Si può laurearsi con una tesi in pornografia? Bèh, mio padre l'avrebbe giudicato inammissibile ma nel Duemila pare di sì, e merita una lode per rottura di tabù; tant'è vero che di un 110 e lode si è trattato sul serio, per lo spessore d'indagine in questa tesi riscontrato. E dire che cinquant'anni fa io m'ero sentito esclamare dal mio professore di Storia dell'arte: «Lei vuole laurearsi su Paperino??? Lei è un pazzo!!!», quando io invece volevo occuparmi del fenomeno cartoon in generale. Si trova sempre qualche professore universitario che viva ancora in un'epoca precedente. E non mi ci fecero, laureare, su così "disdicevole" tema. Come se adesso avessero detto a chi proponeva questa tesi che non era proprio pensabile dedicarne una all'uso spettacolare del c... e della f...; mentre si trattava invece, anche in questo caso, del meritorio studio di un invasivo fenomeno sociale. E' accaduto a Trieste, Facoltà di Lettere e Filosofia, e la neodottoressa si chiama (il suo nome è sui giornali oggi, titolo sulle quattro colonne e fotografia) Martina, più un doppio cognome austroungarico come da queste parti ce n'è tanti.

Ecco, è sui giornali. Ma ci sarebbe mai finita, la bionda Martina, se il suo 110 plus se lo fosse guadagnato in filologia germanica o discutendo un nuovo modo di coltivare la barbabietola da zucchero? Ma neanche, probabilmente, se avesse con pregevolissimo esito dedicato due anni a studiare il successo dei Beatles o la produzione poetica di Pierpaolo Pasolini. Il porno, però... In una società dove tutto è porno, ormai, dall'economia delle multinazionali al teatrino della politica ai modi di fare la guerra. E in cui il voyerismo impazza ubriacandosi di sfilate d'alta moda e copertine di magazines generosissime di spudore, e calendari che cominciano da settembre per fare quattro pagine piccantone in più, mentre il linguaggio dei salotti è sempre più fittamente genitalizzato. In cui ha finito d'essere decente pure il mondo del pallone e in cui la parola "pubblicità" è sempre più platealmente traducibile in "adescamento". ...In una società così non solo il porno sta di casa ma si mette al centro dell'attenzione. I giornali dunque, basta ci sia da qualche parte un fruscìo di mutanda e titolano su quello.

Com'è articolata questa tesi, inserita nel corso di laurea in Discipline dello Spettacolo, e cosa intende dimostrare? E' stato uno psichiatra come Jacques Lacan a fornirle con una sua definizione («Il corpo in frammenti») il titolo, e il corpo frammentato da cui parte il filo del discorso, e solo alcune delle cui parti dunque ovviamente contano, è quello di Linda Lovelace. Nome che forse dirà poco alla generazione che avanza oggi perché rappresentò un "caso" circa trent'anni fa. Ma che lasciò dietro a sé un modo di dire, «gola profonda», rimasto anche nel lessico odierno per indicare un informatore o un delatore. «Gola profonda» era il titolo di un film americano del 1972 che è considerato il capofila dell'emersione cinematografica del porno dalla precedente clandestinità. E' la storia, ironicamente paradossale, di un'eccezione anatomica: una donna che soffriva di anorgasmìa in qualunque modo e da chiunque fosse posseduta, e nonostante non ne perdesse occasione, finché il sessuologo cui s'era affidata scopre che il clitoride di lei non era collocato dove ce l'han tutte bensì era fissato nell'interno fondo della sua gola. Consigliatala dunque di sostituire la procedura genitale con quella della fellatio, riesce a portare finalmente anche lei a (per dirla con le parole usate in proposito dallo storico del cinema Paolo Mereghetti) «sentire le campane e vedere i fuochi d'artificio».

