L'Università sta cambiando radicalmente. Da un lato questo la avanza quasi meravigliosamente in potenziamento di strutture tecnologiche. Dall'altro la stravolge in un modo che può anche diventare molto pericoloso. Mi spiego subito, perché la questione è delicatissima e merita una considerazione assai attenta. Ne sono assiduo osservatore interno come docente ma anche esterno come giornalista. Sotto questo profilo la riforma Zecchino - neanche ritoccata se non in intenzioni espresse, che potrebbero anche risultare peggiorative, dal successivo e presente ministero Moratti - è stata deleteria. Il cosiddetto «3 + 2» (laurea di primo e di secondo livello), sommato allo spezzettamento in «moduli» delle materie e all'aver ridotto all'astrazione aritmetica le valutazioni quantitative di apprendimento affidate ora ai «crediti formativi» (CFU), non dànno agli studenti né più nozioni, anzi ne diminuiscono alcune dovute, né al complesso di esse maggior qualità: creano piuttosto a questi maggiore confusione e conferiscono loro minor spessore complessivo. Non sono del resto pareri miei ma diffusi.

Mi è capitato recentemente di incontrare a cena in casa di amici il Rettore di un'altra Università e non rivelo un segreto se dico di averlo trovato con le mani nei capelli, perché di fronte agli stessi problemi si trovano in questo Paese altri Magnifici. Sapevo che erano troppi, ma che lo fossero tanti me l'ha detto lui: oggi in Italia i corsi di laurea esistenti sono 5.400 circa, e sono in crescita. Non solo si è data agli studenti la possibilità di conseguire laurea in soli tre anni, inserendo sul mercato dottori meno preparati, ma l'Università italiana s'è praticamente fitta in capo di coprir col «dott.» il maggior numero - e per qualcuno magari era indispensabile - di mestieri possibile. Per fare un solo esempio, oggi è possibile essere laureati in Medicina ma anche, certo in minor tempo, in Infermieristica o in Igiene Dentaria. E in una quantità enorme di specialità e subspecialità umanistiche e tecniche non si vede perché necessitanti di lauro accademico anch'esse, essendo loro sufficienti altre e più adatte forme di apprendistato. Qual è di ciò la prima conseguenza interna, per gli Atenei? Innanzitutto moltiplicare gli investimenti sulle attrezzature e sugli immobili, a fronte di un'assoluta inadeguatezza finanziaria aggravata dai tagli ministeriali di bilancio. E poi innalzare straordinariamente il numero dei docenti, costo non irrilevante anch'esso.

Occorrendo per ciò docenti che siano "specialisti", e possibilmente di prestigio, di materie nuove cui i prof di carriera non sono preparati, è necessario ricorrere ad assunzioni pro tempore con contratti di diritto privato. Inficiando così intanto la indispensabile "continuità" dell'insegnamento poichè c'è un limite temporale massimo al loro eventuale rinnovo. E gravandoli poi di compensi talmente irrisori, e di ritardi biblici nei rispettivi saldi, pure a parità di doveri (lezioni, sessioni d'esami, lauree, ricevimento studenti) con i colleghi ordinari, da far precipitare il tutto verso lo scoraggiante. Eppure vi sono Facoltà in Italia dove ormai il numero dei docenti contrattisti equivale o supera quello degli accademici. Ed Atenei in cui, pur paradossalmente, diritti regolamentari ed emolumenti legati ai contratti sono andati nell'ultimo periodo addirittura in via di contenimento e riduzione. Bèh, a questo punto io penso che, essendo qualsiasi prof innanzitutto un "comunicatore didattico", non sarebbe una cattiva idea (sempre restando in piedi tante altre cose da ri-riformare) se tanto per cominciare queste migliaia di docenti a contratto si organizzassero in sindacato nazionale. Nell'interesse proprio, delle Università e degli studenti, cioè dell'intero complesso dei danneggiati.