Non poi sino a molto fa i modelli di vita e di comportamento e quelli cui ispirarsi e da raggiungere venivano forniti, fondalmentalmente, alle generazioni sorgenti dalla famiglia e dalla scuola. Qualcun altro dal servizio militare. E non da breve: da secoli e da millenni. Era da queste due fonti più una che provenivano gli apprendimenti caratterizzanti, quelli che lasciavano il segno. Oggi essi vengono invece impartiti - perchè non dovrei essere così brutalmente franco? - dalla televisione, o comunque tramite la televisione, in modo alternativo e prevalente, e fin dalla prima età. Elementari, medie inferiori, licei, facoltà universitarie, sono rimaste dispensatrici di "pacchetti" di nozioni generali o di segmenti d'esse, e spesso schematizzate, che neanche riescono più ad essere basiche quanto servirebbe (storiche o scientifiche che siano), e di know-how tecnici. Da quelli iniziali alfabetizzanti ed aritmetici a quelli superiormente più specialistici e magari sofisticati. E' la funzione complessivamente chiamata educativa che è passata, insomma, di mano. Le famiglie si sono arrese, la scuola s'è accomodata, (e anche il servizio militare non c'è più). Cosa intendiamo, però, per modelli? Questi restavano già allora, più che ai libri, affidati all'esperienza primariamente fattibile: quella nascente cioè dalla relazione umana con gli ascendenti in casa; e con i propri insegnanti in classe. C'era il cinema, ultimamente, ma esso era episodico come la lettura di un romanzo.
Tutto questo è stato spazzato via due volte. Una volta da un movimento socio-culturale di ribellione, quando una generazione si accorse - e gli studenti per primi, intellettuali per definizione - che quella precedente era rimasta indietro di fronte alle novità del mondo. Ed aveva perciò anche prodotto delle strutture di comunità ed una classe politica del tutto inadeguate. Questo sommovimento è passato alla storia come Il Sessantotto (primo capitolo Il Maggio Francese, secondo I Campus Americani, ma poi non ebbe più confini nazionali). E un'altra volta, poi, dai media immateriali che, non avendo più bisogno di fisicità, erano in grado di raggiungere chiunque dovunque in tempi reali e di passare come un rullo su tutto, fornendo insieme informazione suggestiva ed immaginario fortemente alimentato. Fino a soppiantare appunto focolari e cattedre, non parliamo dei capitani. E con la, tremenda, capacità di tramutare anche gli hippies in yuppies in breve giro e a battaglioni.
Quali modelli, dunque? Oggi sono i genitori che copiano spesso i figli e si fanno insegnare da loro qualcosa e qualche volta anche riprendere; oggi sono i professori che vanno a far lezione, non c'è niente di male, in maglione. Se assisto a un uscita in gruppo di adolescenti e la confronto a quelle dei miei primi calzoni lunghi, questa è certamente più colorata della sobrietà di toni d'allora, ma noi avevamo maggiore varietà nelle cravatte, che riflettevano più il gusto delle singole mamme che un nostro autonomo, mentre adesso ritroviamo semplicemente quanto detta il casual dagli schermi, dai dépliants, dalle vetrine. Dalla vita in giù, poi, i jeans bisex e le scarpe sportive richiamano addirittura come un'uniforme. Naturalmente, all'origine c'èra un bisogno proprio giovanile di vestire comodo smettendo di andare anche a scuola non solo con giacca ma col cappello e col gilè, ma poi sono i produttori di abbigliamento ed accessori a farsi sotto ed alla fine imporre modelli. Lasciate fare (sono solo esempi) alla Nike e alla Sisley o alla Benetton, che hanno target di massa: fra le calzature che ho citato e le Adidas, per dire, non è che vi sia gran differenza funzionale ed estetica, ma vince fra loro due chi riesce a fare la campagna pubblicitaria più suggestiva o il cui affidatario creativo si fa sgorgare dalle meningi la miglior trovata. Ma è lo stesso per chi deve vendere maglieria, giubbotti e bomber.
