Sono andato, come tanti, a vedere "Final Fantasy" . Ma non ci sono andato per la storia, che tanto era buttata lì molto squinternata; nè per gli attori, che non c'erano; nè per l'autore-regista, Hironobu Sakaguchi, che non conoscevo. Ci sono andato per recepire - e rifletterci sopra - un'innovazione tecnologica che nel cinema è ancora più radicale delle sue tre, per miliarità, precedenti (il passaggio da cinepresa fissa alla mobilità grammaticale delle panoramiche e delle carrellate; l'avvento del sonoro; la sostituzione del bianco/nero con il colore). Scenografie e personaggi vi sono infatti per la prima volta completamente virtuali, cioè disegnati dal computer.
La frase che avevo in testa uscendo è una, famosa, di Flaubert e cioè "Bovary c'est moi". Qualcosa, cioè, di sorprendentemente incongruo (in apparenza): che c'entra mai? Ma costituiva semplicemente il punto d'arrivo di un processo mentale che ora, perchè ciò sia capito senza stupori, descriverò ricostruendo il suo formarsi mentre ero, lì nel buio, attentissimo spettatore. Mi fermerò, è naturale, sui personaggi, perchè a scene dipinte con iperrealistico illusionismo e ad "effetti speciali" d'ogni genere siamo già stati abituati da una gran quantità di film. Al posto degli attori, dei similattori visualmente impeccabili non solo nei movimenti ma pure nelle fisionomie e perfino nella mobilità delle espressioni facciali. Da risultare efficacemente ingannevoli anche grazie a un perfezionismo microcromatico completo di peli, nèi e brufoletti (in testa alla primadonna, ci è stato comunicato, ondulano uno per uno con sincrona naturalezza sessantamila capelli fatti di bit) e se uno dei comprimari della bella Aki resta una specie di inemozionante Big Jim, l'altro, lo scienziato Sid, la supera spesso in realismo e potremmo scambiarlo per un Hackmann o un von Sydow.
Ma questa è una premessa, come un'altra da farsi è quella che tecniche simili sono già state usate - ma era più facile - nel cartone animato (il punto d'arrivo, o di svolta, è il recentissimo "Shreck") in cui i colori non sono più campìti bensì sfumati. E non vi compaiono più solo le ombre "portate" già introdotte da Disney ma anche quelle inducenti rilievo tridimensionale dei corpi e degli oggetti. Il filo principale da svolgere è invece il seguente, in una prima fase, per chi sia abituato a dare prospettiva a ciò che accade; a dedurre cioè le ipotesi che possono esserne conseguenza. In punto di tecnologia non si torna mai indietro: una volta ammortizzati i valori economici della sperimentazione, anche queste new movies costeranno molto meno, a fronte delle old movies che invece, in cachets, locations eccetera, vengono costando sempre di più (Connery o Brando o Madonna pesano ormai una barca di miliardi anche solo per un cammeo, una volta si diceva comparsata, di pochissimi ciak). E progettare e realizzare un personaggio virtuale, non abbisognante cioè di essere interpretato da un essere umano, potrà costituire un bel taglio di budget pur senza intaccare i realizzi. Ci vorrà dell'altro tempo ma ci si arriverà.
Perchè ci sono già qua e là dei telegiornali, per dire - e a documentazione che ciò non è sogno - i quali sono gestiti da conduttrici virtuali; per tanta gente anche più efficienti e graziose, e per giunta via via modificabili con un niente a seconda delle esigenze e dei momentanei gusti del mercato, che non quelle "vere". Non sto scherzando: statistiche alla mano, ha più fans nel mondo, oggi come oggi, Sharon Stone o Lara Croft? Quest'ultima stanno addiritura provando a copiarla con un'attrice vera (Angeline Jolie), ma è assai dubbio che riesca a batterne il carisma: oggi Nintendo e Sony hanno più potere planetario di Hollywood. Ed è appunto dai videogiochi, padroni della generazione di homo sapiens sapiens per ora ancora scolara, che il signor Sakaguchi proviene, e quest'Aki oggi alla portata di tutti noi l'aveva inventata nel 1987, con successo allora localizzato e non mondiale perchè era ancora imperfetta e le occorrevano, per quell'epoca, troppi gigabit.
Secondo gradino di questa riflessione. Che non si fonda, attenzione, nè su preoccupazione nè su entusiasmo, ma che si limita, per mio carattere, a considerare dati e nessi con metodo diagnostico. In che che cosa divergono, ecco, cinema e letteratura (si tratti o meno di un compiuto livello artistico) e avendo ciò per costante della loro rispettiva storia? Che il cinema, erede del teatro, ha costretto sempre gli autori a trovare, e a fare con loro i conti presso il giudizio del pubblico, le persone fisiche che interpreteranno i personaggi da loro pensati. E molto spesso essi non individuano quelle ottimali, o quelle ottimali non sono disponibili, o pesano decisionalmente in modo non ottimale i valori e le preferenze pro tempore di questo specifico mercato. La letteratura invece ha l'autore come unico dominus dei suoi personaggi: essi pensano, senza intermediazioni, quanto egli dètta; essi sono costruiti esclusivamente dalle parole che egli scrive; parole che descrivono quel preciso gesto, quel preciso sorriso, quella precisa sfumatura emotiva. Ecco perchè Ford, a differenza di Flaubert, non poteva dire "Io sono Ringo": Ringo era Wayne, o ne era il più. E persino Olivier (regista-attore) non poteva dire "Io sono Amleto" ma al massimo "Io cerco di essere Shakespeare".
Il fatto è che i personaggi di un romanzo, da Orlando d'Anglante e da Lucia Mondella in poi, sono sempre stati virtuali, costruiti cioè con vocali e consonanti da leggere o, trasformate in fonèmi, da declamare. Quelli del film (o del film ricavato da romanzo) no: c'è Rossella O'Hara e c'è Vivian Leigh che la fisicizza. Il film con personaggi frutto di digitalizzazione invece, fatti non di materiali alfabetici ma di bits, un metodo questo da considerare - pensateci: mattoncino su mattoncino - del tutto analogo, si riunifica dunque concettualmente e creativamente col romanzo scritto. Ed ecco perchè alla fine questo giovane regista-programmatore elettronico giapponese può legittimamente dire anche lui, fatta ogni debita differenza fra chi usa carta e penna in solitario e chi ha a disposizione centinaia di tecnici, "Aki c'est moi, sono io". E ne avremo ancora tante.