L'apparecchio sul quale sto digitando le presenti note era sul tavolo di pochi, dieci/quindici anni fa; esattamente come il telefono nelle abitazioni negli anni Quaranta, il cui modello più comune era inizialmente da muro e ci si parlava stando in piedi. I miei genitori l'avevano appeso in camera da letto perché dall'anticamera se no, che era l'allocazione più diffusa, chiunque passava per il pianerottolo sentiva i fatti nostri. Adesso invece, col computer, siamo alla vigilia dell'essergli il telefonino cellulare un supplente da tasca, ambulante con noi dovunque. Così che agli esami scritti occorrerà perquisire gli studenti e già adesso su un tavolo vicino alla porta questi piccoli scarabei colorati vanno depositati entrando, come a suo tempo le pistole nei saloons del West dove gli sceriffi erano previdenti. La polifunzionalità che gli attrezzi telematici hanno assunto è già abbondantemente dilagata anche nel campo didattico. Sia in aula che a distanza: in quest'ultimo caso gli studenti che ti seguono in televideo sono sparpagliati non sai neanche dove (quanti però sì) e possono da parte loro riaverti quando vogliono in differita; ma anche nel primo la lavagna non basta più, ti occorrono un monitor e un proiettore, e telecomando e/o tastiera. Questo ha aperto alle cattedre orizzonti nuovi, ricchi di potenzialità positive ma in qualche caso anche controproducenti. Le tecnologie, si sa, dànno tanti vantaggi ma esaltano altresì sensazioni di catturante e del tutto inedito potere riconducente binariamente a te per automatismi soggioganti e sempre meno dialogici, e quindi con minor fatica. E possono condurre anche a stati unilaterali di ebbrezza paracomunicativa per i quali non ci sono dei vigilantes che ti sottopongano alla prova del palloncino.

E' comune ormai che dalla cattedra si proietti qualcosa, sempre dirimpettamente alla platea dei banchi. Si era cominciato con la cosiddetta "lavagna luminosa", peraltro ancora in uso, che rimanda a specchio sulla parete le immagini stampate su trasparenti fogli di acetato, anche sovrapponibili per aggiungere elementi. (Ma già nei lontani anni del mio liceo il prof di storia dell'arte ci mostrava così affreschi e sculture, servendosi di un aggiornamento elettrificato dell'antica "lanterna magica" e i rettangolini di vetro impresso che via via v'introduceva appunto "vetrini" si chiamavano). Poi s'aggiunsero le cassette di nastro magnetico videoregistrate da vedere su monitor o rimandate su schermo a telone. Adesso ci sono sempre più pure gli "slides", che vien stimolo anche a scrivere slàid come si pronunciano (se gli inglesi turbano la nostra lingua, perché mai non potremmo noi turbar la loro?). To slide significa in italiano «scorrere», «scivolare» e questo è appunto un modo di farti scivolar nozioni in testa saltando la fase degli appunti (pure così utile, in quanto costituente filtro personalizzato) perché poi vanno in un sito da cui ogni studente se le scarica direttamente nel proprio computer. Il docente, il quale così non scriverà più quei riassunti delle proprie lezioni che si chiamavano «dispense», collegando il proprio portatile a un proiettore fa scorrere frontalmente a muro dei quadretti - chiamati impropriamente "diapositive" perché, essendo fatti di bytes, non lo sono - ciascuno dei quali contiene poche semplici righe scritte in grande. Che sono quelle da dover imparare, e poi all'esame secondo schema assorbito ripetere.

