Scrivo avendo ancora nelle orecchie la voce strascicata del titolare del ministero di (Grazia e) Giustizia Castelli che ha appena risposto, per via televisiva, di no al capo dello Stato Ciampi il quale l'aveva invitato - così vuole la prassi giuridica - a proporgliela per Adriano Sofri dandosi pronto a subito firmarla. Sono anni, tra poco dodici, che da quella cella del carcere di Pisa partono messaggi circolanti per il mondo. Non sono beninteso messaggi che questa grazia chiedono (ha sempre dichiarato, lui, l'interessato, che chiedere la grazia gli è precluso da una ragione di principio: in quanto essa si applica specificamentre e solo ai colpevoli; lui tale non è e tale, chiedendola, significherebbe per la prima volta, e dunque impossibilmente, ammettersi); quel che chiede è casomai gli venga rifatto, e con maggiori garanzie, un processo. Sono invece messaggi di cultura e di testimonianza umana, messaggi di uno studioso applicatissimo toccanti sociologia, letteratura, questioni di comunicazione, ed anche filosofia e laica religione; e qualche volta pure di un poeta. Messaggi stabilenti un circuito comunicativo larghissimo, perché da fuori continua a pervenire a quella cella, e sempre più intenso, gran spessore di corrispondenza, senza confini territoriali e d'estrazione e persino trasversale politicamente. E' una comunicazione in gran parte indiretta, poiché Sofri non si rivolge in particolare a nessuno, e dall'esterno lo si fa per lo più alle istituzioni; ma non ha mai scritto tanto, di saggistica sociale e di analisi antropologica, di storia e cronaca ricavate dalla memoria e dai libri, come da quando è chiuso lì dentro col permesso di foderare di volumi quei due metri per quattro in cui si dorme a orario e da cui si esce solo per l'infermeria, centellinati colloqui in parlatorio e un'ora al giorno per giocare a pallone in cortile, e dentro la quale gli è concesso un computer. Non aveva ancora cinquant'anni quando v'è entrato la prima volta, per presunti reati commessi in un mondo diverso e qualche èra fa, e dovrebbe uscirne ultrasettantenne.

Al cancello di quel carcere s'era presentato da solo, quando tutti lo supplicavano di scappare in Francia libero da possibilità di estradizione, gonfio di tutto il superbo e testardissimo orgoglio che soltanto chi è impossibilitato a confessare l'inesistente può possedere. Pretendeva, e ne era fiducioso, soltanto un processo giusto. Due volte tuttavia condannato, ma assolto la terza, quest'assoluzione era stata distrutta da un subdolo cavillo e tutti i successivi rifacimenti processuali ad esso restarono inchiodati. Mai da nessuno di essi era emerso un riscontro di prova, lasciando come solitario elemento, ma ritenuto determinante, la dichiarazione di un cosidddetto "pentito" dettosi coinvolto come autista e palo in un mandato di omicidio che appunto Sofri avrebbe pronunciato; in circostanze oltretutto estremamente contraddittorie e dubbie di tempo e di luogo. Quel morto ci fu davvero, era il commissario di polizia Pietro Calabresi ed eravamo nel 1972. Era l'uomo che era stato indicato come responsabile del suicidio (?) dell'anarchico Pinelli, "caduto" da una finestra della Questura di Milano. Ma su chi ne decretò la morte sono sempre state contrapposte solo due versioni: la parola dell'accusatore contro la parola dell'imputato. Solo che quest'ultima elementi a suffragio ne aveva e l'altra no. Si sono pubblicati libri, su di ciò, inutilmente.

