Ci sono parole che in qualche circostanza si estraggono come da una fondina ed assumono in quest'atto due scopi. Uno contundente nei confronti del bersaglio ed uno, contemporaneamente ed è il più importante, di advertise stonante nei confronti della platea. Di questi tempi si può dire che tale specificità sovrabbondi. E che ciò che in passato anche recente sarebbe stato eclatante oggi non desta neppure più che tanta meraviglia. Nei corridoi di palazzo e nelle riunioni ristrette - poiché è del mondo della politica che stiamo parlando - le maglie della loquela sono sempre state più larghe nel selezionare l'usabilità dei vocaboli, rimasta invece più controllata quando la bocca viene aperta da un podio prestigioso o in un'assemblea titolata di solennità, e comunque quando le frasi assumono forma scritta. Come però da un paio di generazioni non si usa più «chiedere la mano» di una signorina (ai suoi genitori) ma si domanda direttamente a lei «ti va che noi due?», da altrettanto tempo succede anche che invece di affidarsi agli statuiti meccanismi di una pubblica gara basti un movimento di sopracciglia accompagnato dalla richiesta «Quanto?». Niente di male nel primo caso, che riguarda giovani, o anche no, di diverso sesso rispettivamente attratti. Ma nel secondo, in cui interloquiscono, metti, assessori e imprenditori, consulenti d'affari e pubblici ufficiali, rappresentanti di joint-ventures e incaricati di servizi, la questione è completamente diversa. Quanto alla sbracatezza del linguaggio, una volta affermatasi nello spettacolo, era anche abbastanza inevitabile apparisse mutatis mutandis anche alla fine in bocca a un governante che appunto nel campo dello spettacolo e della barzelletta salace si era inizialmente presentato sulle scene della vita.

Non sono più tempi di farlo con tanto garbata serietà, ma ci fu una volta un poeta gentile e destinatario di molta considerazione, che si chiamava Cesare Zavattini, grande nemico dell'ipocrisia, il quale al termine di una trasmissione radiofonica che l'aveva visto stufo di doppiezze verbali, annunciò con tono deferente: «Dirò adesso, e dunque per la prima volta, una parola che ai microfoni della radio non ha finora mai detto nessuno». Qualche secondo di suspense, e poi, senza alzare la voce e con timbro del tutto normale, sillabò «Cazzo». Fu uno scandalo nazionale, con lettere ai giornali, minacce di denuncia, deliquio di parroci e di patronesse, proibizione di invitarlo ancora ad un programma. Quanto però relativamente poco tempo è passato perché quella stessa parola sgorgasse, impiumata altresì da un vibrato punto esclamativo, dalla bocca di un presidente del Consiglio (Lamberto Dini) erto sul suo governativo scranno, e fosse accuratamente raccolta dai microfoni di Montecitorio? Avendo per reazione, stavolta, solo qualche sogghigno. E nell'attualità abbiamo pure ministri che, essendo sostituibili, come Scajola, si devono far dimettere per aver definito in pubblico «un rompicoglioni» uno studioso consulente del governo (Marco Biagi) assassinato dalle Brigate Rosse. Ma che, non essendo sostituibili, come invece Bossi, si devono lasciare al loro posto anche dopo avergli sentito esprimere invito nel corso di una manifestazione pro Padania a «pulirsi il culo con questa bandiera tricolore».

Ma s'era detto all'inizio di altro tipo di parole, non cioè semplicemente scurrili (o ex-scurrili), mercantili od offensive, e pronunciate invece appositamente fuori dalle righe con intento strategico-promozionale dello stesso tipo, salve le proporzioni, con cui si commette un attentato al tritolo. Occorreva però prima dare all'indietro questo colpo d'occhio su un terreno già arato da precedenti e progressivi sdoganamenti verbali. Certo, la televisione non è il cinema, dove oramai non solo si vede ma pure si sente di tutto (riproducendo la realtà in un modo che ripropone il classico circolare effetto uovo-gallina), e lì la primogenitura zavattiniana va a sfociare, rimossa dall'alto solo la disinibizione verbale di Luttazzi, sulle impupature della Littizzetto che dice «minchia», il che è lo stesso, e di Celentano che nel titolo d'un suo programma dopo la “c“ ci mette i puntini, i quali sono molto più trasparenti di una foglia di fico. Al centro del discorso - prologo così esperito - vanno dunque messi, per ora, due aggettivi. Che sono anzi abbastanza banali e per solito applicati ad altro genere di sostantivi, e che comunque cambiano valenza anche a seconda di chi si trova a pronunciarli. Nel nostro caso si tratta di «diffamatorio» e «grottesco», voltàti comunque al femminile perché il sostantivo al quale sono stati stavolta incollati è la parola «richiesta (di pena)».