Io questi slides li chiamo, e so bene di fare ironìa, «versetti». Che appartenga alla Bibbia o, più attualmente, al Corano, il versetto è quello: sta lì immutabile nella lettera del suo significato, resistendo a interpretazioni e varianti; va solo memorizzato ed applicato. E' come gli antichi riassuntini del Bignami, comodissimi, ma che solo gli studenti meno svegli e più tardi adoperavano. C'è tutta una scuola di pensiero, per ora, che sostiene la pratica funzionalità delle nozioni "tradotte in pillole" e del "complesso" ridotto al "semplice". Come se ciò fosse sul serio vero, possibile, utile. Come se la filosofia, per esempio, fosse insegnabile allo stesso modo della chimica e la letteratura della matematica. Come se un'aula non fosse scomponibile in fasce e particolarità di target mentali, necessitanti di tarature interlocutorie ben accortamente modulate fra cattedra e singolo banco. Ma è lo stesso, assurdo, paradossale, vorrei poter definire anche ebete criterio dei famigerati CFU abbinati alla modularità delle materie a condurre a questo, restringendo i tempi di apprendimento e contabilizzandoli; rendendo così inquietantemente fordistico l'insieme. Per quanto mi riguarda, io vorrei restare inserito invece in quella scuola che previlegia l'individuo e non la sua robotizzazione, le scintille creative ed evolvitrici che nascono dalla dialettica, e la massima che il tempo occorrente per fare una cosa è il tempo che occorre per farla bene. Gli slides come li penso io dovrebbero dunque non essere strumenti apodittici ma darsi la possibilità di proporre più diversi modi di organizzare le nozioni e i concetti, e anche un paio almeno di ottiche diverse sotto cui osservarle; in maniera da sospingere il discente a senso critico, acquisendone la capacità, ed a sentirsi obbligato non a passività ma, dandosene comparata consapevolezza, a scelte. Altrimenti lo si incoraggia solo ad avere desuetudine a ginnastica mentale, così come se non frequenti palestra e piscina ne risentirà il tuo tono muscolare, spinto nei pressi dell'atrofizzazione. Insomma, il quesito è: che spessore di ceto dirigente, e di quali attitudini dotato, stiamo preparando, nei nostri Atenei?

Fermiamoci ora un poco, poiché il vero bivio è questo, sulla siglaparola Fad. Che vuol dire Formazione A Distanza. Non aule: il docente a casa propria o nel suo studio in Facoltà, o dove altro cavolo vuole nel mondo (basta che abbia con sé un computer e una webcam). Il metodo non va respinto, tutt'altro, purché preservi il rapporto umano: sarebbe come considerare impreferibile o inadeguata la relazione con la carta dei libri, che pur nell'analogo distacco fisico fra scriventi e leggenti civiltà ne ha prodotta per millenni. Io stesso una webcamera me la sono, allo scopo, appena comprata. Il punto è il come usarla. Seguo ogni tanto Rai Educational, incappo spesso in programmi notturni con un docente in cattedra, libro aperto davanti e lavagna alle spalle, che "fa lezione", di questo e di quello. Quale noia mortale, quale impossibilità di feeling! Se sei fisicamente in un'aula e percepisci una caduta d'attenzione, sai istantaneamente come rimediarla e come "ricaricare" l'uditorio; e poi ti muovi, ti alzi, cammini fra i banchi mentre parli o mostri. Ma se fra docente e studenti c'è prima un obiettivo di telecamera, poi l'etere e infine il vetro d'un computer, non è assolutamente possibile applicare lo stesso modo di far lezione, come appunto alcuni docenti e la stessa Rai evidentemente credono. Ne occorre, al contrario, uno che effettivamente corrisponda alla novità del medium ed alle sue infinite possibilità, e insieme ripari dalle eventuali insorgenze rispetto al prima discomunicative. Il top potrebbe più o meno essere quello del «Quark» di Piero Angela, ma va escluso perché avrebbe la costosità miliardaria di un kolossal cinematografico. Ci sono però a disposizione sufficienti "trucchi", chiamiamoli spregiudicatamente così, consentiti dai softwares digitali.