Scansiamo un possibile equivoco: non sto mica elogiando il passato e criticando il presente, nel quale cerco poi di vivere immerso pure io; sto solo svolgendo il ruolo di osservatore non passivo che m'appartiene. Il fatto che si stia rarefacendo il tòcco personale nel vestiario va in parallelo col modello alimentare: è mai possibile attribuire, per dire, a un improvvisamente insorto bisogno collettivo di dimensione intercontinentale il boom delle patatine fritte? Il taylorismo, ora sostituito dalla robotica, era cominciato con l'industria dell'automobile; ci ha messo un secolo ma ora è arrivato addirittura in cucina. I messaggini telematici via cellulare sono, a loro volta, molto più piattamente omologati (ne forniscono lessico e modalità grammaticali appositi calepini diffusi dai vari gestori di settore) di quando la comunicazione amicale ed amorosa era epistolare e i diari stavano chiusi nei cassetti. E se ti serve un emoticon (ma io preferisco dire «faccina», che è più cordiale) non lo devi inventare da solo: te lo scarichi semplicemente dai siti repertoriali di Internet.
Non basta che muoiano i galatei nel privato, che l'etica evapori dalla politica, che l'economia diventi sempre più selvaggia, perché si possa dire che a una rigidità di steccati s'è sostituito un clima maggiormente libertario, fantasioso, iniziativista. Semplicemente un nuovo standard massificante, dietro al quale stanno potenti e vaste alleanze per comune riposizione d'interessi, ha preso il posto dei precedenti, che erano comunque plurimi, e le sue maglie sono più strette e meno smussabili non solo perché i loro fabbri sono più lontani e irraggiungibili ma soprattutto perché le loro intenzioni sono molto diverse dalle nostre. E anche perché di tutto si fa per ostacolare il nostro accorgercene.
La tv e la pubblicità (e dunque in fondo sempre la tv) forniscono modelli in tutti i campi e sono appunto modelli socialmente livellatori. La famiglia contadina, quella operaia e quella borghese coltivavano da sempre aspirazioni ben distinte, anche quando contenevano propositi di promozione sociale per i loro figli. Difficile ora non considerare un borghese assimilato anche il contadino inurbatosi da una generazione o l'operaio non più proletario. E infatti da ciascuno ex radicalmente differente comparto sociale provengono, in ormai perfetta uniformità culturale, le migliaia di candidate al ruolo di «velina» di cui leggiamo sui giornali; ruolo ovviamente inteso come primo ma già gratificante gradino di una professione; come potrebbe essere il fare, che so, per intanto l'uditore giudiziario: il resto verrà, no? «Cosa vuoi fare da grande?» è sempre stata domanda paradigmatica in ordine a una ghiottoneria di modelli. Sì, c'è ancora chi vuol fare il chirurgo (aiuta per la verità, settimanalmente, anche «Medici in prima linea») o il marinaio o la segretaria d'azienda, fra i giovanissimi. Ma è più facile trovare chi le aziende voglia sin d'ora arrivare a dirigerle e chi miri a palcoscenici comunque bene illuminati.