Si tratta di quella, fatta dal pubblico ministero in una di quelle aule dove campeggia la scritta «La legge è uguale per tutti», di undici anni di carcere a testa per Cesare Previti & C., dopo aver stralciato, per giudicarlo rispettosamente a parte, la posizione di un altro imputato, Silvio Berlusconi, di cui questi era avvocato ed amministratore d'affari. Questi due aggettivi sono comparsi nei titoli di prima pagina di tutti i giornali. «Diffamatorio», sfogliamo i soliti dizionari, è il procurare «danneggiamento dell'altrui reputazione o prestigio», e «grottesco» corrisponde a «stranamente deforme e innaturale, paradossale ed inspiegabile; di effetto tragicomico fondato su una voluta sproporzione fra gli elementi costitutivi di un momento drammatico». E la persona che questi aggettivi ha ex cathedra e nella propria qualità pronunciati è per l'appunto l'illustre stralciato. Non si sa se questa richiesta diventerà oppure no fra non molto sentenza, ma in quest'ultimo caso i medesimi due aggettivi è a questa che finirebbero, al cubo, applicati. Pre-applicatile infatti come sin d'ora appaiono. Tre le osservazioni da fare, una linguistica, una politica, una giuridica, alla semantica luce di queste due parole. La prima è attinente a fatto comunicazionale che ho già descritto in incipit: la loro svelta estrazione da fondina le punta sui magistrati ma l'effetto che si vuol raggiungere - mi si scusi il prelievo misto da due lingue diverse ma occorrono vocaboli che diano il senso preciso - è quello di épater the people. La seconda riguarda la fonte: nientemeno che il capo del governo nazionale in carica; il che conferisce loro una valenza tanto inusitata quanto rimbombante. La terza infine dovrebbe essere gravida di conseguenze, e dico "dovrebbe" perché non le vedo sinora generarsi se non come reazione offesa, senza finora accenno di tramutarsi anche in iniziativa.

Il semiologo dovrebbe a questo punto, fra tali due aggettivi, operare una distinzione; che è la seguente. Posto il significato succitato che ha il termine «diffamatorio» nella nostra lingua, potrebbe anche trattarsi, nella fattispecie in oggetto, d'un che di lapalissiano e di pleonastico: c'è forse dubbio che tutte le sentenze (o, prima, le richieste del PM) sono oggettivamente diffamatorie? La differenza tra diffamazione e calunnia consiste infatti proprio nella presupposizione della consapevolezza, nel secondo caso, della non corrispondenza al vero di ciò che su una persona si afferma; mentre nel primo ci si riferisce alla propalazione di una verità, reale o fondatamente presunta, la quale però a quella persona rechi danno. Ed è certo che una condanna, qualunque condanna, reca danno (no?) anche se basata su verità documentata. Non foss'altro perché pubblicamente punisce e motiva. Parola che dunque, in questo caso, si disinnescherebbe da sè. Nella fattispecie, ad ogni modo, questa parola non è stata enunciata in anodina sede di analisi logica-grammaticale ma proprio come un colpo di pistola e insieme l'esposizione di un manifesto. Con volontà quindi accusatoriamente oltraggiosa coram populo. Quanto a «grottesco», il dizionario ci dice che, estratto il termine dalla recensione di uno spettacolo ed adattato invece a politico e propagandistico uso nei confronti di un potere dello Stato, sia pur da parte di un altro potere dello stesso Stato, esso travalica dalla polemica e diventa de jure diffamatorio a sua volta, e non certo asetticamente come in un documento giudiziario che recasse in epigrafe scritto «In nome del popolo italiano».

Cosa ricavarne, posto che in diversa maniera entrambi i detti termini risultano usati in modo insultante e così l'intera Magistratura italiana li ha unanimemente interpretati? Negli Stati Uniti si tratta di un reato che, anche quando viene espresso in maniera più lieve di questa, si chiama «Disprezzo della Corte» e viene punito seduta stante in aula. Da noi esiste invece quello di «Vilipendio delle Istituzioni» (il quale infatti da alcune parti ministerali e politiche si vorrebbe depenalizzato per legge o decreto), che nella fattispecie lo equivale. E' chiaro che sic stantibus rebus qualunque magistrato italiano o anche tutti potrebbero o sporgere denuncia a sua norma, o le Procure procedere d'ufficio, oppure querelare per diffamazione, nei confronti del proffertore, chiunque egli sia, di tali temerari riferimenti. Ma il nostro non è un Paese su questo terreno molto coraggioso e quindi - o forse per non alzare ancor più il livello dello scontro - si è, al momento, preferito appellarsi al Consiglio Superiore della Magistratura ed al Presidente della Repubblica. Del resto, c'eran state di recente altre anche assai più gravi affermazioni da medesima fonte e con identico bersaglio in cui altri comportamenti coperti da insindacabile toga nei confronti di alti esponenti partitici erano stati definiti criminali, eversivi, golpisti ed ispirati da faziosità politica agli ordini di chissachì. Eppure, un "eccellente" dal carbone probabilmente un po' meno bagnato e che l'inquilino attuale di Palazzo Chigi si guarda bene dall'imitare, Giulio Andreotti, in un processo di Appello condannato (a pena più grave per reato maggiore) e in un altro invece assolto, ha accolto entrambe le sentenze con modi molto quieti, ed era stato del resto lui stesso a chiedere al Parlamento di concedere ai Tribunali l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti.