Fra sincrono e asincrono, fra estemporaneità e postproduzione, si può giocare bene. La videoconferenza (sincrono) consente anche improvvisazione e, nel suo tempo reale, anche l'integrazione con una chat-line; per cui il docente può ricevere anche una domanda interruttiva digitata che compaia in sovrimpressione sul suo video. Può rispondere digitando a sua volta ed escludendo gli altri, oppure in voce assumendo da quella domanda uno spunto buono per tutti i partecipanti. E lo deciderà naturalmente sul momento, come se fosse in aula. Il tutto può a sua volta essere ulteriormente integrato in differita aggiungendovi "effetti", ossia postproduzione (asincrono); ovvero, il che è sostanzialmente lo stesso, aggiungendo al "tempo reale" qualcosa di "prefabbricato". Nell'uno e nell'altro caso, le repliche on demand da parte del singolo studente restano acquisibili in modo illimitato, poichè la somma delle lezioni va progressivamente a formare archivio sempre disponibile. E' bene che il docente abbia attenzione a non mantener inquadrato più di tanto il proprio mezzobusto ma lo alterni con rappresentazioni ed esempi che possono anche non aver più bisogno del suo supporto vocale. Slides sì, quando occorra, eccome; ma non improntate a bignamico "versetto", sibbene contenenti animazioni bianco/nero o colore le quali li movimentino con sostituzioni esemplificanti, o sottolineature di marcamento, o anche proposizione di alternative. Così come potrà esserci l'inserto filmato (che prototipo, il «Vajont» di Paolini) o il docente che pennarella parole sulla lavagna a fogli ed esse si trasformano, quando ha finito e si volta, nelle corrispondenti immagini, sulle quali si può intervenire riquadrando, zumando, frecciando indicativamente, affiancandovene altre per confronto. Anche programmi più che correnti per computer, come PowerPoint, consentono ciò. Perché dunque non usarli?

Dice un antropologo culturale come Michel Augé, il quale la nostra postmodernità (anzi, dice lui, la «surmodernité») mediatica ha sottoposto a critica serrata, che il pianeta è attualmente seminato di non-luoghi, cioè di luoghi indifferentemente identici e quindi spersonalizzanti, sradicanti, abulizzanti, ovunque continentalmente essi siano collocati (interni d'aereo o di metropolitane, areoporti, ipermercati, banche, discoteche, spuntinerie macdonald, grandi magazzini, eccetera). Ecco, le Università dovrebbero stare molto attente a non omologarsi anch'esse così. E un filosofo italiano di acuminata intelligenza com'è Pier Aldo Rovatti ha di recente detto, in un incontro con i suoi studenti la cui registrazione è reperibile in Internet, che la Rete, appunto, «avvicina ed allontana insieme» e che proprio per questo abbisogna molta avvedutezza nell'usarla. Pur sospendendo un giudizio su qualcosa di cui tanti elementi sono ancora da verificare appieno, espone Rovatti come sia «pensabile la pratica generalizzata della relazione per via telematica non resti soltanto una funzione di servizio, un supplemento di comunità, che si aggiunge all'esperienza, per così dire, vera, della comunità ma produca anche un nuovo standard di abitudine che potrebbe sostituirsi in modo sempre più rilevante alla comunità in carne ed ossa, proprio nella fase epocale in cui quest'ultima si rattrappisce e si impoverisce e dunque è aperta a una supplenza invasiva».

Pessimismo? Probabilmente no, dato che già il titolo di un suo libro uscito quando il fenomeno era appena insorgente proclamava la necessità - che è lecito pensare si sottintenda combattiva - di «Abitare la distanza». Mi pare anzi il caso di ampliare questa citazione con quanto più avanti egli confessa: «So benissimo che sto sfiorando un problema non soltanto filosofico che è decisivo per la nostra attuale condizione culturale, in cui stanno esplodendo uno dopo l'altro tutti i modelli di comunità che la nostra tradizione ci ha fornito. Potrebbe essere sproporzionato evocare, a proposito della rete, questo scenario in cui è in gioco il concetto di identità con tutti i paradossi e le aporìe che porta con sé. Tuttavia mi sembra il caso, perché la meteora di comunità virtuali che si stanno producendo attraverso la pratica di Internet non può essere ridotta, quanto al suo senso, né allo sviluppo tecnologico di un modo di comunicare già da sempre noto, ma neanche a un semplice processo di esteriorizzazione che permette agli agenti di ritirarsi in un universo artificiale in cui non sono davvero chiamati in causa».

Ecco, è questo che intendo quando parlo di una didattica via Internet in aula virtuale che per ora si affianca, ma già incinta di supplenza, a quella attualmente basata su ripartizione topografica ed oraria di aule reali. Gli Dei, insomma, ce la mandino buona (ma ci aiuteranno, dice un noto proverbio, solo se prima ci saremo aiutati noi).