Il regista non era un granché, Gerard Damiano, e infatti è noto per quest'unica opera fatta di porcellerie e humour; però era dai tempi di Eisenstein che non si vedeva al cinema un'allegoria come quella dei leoni di pietra che da accosciati si ergono sulle zampe mentre l'ammutinata corazzata «Potiòmkin» ruota le torrette dei suoi cannoni verso terra nella rivoluzione russa del 1905. Qui invece era il decollo fumante di un missile a fare da allegorico alternato inserto al mostrato primo e formidabile orgasmo della signora. Il film era costato, tutto compreso, 24mila dollari e ne incassò in breve giro, travolgendo censure, 100milioni. La Lovelace diventò un personaggio inseguito e pubblicizzato ma di film non riuscì a interpretarne altri, anche se guadagnò soldi a palate con interviste, foto, e qualche libro in cui pruriginosamente raccontava di sè. E' da qui che comincia l'enfasi, chiamiamola così, del sesso orale da donna a uomo come piacere anche peculiarmente femminile e non solo di quest'ultimo.

Il porno è antico, se lo vogliamo considerare come semplice raffigurazione e quindi altra cosa che il business di oggi. Gli affreschi di Pompei sono denotativi di una cultura carnale dell'antica Roma, così come i sottili peni puntuti che mirano inguini femminili nelle terracotte dipinte elleniche sono finezza estetica e quelli invece grossissimi e incupolati che vanno a infiggersi nell'ognidove donnesco delle sculture indostane sono trascendenza religiosa. Nel Rinascimento ci si provarono i Carracci ed altri. Nel Settecento fu satira graffiante o solo porcacciona. Nell'Ottocento tentò persino Ingres e nel Novecento Schiele, Dalì e Picasso. La nascita della fotografia lo invera nell'esibire quasi esclusivamente ignudità ostentata di donne e copule in cui più spesso il maschio è anatomicamente defilato. Ma è l'invenzione dei Lumière che lo scatena. Ed è infatti dal cinema che prende le mosse questa tesi di laurea perché è il cinema ad averlo reso fenomeno sociale, fenomeno di massa. Dai primi rudimentali ottomillimetri ad un sotterraneo circuito commerciale internazionalmente ramificatissimo, ai cinema a luci rosse, alle videocassette, ed oggi a Internet.

La tesi percorre in retrospettiva la storia del cinema pornografico, con attenzione psicoanalitica alle sue rappresentazioni degli atti sessuali. Ed espone le mutazioni subite da quel suo primo manifestarsi. Esso era supportato, all'inizio, da trame, sceneggiature, succedersi di episodi, una "partenza" e un "finale". C'era una storia. Poi s'è venuto via via semplificando con l'accorgersi dei produttori che non c'era poi bisogno di pretesti narrativi per mostrare quanto era essenziale allo spettatore per la da parte sua perseguita fruibilità del prodotto. E cioè un semplice susseguisi di accoppiamenti assortiti, binari o collettivi, che non trascurassero alcun orifizio. L'incorniciante sovrapporsi di qualsiasi altro elemento sarebbe stato distraente. Una donna non è mai sola, in questi filmati dal bianco e nero passati con entusiasmo al colore e, se lo è, si masturba o è orinante. E' caratteristico del porno l'esser rivolto a un pubblico maschile, e infatti l'uomo vi agisce perlopiù di schiena o di tre quarti e nel sesso orale è sempre il volto o lo scosciamento femminile in primo piano, allo scopo di facilitare l'immedesimarsi dello spettatore. Per quanto le statistiche indichino l'espandersi lento ma costante, da un poco in qua, anche di un pubblico di voyeuses. Il che, nel genere, comincia a far introdurre alcune intuibili varianti.

Cito dalla tesi: «La sceneggiatura non è e più necessaria, il film porno serve solo al pornofilo che vuole masturbarsi. L'atto sessuale è clinico e ripetitivo: le pornodive sono costruite e addirittura guardano lo schermo. Non esiste più la dimensione della scoperta e spesso nel piano ravvicinato del coito si utilizzano immagini di repertorio». Quello che viene offerto è un percorso illuminante di questo business, che ha così ridotto congruamente le spese di produzione di fronte a entrate da capogiro. E un altro dato saliente emerge da questa ricerca con rigoroso metodo condotta. Il progressivo deperire del pubblico dei cinemini riservati all'hard sex, fino ad abbatterne il numero e farli chiudere un dopo l'altro (un tempo proliferavano a vista d'occhio) o riconvertirsi al cinéma d'essai, via via che si diffonde l'accesso al Web e quindi al porno telematico raggiungibile da casa via computer. In un'altra tesi di laurea, in Filosofia, su «Internet come new medium e come oggetto filosofico», che si discute proprio oggi con relatore me e corelatore il filosofo Pier Aldo Rovatti, la candidata ha acquisito come i prodotti pornografici di mera esibizione o in qualche modo interattivi occupino un buon terzo del traffico internetico mondiale. Il che la dice lunga sulla suggestione, gli affari e, non sottovalutiamolo, la incontrollabilità che caratterizzano il fenomeno.