Ci sono precedenti, nella nostra Repubblica, di un potere centrale dello Stato che afferma la propria superiorità di comando su tutti gli altri, quello popolare compreso? Sì, nel breve arco d'anni che sta a cavallo dei decenni Cinquanta/ Sessanta, ma tutti presto travolti in Parlamento e in piazza. Quando il premier Fanfani dichiarò che lui e il suo partito avrebbero «governato coi voti o senza i voti», quando il premier Tambroni si rese responsabile di sparatorie della Celere facenti vittime sulla folla che protestava per i beneplaciti da lui conferiti ai neofascisti dell'allora MSI, quando in segreti altissimi vertici coinvolgenti il Quirinale di Segni si organizzò il fallito golpe De Lorenzo, o quando, prima ancora, le stesse urne elettorali avevano silurato la cosiddetta "legge-truffa" della DC, che avrebbe dato la maggioranza a chi non l'aveva. Non siamo a questo, oggi, ma l'aria che si annusa non promette niente di buono. Oggi non occorrono più i mezzi di allora per pronunciamenti o congiure, perché non sono più i «tintinnìi di sciabole» il cui suono avvertivano Nenni e Moro provenire da destra né gli esecrandi colpi d'arma da fuoco esplosi da queste BR prive di qualsiasi consenso al di fuori dei propri angusti covi a poter incidere su nulla. Oggi basta, nel Villaggio Globale in cui le tecnologie ci hanno trasformato, saper ben esercitare l'influenzante potere mediatico. E quindi possederlo. Possibilmente tutto.

E qui conclusivamente veniamo al secondo elemento di titolo della rubrica di questa settimana. Perché, come sempre, le due categorie che dall'alto si vorrebbero più docili sono abbinatamente quella dei magistrati e quella dei giornalisti. Quest'ultima - rappresentante la professione che si studia in questa Facoltà - ha appena scioperato a Milano e si accinge a farlo nazionalmente. Perchè al potere governativo attuale non basta possedere entrambi i corni del duopolio radiotelevisivo regolato dalla legge vigente, Rai e Mediaset. Ci sono i grandi quotidiani nazionali stampati i quali pur essendo tutti proprietà di establishment continuano a scrivere quel che giustamente pare ai loro direttori e ai loro giornalisti anche se al governo non piace e ne soffre. Se l'uomo di Arcore avesse in Italia testate liberamente loquaci ma non agguantabili come un «New York Times», un «Le Monde» o un «The Economist», forse diventerebbe pazzo, o più pazzo ancora. Ma qui per sua fortuna di più o meno immediatamente agguantabili ce n'è almeno due, e anche viciniori fra loro per composizione editoriale. Il «Corriere della Sera» e «La Stampa». Divenissero anch'essi più scudi che assedianti, sai che pacchia (ma che ulteriore pericolo per un'opinione pubblica nazionale già frastornata da Sua Maestà TV). Si comincia dunque col «Corriere», anche se a passi felpati e sgocciolanti mellifluo buonismo. Per l'altro non ci vorrà molto perché la famiglia Agnelli sta vendendo il suo impero a pezzi ed è più facile e meno duro passare ad altre mani il giornale che, per dire, la Juventus.

Al «Corsera» (indulgiamo alle abbreviazioni displàiche della nostra neolingua) la poltrona del direttore è già passata da un "culo di pietra" (indulgiamo anche alle gergalità del nostro mestiere) a un altro e, anche se non è giusto considerare Folli meno affidabile del predecessore De Bortoli, è stranoto come i fondi di questi fossero sgraditi al Cavalier premier il quale pubblicamente li sputacchiava irritato come più adatti, a sua detta, a «Il Manifesto» nonostante nella critica molto più gentili. Fatto è che la proprietà di questa testata è multiripartita fra il nostro Gotha finanziario/imprenditoriale ed è quindi penetrabile a pressioni, tanto negate quanto alla fine grevi, le quali hanno portato, con molta dignità, al dimettersi irrevocabilmente «per stanchezza» di un direttore cui pure la testata molto doveva per indipendenza, diffusione ed autorevolezza. Non saranno tintinnate sciabole, ma promesse di vantaggiosi e meno imbarazzanti incarichi nel gruppo sì. Non c'è altrimenti spiegazione e il successore, se non ne farà tesoro, non durerà certo chissaquanto. Questo è quel che generalmente si pensa, qui e all'estero, negli ambienti che giornalismo praticano e politica frequentano. C'era già stato in Italia un periodo in cui tutti i media si esprimevano con la stessa voce ed omologata opinione. Ci costerebbe molto far qualcosa che non solo dire «Ahi!» perché esso non finisca col tornare? Che piacere c'è ad essere castrati?