Mi hanno regalato un libro, l'altro giorno, chiedendomi come mai su questo genere comunicativo, in una novantina ormai di questa rubriche da me scritte per «Ateneonline», non mi fossi ancora mai soffermato. Il libro si intitola «Il fotoromanzo», l'ha scritto Anna Bravo, che insegna Storia Sociale all'Università di Torino, ed è edito da «Il Mulino» - che in materia di comunicazione ha in catalogo una quantità di interessantissimi titoli d'autori italiani e stranieri - in una sua pregevole collana diretta da Ernesto Galli della Loggia che si chiama «L'identità italiana». Di essa segnalo oltre a questo, fra i molti, qualche altro titolo che potrebbe destare interesse presso il genere di lettori (magari non saranno tantissimi) che segue me: «I braccianti», «Coppi e Bartali», «La pasta e la pizza», «Il liceo classico», «Lo Statuto albertino», «Le ferrovie». Va bene, accontento la donatrice - e insieme anche me, naturalmente - e a questo tema dedico la rubrica di questa settimana.
Prendo però le mosse da un genere a me molto più vicino, andando cioè a cercare, in un altro dei miei scaffali, una citazione di Will Eisner, un "classico" del fumetto americano, autore di un personaggio singolare e intenso come The Spirit (una specie di Uomo Mascherato - The Phantom nella versione originale - vestito però in borghese e operante nelle città e non nella jungla; e anche più filosofo di lui). Dice Eisner, nell'introduzione all'edizione italiana di una delle sue opere disegnate, «Contratto con Dio»: «Il fatto che venga pubblicato in Italia è per me significativo perché è in questo paese che scoprìi “Grand Hotel“, una pubblicazione assolutamente pionieristica che veniva pubblicata a Roma subito dopo la seconda guerra mondiale. Era in formato tabloid e per raccontare storie utilizzava istantanee fotografiche a cui i dialoghi venivano aggiunti in forma di balloon o nuvolette. Apparentemente il loro tentativo era di raggiungere un pubblico più maturo con trame "adulte" che però si riducevano sostanzialmente a delle soap opera. Pur contrariato dalla sterilità delle istantanee rispetto alla vitalità del disegno, non dimenticai mai questo interessante esempio del potenziale narrativo delle immagini in sequenza».
Presentato così il genere attraverso una testimonianza iniziale più interessante d'un'eventuale mia, che pure in adolescenza e già attratto dal visual qualche occhiata non solo a «Grand Hotel» come lui ma anche a «Bolero Film» e a «Sogno», tutti settimanali dalle tirature a suo tempo altissime, avevo allora dato, eccomi a metter giù come da richiesta alcune considerazioni in merito, retrospettive e d'attualità. Ricordiamoci anzitutto com'era il nostro cinema, a quei tempi. Una volta sparita nei tragici fragori - e conseguenze - del disastro bellico l'èra cosiddetta dei "telefoni bianchi" e sopravvenuto il neorealismo, di quella s'erano comunque verificati infiltramenti nostalgici a livello sia popolare che borghese, con anagrafe di mercato sia adolescenziale che di mezza età anche se soprattutto femminile, e c'erano da sostituire i volti e i caratteri di quei personaggi e storie prima interpretati dai vari Amedeo Nazzari, Vittorio De Sica, Gino Cervi, Roberto Villa, Massimo Girotti quand'erano ancora bellissimi e fatali giovanotti amoreggianti sullo schermo con Alida Valli, Lilia Silvi, Isa Miranda, Vivi Gioi. C'era insomma un più mieloso immaginario da ricreare, ora che i loro volti al cinema avevano assunto più drammatiche sembianze e le storie da cui emergevano erano più crude e corrusche, più implacabilmente legate a cronache nuove, vuoi "nere" vuoi di miseria. E a questo supplì la carta stampata. Di questo tipo. Con immediato boom.
In casa mia la leggeva la donna di servizio, non noi, ma io ne ero incuriosito. Alceo Del Duca, detto Cino, poi anche big della produzione cinematografica, fu il padre primo di questo tipo di editoria. Negli anni 30 aveva editato fumetti (la serie de «L'Intrepido») e forse non ci credeva neanche lui quanto successo avrebbe avuto, quanti soldi gli avrebbe fruttato quest'impresa qui, comunque geniale. Essa aveva un pubblico, indaga nel suo libro la Bravo, che non era normalmente raggiunto dagli altri mezzi di comunicazione e tuttavia comunicazione domandava, anche se solo come via d'evasione e di fuga. La prima uscita di questo prodotto nuovo ha una data che fa storia, il 29 giugno del 1946, poco più d'un anno dalla fine della guerra: 100mila copie di tiratura, subito ristampate (stando a leggenda) quattordici volte. Quanto sarebbe oggi in share? Il precedente immediato, e altrettanto fruttifero, dell'idea di Del Duca era stato il feuilletton a puntate dei quotidiani, importato dalla Francia un secolo prima (a cadenza quotidiana c'erano là anche le firme di Dumas e Zola), e portato qui alle stelle da Carolina Invernizio e William Galt (Luigi Natoli); che però prediligevano storie avventurose e strappalacrime ambientate in epoche più lontane. A scrittrici famosamente rosa come Luciana Peverelli o a delle Liala di serie B, subito scritturate, Del Duca chiedeva invece canovacci contemporanei pieni di sentimenti forti, animi nobili e qualche perfidia, da far scontrare con vicissitudini amorose, interferenze ledenti cuori, riparabili disavventure condite da gelosie, vendette, travolgenti passioni e verginismi delicati, maliardità ed eroismi.
