica, classica o leggera, mentre fai dell'altro. E anche tutti i media precedenti, telegrafo, telefono, grammofono, cinematografo, entravano nella tua vita - come del resto quelli scritti e a stampa - solo nel momento, e per il tempo, che decidevi tu, o in quello in cui un avviso di messaggio, vocale o di campanello, ti raggiungeva privatamente. Le emissioni televisive, a loro volta, occupavano una sola parte della giornata, poi via via accresciuta e comunque stabilizzatasi su una fascia esclusivamente diurna e di prima serata. C'è qualcuno che ha più presente cosa sia un «monoscopio»? Alle 23, ogni sera, veniva annunciata la fine delle trasmissioni: c'era una sigla visual di chiusura e poi potevi anche spegnere perché tanto fino alle sette dell'indomani solo il monoscopio sarebbe silenziosamente campeggiato sul tuo schermo: un disco graduato con la scala dei grigi (più tardi quella cromatica) e la scritta Rai-Tv. Da quel momento in poi eri libero per un libro, per intrattenerti con i tuoi, per non andare a letto troppo tardi.

Non è più così. La tv adesso è presente sempre. Non spunta una volta al dì come i giornali, o quando vuoi tu se tiri giù un libro dallo scaffale. O come il cinema, o il teatro, o il comizio, se ti vesti, esci e ci vai (o infili, dopo cenato, un DVD nel driver). O come il telefono quando suona oppure sei tu a comporre un numero. O come se decidi di sederti al computer e connetterti con un tuo corrispondente o con un sito di cultura, o di svago, o di servizio. Anche la radio c'è sempre, intendiamoci: in qualunque momento la cercassi, l'avresti subito nelle orecchie con un clic. Ma la televisione non è come la radio: vuole essere guardata, è seduto e attento che ti vuole, è attraverso l'occhio che ti cattura; è davvero una finestra, dato che non si limita a parlarti ma insieme ti mostra. La tv - controllatelo soprattutto sui vostri bambini ma lo fa anche con gli adulti - dà assuefazione. Rende dipendenti. E ha centinaia di canali e migliaia di programmi. Tutti pronti lì per te senza soluzione di continuità, alba e cuor della notte compresi. Anche i giornali hanno moltiplicato il numero delle pagine, ma è per la pubblicità e per le informazioni finanziarie, non perché ti sia cresciuto il tempo che tu destini a leggere. Anzi, dicono le statistiche, ne compri di meno. La tv ha invaso la tua vita, invece: in casa ne hai due o tre, ed una è certamente nel luogo dove mangi perché è proprio con l'ora dei pasti che coincidono le cadenze canoniche dei suoi messaggi. E, come non bastasse, ora te la puoi pure ritrovare sullo schermo (poiché adesso ha anche un vero schermo e non più solo una striscia di display) del tuo telefonino cellulare che, in tasca o appeso alla cintura, non ti lascia mai neanche in strada.

Che la televisione sia un medium più prepotente degli altri, imponendoti programmi calibrati per qualunque ora della giornata, come se non avessi altro da fare, anche nel tempo libero, che badare a lei, resta sottolineato anche da un altro elemento. Alla cui evidenziazione va data una forma particolarmente forte, anche aggiungendovi un codicillo per solito trascurato e che qui io pertanto non mi limiterò a enunciare ma proprio lo sparerò. Esso riguarda la pubblicità ed è il seguente. La pubblicità è naturalmente una modalità comunicativa legale e, quando nei contenuti non sia bugiarda o anche solo ingannevole, o tanto esaltante da poter indurre a rischio, certo del tutto lecita. La accettiamo quando è esposta negli appositi spazi urbani, e anche trovandola nei media stampati non ce ne possiamo lamentare perché è consapevolmente che li abbiamo acquistati noi stessi, e poi possiamo sempre saltare pagine mentre li sfogliamo. Persino a quella che ingorgantemente ci arriva via computer possiamo fare opposizione, inserendo un software filtrante che ce ne escluda. E a quella che intasa le nostre caselle per le lettere nelle portinerie di casa, pure: noto infatti come sempre un maggior numero di palazzi rechi accanto alla fila dei campanelli una targa in cui è scritto «In questo stabile non è gradita la pubblicità» (poi magari c'è lo scemo strafottente che, in violazione di questo deliberato del condominio, sente il citofono e apre lo stesso). Ma con la televisione come si fa?