Non è più tanto una passione specifica, la quale può anche essere povera d'emolumento, a costituire contenuto maggioritario di questa risposte ma qualcosa che primariamente assicuri successo e guadagno. La sindrome da ristrettezza del mercato di lavoro fa mirare alto, ed è facile che anche chi si nutra di ambizioni artistiche guardi più al campo pubblicitario che all'affrescare pur importanti palazzi. Così come chi ha stimolo a viaggiare oggi si modella verso la figura del tour operator e chi, sentendosi desideroso d'avventura, non ha più per modello l'esploratore che cerca mondi nuovi percorrendo fisicamente altri continenti ma la persegue nel nonostante tutto così ancora vergine universo informatico, vuoi da desk che da Rete. Modelli giornalistici, dalla TV? L'anchorman alla Cronkite non invoglia, troppo difficile; meglio aspirare a fare gli intervistatori delle «Jene», che sono divertenti e in vista; sugli schermivideo italiani non c'è più un camminatore come Fulvio Grimaldi col suo cagnone sotto il braccio, ma c'è ancora Milena Gabbanelli con la sua esemplare rubrica «Report». «Voglio fare lo scrittore» era una risposta che aveva altri colori una volta. Libri o copioni che fossero. Ma chi, diciamolo pure, scrive più oggi per il teatro? La sua storia continuerà, perché sorretta da attori e da registi, e perché continueranno ad essere rappresentati Eschilo e Shakespeare, Molière e Goldoni. Ma gli autori? I grandi drammaturghi? Chi mai, e da tempo, scrive più per il teatro? All'epoca nostra si scrive per il cinema e per la tivù, diamine. Gli ultimi a restar ricordati ai posteri potranno esser stati, dico a casaccio e mischiando qualità, Lorca e Ionesco, Beckett e Miller, Pirandello e Williams, Eliot e Sartre, qualche altro ancora (Testori?). Potrebbe mai far sorgere un altro Brecht la televisione, invece del palcoscenico? Vien da sorridere amaro. Quella tv che rigetta da sé persino un animale televisivo perfetto, ma intenso drammaturgo insieme, come Dario Fo? E che proclama invece suoi re di scena e di concetto i Bonolis, le Ventura e i Vespa?
Né è più in grado di fornire modelli la politica, scomparsi quelli risorgimentali che venivano proposti alla mia generazione adolescente, e quei grandi e colti asceti di essa d'ogni schieramento che sono stati i fondatori di questa Repubblica. E povera di stature e di proposizioni di idee com'è, andiamo, anche su scala mondiale. Potremo erigere busti al Chè (il cui obiettivo era l'impossibile e dunque resta solo, più che un imperseguibile modello, un grandioso simbolo di onestà e di coraggio che i giovani hanno capito alternandolo sulle loro magliette all'effige quasi sciamanica di Bob Marley) e a Luther King nonché, quando sarà, a Nelson Mandela. Ma in Europa a chi ancora, se l'unico esemplare che mi viene in mente oltre a questo eroico apostolo ecumenico di Wojtyla così grandemente diverso in quasi tutto dai suoi predecessori è un signore grasso che si chiamava Winston Churchill e al cui testardo carisma tutto questo continente deve l'essere rimasto libero?
Elenco un po' di modelli che ci vengono forniti invece adesso: la famigliola che abita quel Mulino Bianco slurpandosi di crackers e sfogliatine; il bevitore di felicità in bottiglia con sullo sfondo un disco rosso con su scritto Cocacola; il signore che vivrà il resto della vita contento e protetto perché ha affidato i suoi risparmi a un consorzio di banche; la benefattrice visiva che percorre senza stoffa indosso i dodici mesi d'un calendario; l'uomo di governo che racconta barzellette e fa le corna e quell'altro che definisce gli extracomunitari «negri di merda»; i benevoli ritratti di coloro che hanno con paperonica stupidità reso ed acceso polveriera a lunga gittata Medioriente ed Asiaminore; i giocatori di calcio mostrati come nuovi torneanti protagonisti di chansons des gestes; le jet-set wonderwomen del cinema e del prèt-à-porter (quando ci sono le tette c'è tutto); sua maestà Pippobaudo I; l'abitudine da riprendere di MORIRE PER LA PATRIA (anche se non è proprio così, e comunque fuori dai nostri confini); quel fecondo paradiso dell'istruzione che è la scuola targata Zecchino & Moratti, sì che sia cosa ambìta diventarvi insegnanti e addirittura da leccarsi i baffi l'esserne studenti. La comunicazione è tante cose, tantissime importanti cose. Ed è però anche questo e sarebbe sbagliato ignorarlo.