All'inizio non erano foto ma un'ibridazione tra fumetto e illustrazione, cioè acquarelli monotinta (scala di grigi, si direbbe oggi) che alla fotografia s'avvicinavano il più possibile ed erano eseguiti dai pennellini abilissimi, per citare solo i più famosi, di Walter Molino (che alla morte di questi rimpiazzò Achille Beltrame nelle famose tavole della «Domenica del Corriere» le quali appunto erano state ispiratrici tecniche di Del Duca ) e di Rino Albertarelli il cui Kit Carson a inchiostro di china fu per i ragazzi della mia generazione amanti del western quel che è oggi Tex Willer per gli odierni. Gli scatti fotografici subentrarono comunque presto, e in posa davanti a molto più anonimi operatori finirono, accanto ad altri che però non ebbero poi su di sè altro tipo di riflettori, alcuni giovani di belle speranze che si chiamavano Vittorio Gassman, Renzo Arbore, Giorgio Albertazzi, Mike Bongiorno, chiamati a sedurre, baciare, tradire, sposare, dolci o proterve signorine poi diventate la Loren, la Carrà, la Mangano, la Milo, fra una maggioranza di rimaste anonime. Naturalmente impoverì così davanti all'obiettivo, ma chi ci badava, la scenografia di interni: salottini, atrii d'alberghi, infermerie, cabine di nave (ambienti "pronti", cioè): per rappresentare un ufficio bastava si vedesse una macchina da scrivere; mentre dal pennello di Albertarelli e Molino potevano prima uscire anche palazzi di maharajah o movimentati campi di battaglia pieni di cavalli. In cambio, divennero rapidissimi i tempi di esecuzione: due scatti e via, invece di star curvi sui fogli con tempi di consegna d'una tavola al giorno.
Quanto dura, questa grande ubriacatura del fotoromanzo cui s'abbandonano cameriere, commesse, sciampiste, contadinelle inurbate e magari maestrine? Qualche decennio, e anche clamorosamente esportandosi nel frattempo da qui fin nelle due Americhe da dove, come stiamo per riferire, da noi tornerà anni dopo con altri abiti, facendosi anche ironizzare da Gianna Nannini con la sua «Fotoromanza» («Quest'amore è una camera a gas / è un palazzo che brucia in città / quest'amore è una lama sottile / è una scena al rallentatore / quest'amore è una bomba all'hotel / quest'amore è una finta sul ring / è una fiamma che esplode nel cielo / quest'amore è un gelato al veleno»). Il fotoromanzo è insomma diventato movie e rinasce televisivo dopo esser fulmineamente e senza soffermarvisi passato, in Italia, attraverso il cinema con «Lo sceicco bianco» di Fellini. (Ma ci fu, per la verità, anche il datato filone dei Matarazzo con l'ingrigito Nazzari tormentantesi dietro a Yvonne Sanson, e quello partenopeo in cui singhiozzava lo zappatore Mario Merola). Non si chiama più «Anime incatenate» o «Tu, la mia follìa» come negli anni del suo splendore, si chiama «Dallas» o «Beautiful», si chiama «Mandingo». Oddìo, se ne stampano ancora, su carta, ma l'onda di piena è passata da un pezzo. E' davanti alla tv che adesso bisogna stare seduti, e il target conquistato si allarga a dismisura. Nessuno più si ricorda chi era Flora, la più nota protagonista del fotoromanzo delle origini, ma tutti sanno tutto di Sue Ellen, Ridge e Jèi-Ar. E vanno avanti per migliaia di puntate. Pure il fotoromanzo era moderatamente trasgressivo, anche se non andava oltre una scollatura alla Hayworth e a un succinto bikini, o a un'angosciosa nascita extraconiugale. D'Oltreoceano ci torna invece assai più spregiudicato e cattivo, assai più cinicamente pragmatico, assai più high class e indollarito. E soprattutto, svincolandosi dalla carta stampata, ha cambiato nome assumendo quelli, coniati altrove, di soap opera e telenovela.