Dice il ministro Castelli che lo fa rabbrividire solo l'idea che si possa aprire per Sofri una pratica di grazia «unicamente perché è diventato un intellettuale raffinato, come a dire che se invece una persona è rozza dovrebbe restare in galera». E suggella il suo non luogo a procedere con un'ipotesi alternativa appunto perché sa come questa sia in realtà impraticabile. Consentirebbe, dice, a un "fuori tutti", terroristi rossi e terroristi neri inclusi, che chiuderebbe "in modo generale" tutto un periodo rovente della nostra storia: cioè un provvedimento di amnistia che toccherebbe al Parlamento, se vuole, di approvare. Ma il responsabile di quel dicastero non può non sapere come il suo stesso partito, la Lega, e anche i suoi alleati di maggioranza si siano ripetutamente dichiarati contrari a una misura legislativa del genere, comunque motivata. Si tratta dunque soltanto di un modo diverso di dire NO. No alle diecine e diecine di iniziative pro Sofri, che annoverano ormai centinaia di migliaia di firme d'ogni ceto e d'ogni parte, vistosamente screziate dalla presenza foltissima fra esse di esponenti della cultura e del Parlamento, no alla pressione crescente in questo senso di campagne associazioniste e giornalistiche delle più illustri testate, no al presidente della Repubblica; no anche al consenso già espresso dalla famiglia stessa del commissario assassinato.
Personalmente non trovo che anche parecchi di coloro (esponenti della politica e della cultura, e giornali) i quali hanno reagito polemicamente e con indignazione alle dichiarazioni del ministro leghista abbiano usato gli argomenti giusti. Affermare che il detenuto Sofri è divenuto, con la sua produzione scritta, un punto di riferimento culturale, o dire che dopo tutti questi anni il suo debito comunque lo ha ormai già pagato a josa, non centra infatti, credo, l'essenza della questione. Non è stato certo il carcere, col solo avergli messo a disposizione più tempo per leggere, a farlo diventare quel raffinato intellettuale che oggi Castelli gli riconosce d'essere. Sofri lo era anche prima, e basta ricordare la ricchezza e l'acutezza di quell'inserto intitolato «Finesecolo» che curava vent'anni fa per un settimanale socialista il cui nome sì che è andato perduto alla memoria. E dare per "già pagato" un suo presunto debito introdurrebbe l'implicito che questo debito ci fosse stato. Ma Sofri è uno che da tempo aveva fatto pubblica autocritica delle eccitate emozioni che il movimento di cui era carismatico leader trent'anni fa, Lotta Continua, aveva seminato in una generazione, creando illusione ed errore. Era il tempo, estremista e utopico, di Potere Operaio e di Servire il Popolo, conseguente a un Sessantotto neanche italiano ma europeo. E fu proprio Adriano Sofri, quando in seno a tutta quest'ultrasinistra cominciò a formarsi una componente armata poi coagulatasi nelle clandestine Brigate Rosse, a prendere con forza le distanze da tutto ciò fino a dichiarare sciolto il movimento stesso che si riconosceva in lui.

Quale è allora invece, la vera e attuale essenza della questione come è il caso vada posta adesso? Lo dico subito. Che il far tornare Sofri libero (lasciamo star da parte per opportunità il risarcimento dovuto a lui, concetto che non tutti condividerebbero) ha il valore di permettergli una serie di approfondimenti e di iniziative che lo stare dietro le sbarre gli impedisce; e soprattutto, di conseguenza, quello di guadagnare così alla comunità un contributo attivo ed importante, di altissimo livello, nell'esplorazione e nell'analisi, nella ricerca di motivazioni e chiarimenti, vòlto alle problematiche sociali e culturali attualmente tanto bisognose d'essere penetrate nei loro moventi, svolgimenti e sbocchi. La sua rubrica settimanale su «Panorama», i suoi interventi assidui sulla prima pagina di «Repubblica», e tutto il resto della sua pubblicistica corrente, sono già portatori di segnale di quale spessore tale suo contributo potrebbe sviluppare se a una personalità come questa fosse aperta la gabbia e potesse di nuovo spiegare le ali. Prima d'essere tirato nel caso Calabresi e di restarne incongruamente affogato Sofri era stato nei Balcani e in Cecenia da osservatore, con spirito di sociologo e di giornalista, attento all'uomo e attento alla storia, riportandone testimonianze tanto sofferte quanto acute ed utili a "farci capire". E oggi, credo, oltre che operare giustamente in Italia, andrebbe anche in Palestina e in Iraq con lo stesso scopo e con il medesimo nostro vantaggio.

Che jattura per il nostro Paese un ministro della Giustizia di così angusto patrimonio mentale, il quale mette allo stesso livello («per me tutti i detenuti sono uguali, sul piano dell'istituto della grazia») il caso Sofri e quello degli autori della strage alla stazione di Bologna o nella bresciana Piazza della Loggia, e perfino quello di quei quattro disgraziati che avevano occupato manu militari il campanile di piazza San Marco a Venezia. Ma questo è anche il Paese dove squaglia invece nel nulla il processo contro i responsabili di quella vera e propria macchina omicida che è lo stabilimento petrolchimico lagunare di Porto Marghera (o di Priolo in Sicilia) e dove cavilli, miliardi, promozione a deputati dei suoi legali e addirittura leggi ad hoc e intimidazione dei pubblici ministeri impediscono da anni di portare a conclusione il processo per corruzione a un avvocato di specializzazione business come Cesare Previti. Non so se mi sbaglio di molto, conoscendo la stoica spina dorsale di un comunicatore come quello di cui questa rubrica s'è occupata oggi, se avanzo ipotesi che, qualora messo in quel mazzo lì, Sofri la grazia, ahimé per noi, la rifiuterebbe con superbia e sdegno anche se a queste condizioni concessa.