Al suo continuo propinamento imposto si può sfuggire solo spegnendo, facendo zapping o uscendo dalla stanza per il tempo che dura. Ma c'è un effetto negativo il quale resta invece inevitabile. Quello della costante interruzione dei film con gragnuole di spot che durano anche cinque minuti al colpo. E io ritengo, ecco, che si possa reagirvi anche al di là della lamentela che già è stata più volte espressa da cittadini e cineasti. Ci sono opere di particolare qualità e caratterizzate proprio dal ritmo della loro fluenza le quali non solo soffrono di questi iati, che ne feriscono lo stile e ne menomano l'apprezzamento, ma scuotono i nervi dello spettatore o lo riducono all'isterìa (non sono certo il solo cui succede spesso). Immaginate se, per analogìa, nei concerti anche sonate e sinfonìe venissero interrotte più volte e a tempo fisso da canzoncine pubblicitarie. I gestori di televisione sono gli unici che possono portare la pubblicità dentro la nostra privata abitazione senza chiedere permesso e ficcandocela negli occhi proprio mentre siamo intenti a seguire sullo schermo ben dell'altro. E questa non è solo volgare maleducazione, costituisce altresì un abuso. Il di più che intendo qui denunciare io è proprio su questo che si fonda: a) violazione di privacy rientrante nelle caratteristiche di reiterata insistente molestia, e potrebbero farsene carico presso la magistratura le associazioni dei consumatori; b) lesione a una forma di diritto d'autore a fronte della quale toccherebbe, penso, anche alla stessa SIAE, per suoi doveri istituzionali di tutela, d'intervenire in modo impedente. Maleducazione ed abuso che sarebbe poi inaccettabile - va detto subito - ci venissero giustificati con l'esigenza di quei proventi pubblicitari senza dei quali non ci sarebbero i mezzi per allestire gli altri programmi in palinsesto. E ciò appunto perché non proviamo proprio alcun bisogno di quei programmi (almeno per metà programmi-frescaccia, futili e per diversi motivi anche dannosi), dai quali costituirebbe anzi grande sollievo l'essere liberati.

Ho accennato più su al fatto che le ultime generazioni di telefonini cellulari (UMTS, cioè videofonìa) sono concepite per trasmettere anche immagini fotografiche e filmate e per ricevere, oltre a queste, pure programmi televisivi. Non sono certo fra quelli che esclameranno «Uàu!» per l'avverarsi di questa possibilità. Sono anzi fra coloro che apprendono con la più viva delle preoccupazioni che in tutta Italia, in vista di ciò, sia i gestori UMTS che quelli GSM hanno già avanzato zona per zona alle competenti autorità locali la richiesta di raddoppiare (sì: raddoppiare!) a questo scopo il numero di antenne ripetitrici finora istallate. Già quelle esistenti costituiscono grave e delicato problema di inquinamento elettromagnetico dell'atmosfera, implicante gravi conseguenze per la salute dei cittadini, e sono già molte le denunce di sforamento dei tassi consentiti e relative richieste di rimozione di eccedenze per questi impianti. E invece ci troviamo di fronte a una prospettiva di giganteschi incrementi nel loro numero e nella loro potenza... Ma è mai possibile continuare a chiamare «progresso» qualcosa i cui contenuti siano civilmente regressivi e infantilizzanti e le cui forme tecniche siano fatalmente intendibili come, con piena rimozione di ciò, indirizzate a collettivo suicidio? Il fatto che i danni alla razza umana non siano immediati ma solo progressivi non basta a non far provare una certa nausea nell'aver chiaro che ci troviamo davanti non a una generosa opera di soddisfazione di bisogni che l'umanità avrebbe (un altro "balzo in avanti", visual stavolta, dopo quello che ci ha portato, ehilà, alla Civiltà dei SMS), bensì alla semplice e contingente affermazione della Legge del Profitto come la priorità assoluta nei compiti che, mamma mia, su questa Terra avremmo. Che ve ne pare di questo fatto che i produttori di merci siano diventati, fregandosi le mani, le nostre guide spirituali? E' tornato, il Messia, si chiama Bill Gates Microsoft, incarna Paperone ma avranno entrambi, non c'è da dubitarne, un bel posto proprio nella storia non della tecnologia bensì della filosofia, suoi capitoli terminali.