Che cos'è l'«ontologìa dell'informazione»? Ontologica è ogni analisi che intenda determinare la ragione e la struttura fondante di qualcosa. Nuria Kanzian, che è una giovane studiosa ricercatrice e un'artista, ha saputo includere nel brevissimo spazio di un librettino puntualissimo (quello citato è il titolo di uno dei suoi ultimi capitoli) l'essenziale di un'attività comunicativa di cui non sempre i media correnti rispettano i canoni. La trasmissione corretta delle notizie può essere deformata anche da un apparente nonnulla o essere frastornantemente immersa in quelli che Umberto Eco chiama «rumori di fondo». Porsi dunque il problema di comunicare qualcosa in modo semplice e mediante codici e metodologìe accessibili, e di stabilire in proposito quali ne siano le regole essenziali, va considerato, nell'odierno caos mediatico generalizzato, un compito particolarmente meritorio.

Si tratta di requisiti che vengono ben prima del giornalismo, anche se tocca pure ad esso di modellarvisi, e riguardano chiunque - in modi scritti, verbali od altri - abbia qualcosa da dire a qualcuno. Poche cose sono più "sociali" dell'informazione, persino quando essa è "privata", e dunque comportano precise attenzioni linguistiche sia espressive che d'ordine etico e pratico. Sottolineo qui dunque con molta convinzione sia le singole funzionalità modali sia la qualità anche didattica di questo lavoro, la cui sostanza travalica di molto l'apparenza, ricco anche com'è di esempi e schemi esercitativi.

Sembra infatti che nella sua articolazione esso non faccia che richiamarsi al tanto noto quanto poco applicato pentalogo delle cinque “W“, ma in realtà dietro vi si legge proprio quanto teorizzava Harold Lasswell; e cioè che, in ordine alla qualità del messaggio, più della fonte originaria, del canale scelto e del target mirato, quel che conta è il suo feedback, e cioè il suo esito. Il testo cui mi riferisco («The Structure and Function of Communications in Society») è del 1948, e quindi precede di ben sedici anni lo stesso, e immeritatamente più famoso, saggio di Marshall McLuhan - considerato in materia il libro-svolta - «Understanding Media» (1964) -, tradotto con immediato successo in Italia solo nel '77 da Garzanti col titolo «Gli strumenti del comunicare».

Cosa fa la Kanzian, che merita sottolineazione? Intanto evidenzia come, quanto meno in campo pubblico, il no profit funzioni meglio del for profit, e questo nell'area mediatica è particolarmente saliente perché mi pare proprio che "informazione obiettiva" e "profitto aziendale" siano concetti ossimori. E poi soprattutto confronta i modi di informare praticati dalle organizzazioni di volontariato con quelli dei media correnti, stabilendo tipologie che hanno ingenerato anche polemiche, dato che non bisogna mai dimenticare come il giornalismo sia una funzione normalmente svolta non da "liberi professionisti" ma rigorosamente all'interno di un sistema editoriale a sua volta connesso con la politica e l'economia.

Così come sottolineo pure un altro carattere di questa pubblicazione: quello che è insieme sia un saggio il quale va sino al fondo del proprio tema sia un praticissimo e chiaro manuale: analisi e know-how. Ha per esempio l'accortezza di distinguere sotto il profilo non solo semantico ma altresì strettamente strumentale il linguaggio orale da quello tramite segni. Anche la modulazione della voce ha le sue maiuscole, i suoi corsivi e i suoi neretti; anche il sistema interpuntivo ha il suo corrispondente in una modulazione di pause. E poi c'è pure una classificazione dei messaggi stessi di cui va tenuto conto: se sono, per dire, informativi od argomentativi. Non possono essere costruiti allo stesso modo.

Insomma, ci sono in giro fior di manualoni dai quali ricavi tutto, e talvolta anche quel che non dovresti, cioè come standardizzare un prodotto il cui essere standard andrebbe invece considerato inammissibile non solo per un giornalista bensì per un comunicatore qualsiasi, ma che non contengono quel che sta qui in questa smilza (ed encomiabile anche per questo, perché va dritta e sfrondantemente all'osso) pubblicazione: la valenza di sincerità con cui, informando, si porge in realtà un ausilio a sapere. Perché la tanto conclamata VERITA' non è mica un richiesto presupposto di base, che sarebbe pure presuntuoso: la verità è, al contrario, un traguardo, qualcosa che va perseguito. E quindi non a priori posseduta ma soltanto, tenacemente, cercata. Comunicare non è un'arte o una scienza, comunicare è un'ineluttabilità (Paul Watzclawick, no?). Guai dunque a suonare strumenti senza sapere come funzionino davvero e non mitologicamente. Delle stecche neanche ci accorgeremmo. E quanto al danno, sarebbe troppo tardi.

Nota - Una confessione: il testo che precede non è stato appositamente scritto per questa rubrica, stavolta, ma si tratta della prefazione, tale e quale, a «L'informazione sociale» di N.K. chiestami dall'editore che si accinge a pubblicarlo. Perché non dovevo dirlo?