Pensiamoci un poco, ci saranno anche i giochi solitari, a cominciare da quello famoso che faceva Napoleone con le carte per ingannare la melanconìa lugubre di Sant'Elena. E culminando poi con quelli angosciosi del puntatore di fiches alla roulette e quelli che hanno per luogo gli sportelli di scommesse, dal lotto (semplice e super) ai cavalli. Ma il gioco, il gioco vero, quello che è goduto anche se non si vince dato che non tutti i giochi presuppongono vittoria e sconfitta, fortunatamente, quello che cioè si gioca per giocare e basta, è qualcosa che presuppone dei compagni: al limite almeno uno, ma anche tanti. Non si può giocare davvero se il gioco non è passione condivisa - condivisa nel suo svolgersi, dico, e non nel suo esito - e non si può condividere senza comunicare. Il gioco, si tratti d'esercizio fisico o d'impiego di risorse mentali oppure semplicemente d'allentameno rilassante del nostro insieme, è sempre salute della nostra psiche, sempre affinamento dei nostri sensi, sempre galvanizzazione del nostro spirito, sempre scambio di qualcosa con qualcuno e ha dunque necessariamente anche una valenza sociale.

Io ho sempre preferito quelli dove la fortuna, intesa come casualità, non ha modo di incidere sul loro andamento e tutto è affidato alle capacità e al calcolo dei partecipanti: come i giochi di scacchiera e quelli con le biglie (anche pensare la prossima mossa o colpo di stecca è un collocarsi contemporaneamente nella mente del partner/avversario, quasi a forzarlo telepaticamente). Ma ho pure un paio di amici che si prenotano il campo da tennis per la domenica presto e un paio di amiche che vanno di pomeriggio al circolo per smazzare bridge mentre sorseggiano tè. Però i giochi più densi (posso usare questo aggettivo, vero?), dispongano o no di un pubblico, sono quelli collettivi: siano agìti cioè festosamente dai bambini nel cortile di scuola o ai giardinetti, oppure spruzzino di adrenalina mista a sudore l'erba degli stadi dove rimbalzano sfere di cuoio prese a pedate. Insomma, oggi ci occupiamo, guarda un po', di comunicazione ludica.

In francese jouer, in inglese to play, in tedesco spielen, sono verbi che significano indifferentemente tutti sia «giocare» che «recitare» o «suonare», insomma «dare spettacolo». Solo in italiano si dice giocare intendendo «giocare» e basta. Per il resto occorrono altri verbi. E questa per me è un'italica carenza non solo semantica, che peccato. La mancata estensione implicita a un arricchente coinvolgimento così plurale è infatti limitativa del concetto. Come se il gioco fosse davvero solo un divertimento fine a se stesso, istintivo e non anche imparato, e non gli occorresse cioè in qualche modo anche arte. E non ha infatti questa stessa un verso ludico, passando essa necessariamente per quello inventivo ed estetico? Latinamente, i ludi erano gare, e pure agòn, in greco, era sì luogo di assemblea ma anche di gareggiamento (da cui, in italiano, «agonismo» e «agonistico»). Non è arte solo dipingere, scolpire, far musica: quelle si chiamano infatti «belle arti»; non ci vuol arte a far ruotare, del tanto occorrente e neanche un po' di più, il piede sul malleolo per dare quell'effetto lì che sia decisivo, al pallone colpito? e non ci vuol forse arte a fare le smorfie perché gli altri bambini seduti a cerchio indovinino a quale titolo di film sta, per turno, pensando la tua figliola? Non c'è gioco il quale non presupponga una qualche abilità: dalla moscacieca alle freccette, dalla caccia alla volpe al Ma-jong. E persino per barare ce ne vuole tanta. Così come appunto non c'è gioco attraverso il quale non ci si comunichi qualcosa.

«Comunicazione - scrive Umberto Eco che se ne intende - è una parola magica». La nostra epoca la usa infatti come se muovesse davvero la bacchetta di Merlino. Perché passa come niente fosse dal concreto al virtuale, immaterialmente mediata non solo fra le nostre identità fisiche ma anche fra le nostre immagini. Che non sempre ad esse corrispondono. Sono io proprio così come ti appaio su uno schermo? E sono a mia volta sicuro che tu, massa invisibile a cui mi rivolgo, sei davvero come ti penso io? Comunicazione, allora, anche come BIG GAME! Ma non dobbiamo credere che solo perché si chiama «gioco» debba sempre essere anche gioioso. C'erano dei popoli, in passato, per cui era ludica pure la guerra; e non solo primitivi: «Il mestiere delle armi» ha intitolato Olmi il suo ultimo film, quello su Giovanni delle Bande Nere, dove mestiere stava appunto per arte, sia pure malintesa; e Robin Hood con lo sceriffo di Nottingham ci giocava. Ci gioca, il gatto col topo. Così come ci sono i momenti ludici anche nell'amore. Se quelli della guerra corrispondono ai momenti dell'azzardo, in amore invece ci sono quelli, non infrequenti, della commedia. E' non è proprio ludica anche l'emotività del rotolarsi nudi in due e con fantasia, scompigliando lenzuola? Il sesso amoroso costituisce il top dello scambio comunicativo interpersonale.