Di un'altra tesi di laurea sto seguendo passo passo la costruzione come mio compito assistente in questi mesi, sulla donna nella pubblicità. Donna, beninteso, non come creatrice o destinataria, ma come raffigurata protagonista, testimonial, grimaldello. Al cui culmine sta appunto la mercificazione del suo nudo. Sarà vero che un popò scoperto fa vendere meglio, per dire, una motocicletta? Il marketing dice di sì. E c'entra, questo, con la pornografia? Direttamente no, ma la mia candidata ha avuto l'idea di introdurre un capitolo sull'autopromozione. E di esemplificarlo col caso di una famosa popstar, di cognome Ciccone ma più nota col nome di Madonna, che ha sempre trovato molti abili modi per far parlare di sè.

Così la ricerca ha fatto saltar fuori due vecchi libri. Uno è fotografico e in esso lei, giovanissima, non ha mai indosso nulla se non un suo personale pennacchio, di folta intimissima consistenza, che le si erge dalla convergenza inguinale. Per sfondare, si fa; è quel che sottintende. L'altro è gremito di sue foto da lei scelte, ma contiene anche testi lascivissimi da lei scritti. Si intitola semplicemente «Sex» ed è stato il suo modo di cercare, ed ottenere, scandalo e riflettori. E l'intenzione porno è esplicitata da esposizioni e positure che è probabilente poco definire solo allusive. Lei che fa stop a pollice alzato accanto a una fermata d'autobus completamente nuda in frontale e reggendo una borsa. O che, sempre in nudo integrale così, sugge bibita da una cannuccia al bancone di un bar, presa fra gli sguardi di tutti i clienti. Oppure nuda a quattro zampe su uno specchio posato a terra mentre si carezza , guardandosela. Ma anche discinta che si fa baciare e toccare, o bacia e tocca lei. O assieme alla sua amica la top model Naomi Campbell (altra abilissima autopromotrice) avvinghiate a lingue fuori in ignudo terzetto con un macho, o più. Fattasi strada, però, e raggiunto il successo, l'avete per caso vista nuda più? Serviva a quello; adesso è una cantante affermatissima e quel metodo ha smesso di servire, no? Anzi, dopo, se le nasce una figlia la chiama nientemeno Lourdes. Comunque, non è detto, se l'attenzione su di lei si dovesse attenuare...

Quello del porno è appunto un linguaggio per lo più non verbale, e non so infatti se si possano definire porno l'«Emmanuelle» della Arsan o «L'Histoire d'O» così a lungo coperta da anonimo e poi rivelatasi di Pauline Réage, i quali forse son più libri, come dire, teoretici, che trasformano cioè il sesso in filosofia. La pornografia, penso, ha bisogno d'esser vista per essere appieno consumata, e il poeta Giorgio Baffo che ci arriva fin qua dal Settecento veneziano coi suoi versi festosamente lubrichi provoca più goliardica allegria che la concentrazione silenziosa occorrente al guardone. Perché in realtà la pornografia è qualcosa di triste, invece, come sono tristi tutte le cose suppletive, tutti i surrogati d'ogni genere. Il pornofilo è di solito un infelice anche se non lo manifesta, e se al mondo ce ne sono così tanti, la riflessione che il fenomeno suscita non sarà mai davvero bastantemente approfondita. Dunque non solo su madame Curie o sul madre Teresa di Calcutta si facciano tesi di laurea ma anche, perché no, su un'imbarazzante icona come quella di Moana Pozzi, che del pornovideo è stata una specie di candida ed oltranzista apostola e che forse, ancora così giovane, ne è morta.