Qui devo fare una confessione: io avevo come tutti sempre indifferentemente usato uno o l'altro di questi due termini per riferirmi a questo prodotto televisivo, comunque infatti richiamante l'evanescenza biodegradabile di quanto raccontato. E invece uno studente che aveva seguito il mio corso di linguaggio radiotelevisivo dell'anno scorso mi ha poi portato all'esame una tesina di sua analisi del fenomeno la quale mi ha reso più attento alle caratteristiche distintive dall'una e dall'altra possedute. Così adesso sono in grado di spiegarle a mia volta io. Allora: la telenovela (proveniente dal Sudamerica, Brasile ed Argentina) può durare, a puntate settimanali, anche anni - così come il genere che le è cugino - ma è sempre un racconto, che tende, con ondate di suspense, a un finale. Potrà avere varianti di sceneggiatura determinate da sondaggi effettuati via via sul pubblico; potrà anche capovolgere all'ultimo la conclusione già preparata, se si percepirà per quella un gradimento insufficiente da parte degli spettatori. Poi basta: finis, the end. In cantiere ce n'è già un altra, diversamente ambientata, con personaggi nuovi. La soap opera nordamericana no: intreccia più storie in una, con emozionanti tensioni e colpi di scena anch'essa ma con personaggi che vanno e vengono e cui si presta attenzione di volta in volta. E soprattutto, al termine dello sterminato serpentone di puntate, finisce "aperta". Cioè non finisce mai: può riprendere, ics tempo dopo, proprio da dov'era rimasta, con gli stessi protagonisti fissi e con intrecci nuovi. Magari, se un attore è scomparso o non vuole tornare sotto contratto, anche il suo personaggio è notificato per morto o gli si fa fare un viaggio lontano comportante un'assenza che durerà per tutto il ciclo.
Il fotoromanzo è stato un comparto rilevante del costume italiano. Un po' romantico e un po' goffo, un po' modaiolo e un po' immutabile, un po' ingenuo e un po' provocante. Sempre sognatore e sempre cliscettato. Sottoculturale come livello ma in ogni caso consolatorio come funzione. Ha comunque abbonato all'edicola componenti sociali che non avrebbero altrimenti avuto motivo alcuno per avvicinarla e che così hanno avuto qualche sporadico contatto con aspetti diversi del mondo ed hanno comunque alimentato immaginazione. E, considerando anche il periodo in cui è nato e s'è imposto, ha assolto a un compito di tipo anestetico spruzzando in giro un po' di rosa sull'ambiente grigio di un paese ancora frastornato e ricco di macerie, la cui gente comune aveva intorno a sè tutto quanto da ricostruire. Adesso non avrebbe neanche molto senso una narrativa di quel genere, in una società dove ormai si abortisce legalmente, si divorzia con facilità e si convive senza necessità di sposarsi. Eppure ce l'abbiamo anche adesso, il nostro italico fotoromanzo, non più acquarellato in grigio o in seppia, non più fotografato con stereotipi in posa, ma tutto in bei cinematografici colori a far scena di sè in prima serata Rai. Si chiama «Un posto al sole», è ambientato a Napoli, assortisce personaggi a dozzine, chi stabile e chi di passaggio o di ritorno, ha superato il migliaio di puntate, e la realtà non la riproduce ma la romanza. Molte delle sue figure potrebbero ancora essere disegnate da un Albertarelli o da un Molino, moltissime altre no perché siamo da allora abbastanza cambiati e sono cambiate soprattutto le donne, ex pupe che hanno intrapreso un lungo cammino per diventar persone. Ma in video restano ancora agenti come stereotipate manichine.
Forse cinquant'anni fa anche una cura oppiacea fotoromanzata aiutava a trovare compensazioni alla vita d'ogni giorno, oggi però, col mondo sconnesso e incerto che ci ritroviamo intorno, di tutto avremmo bisogno ma non di questo. E intanto non è un oppiaceo ahimè solo «Un posto al sole», che è una soap opera fatta di tante telenovelas intrecciate, ma anche gran parte dei contesti televisivi che la circondano. Lasciate fare a Raffaella Carrà e a Maria De Filippi e vedete quante storie alla «Grand Hotel» o alla «Bolero» son capaci di tirar fuor dai loro talk-show. La televisione non è solo killer ma anche cannibale: ciò che uccide lo mangia, e poi lo risputa in variante mediatica. Quante, sono le sue vittime: ha ucciso i quotidiani del pomeriggio, le serate riuniti intorno all'apparecchio radio e le partite a carte dopocena, non ha reso più indispensabile andare di persona allo stadio; ha ucciso anche i fascicoli settimanali di storie fotografate. Ma ha ruminato tutto, e tutto metabolizzato, e tutto adesso ci ripropone. Solo che il fotoromanzo era patetico, negli anni Cinquanta, perché contemporaneamente c'erano giornali nuovamente liberi, un'editoria in ripresa, un cinema fortissimo, i romanzi di Vasco Pratolini che erano popolari pure, e le poesie in dialetto del giovane Pasolini. E il panteleromanzo generale che la tv ci propina invece ogni giorno adesso (dopo aver rinuciato persino ad essere televisione perché tele-visione, in realtà, è solo la "diretta") ci fa venir la pelle d'oca e provar timore solo pensando a come potrà essere diventata domani. E dopodomani. Prosit.