Giocare, comunicare. L'aggettivo «giocondo» è appunto nel sostantivo «gioco» che trova radice, e ciò è elemento denotativo sufficiente a ritenere che un gioco non possa essere mai triste. Anche se tristi sono molto spesso i clowns; nati per fare ridere ma il cui trucco facciale può pure includere una grossa lagrima bianca dipinta sul paonazzo delle guance. Talvolta l'allegria diventa seria nel senso che può trasformarsi in entusiasmo, o euforia. E allora ecco perché anche la guerra gioco non può essere più: quando anche grandi masse si affrontavano sul campo di battaglia il tutto si scomponeva in un'infinità di singoli duelli. Ed essi potevano poi trovare rappresentazione ludica nei pubblici tornei. Conosciamo dal cinema sia il giocondo spadaccino quasi danzante che il risolente pistolero dalla mira tipo microscopio. Ma nella guerra odierna, non più giocata uomo contro uomo petto a petto, e dove invece uno solo può, premendo un pulsante, ucciderne cento, ditemi se ancora si può parlare di confronto e quindi di gara, come se ancora si incrociassero scommettenti spade o baionette o fosse ancora decisivo lo sparar destramente per primi e avere occhio preciso. Gioca, Uma Thurman caprioleggiando in «Kill Bill» tutta sporca di sangue tra le fischianti lame-rasoio delle spade giapponesi che sventrano e amputano, ma è la stessa cosa - e produce la stessa non impressione - di quando in un cartoon Gatto Silvestro vien fatto a fette o gli esplode un tubo di dinamite in bocca. Lo stesso per Banderas che cammina col suo micidiale sputafuoco nell'astuccio di un violoncello da cui uscirà un giocolierato di pallottole. E il maxigioco delle «Guerre Stellari» di Spielberg/Lucas può mostrarci ecatombi che a tutto ci possono rimandare meno che a tragedia. Così come sono più divertenti che danti brivido od efferati tutti i gadgets di 007 e gli espedienti pure ad alta tensione con cui Indiana Jones esercita il suo humour drammatico. Il tuffo nel cinema di questo capoverso serve anche a dimostrare come questo multiforme medium comunicatore di emozioni tenda a trasformare le sale di proiezione sempre più in ludoteche nella cui disponibilità trovan posto anche troppe Lara Croft e troppi esasperati e macchinalmente autoironici casi di pupazzismo alla Matrix, caricaturali eredi dei disastri e delle catastrofi che eran capaci di produrre Stanlio ed Ollio anche partendo da minuscoli nonnulla; e lasciando ormai pochissimo spazio al cinema delle grandi storie umane e dei grandi problemi.

Comunicare attraverso il gioco è oggi come oggi anche una risorsa politica, e quindi culturale. Non c'è personaggio pubblico che non diventi caricaturale marionetta quotidiana nella gremita galleria che offrono le vignette dei giornali e le trasformazioni sceniche di questo Fregoli donna che è Sabina Guzzanti. La satira è gioco ed arma insieme, ed è dai tempi di Bertoldo e di Wamba che dentro ad ogni giullare vive l'anima di un giustiziere delle alterigie stupide e delle più ottuse prepotenze. Il gioco possiede un gran potere distruttivo di prosopopee d'ogni tipo, e ci sono almeno due nostrani personaggi che maneggiano inchiostro disegnante in modo da poter essere considerati due autentici geni: Altan e Jacovitti (quest'ultimo purtroppo dipinge ormai salami in Paradiso, facendo ridere sotto i baffi anche San Pietro e, credo/spero, pure quel suo principale col triangolo in testa; l'altro invece è ancora vivo e vegeto). Il primo tratteggia su «Repubblica» vignette semplicissime di tratto e icastiche di battuta candidabili a far parte delle migliori prossime crestomazie; ognuna delle quali fa sentire sotto la sua apparenza grottescamente sommessa il tuono di una cannonata e il sibilo del proiettile che s'abbatte sul nostro mondo politico come nessun intervento dell'opposizione parlamentare a Montecitorio riesce a fare. E il secondo è riuscito in un'impresa smitizzante che sarebbe parsa del tutto impossibile a fronte di quanto sian forti e ipnotici i simulacri sessuali che si ergono dalle edicole, dai cinematografi, dalla pubblicità, da ogni genere di video, a circondarci con la tecnica del bombardamento a tappeto. I suoi sghignazzi grafici smontano dalla base la torbidità seduttiva del nudo ostentato, del sesso praticato in visual, dell'uso del corpo umano come spettacolo ottundente e fonte di profitti patologici, trasformando il tutto in figure d'un grottesco assolutamente esilarante. Le tavole del suo «Kamasutra» costituiscono un gigantesco geometrico sberleffo, che non si può sfogliare senza ridere con le lacrime, e le sue cinquantasei carte da gioco seme per seme costruite come una comica calvacata di iperboli genitali demenzial-surrealiste mandano in tilt qualsiasi possibilità di eccitarsi. Impagabili entrambi.

Molte volte è proprio trasformandolo in gioco, insomma, che il nostro messaggio non ci dà ansie costruttive e arriva dritto ed efficace dove arrivare deve. Infelice chi non dispone di questa risorsa tramutante, chi tragicizza o rende serioso ciascun suo rapporto, chi non fa mai un gioco di parole (con una solo pungente vocabolo francese calembour) per disingessare i propri discorsi e impedire alla ritualità di sopraffare l'umanità che dovrebbe invece caratterizzarli. Lo scherzo è gioco ma è capacissimo di essere anche verità. E di toglierci dagli occhi le fettine di prosciutto che altri invece vorrebbe ci restassero ad essi perennemente molto ben incollate.