Ogni tanto il significato delle parole si appanna e ogni tanto dunque occorre por mente, ed applicazione, allo spolverarle un poco, al grattarne via incrostazioni e ruggine, a restituire loro il lucido precedente; e far sparire qualche deformante ammaccatura d'uso. Proprio come se fossero argenteria; argenteria, nella fattispecie, del nostro lessico. E dei concetti che abbiamo in testa. Opinione, se ci stiamo attenti, è il fondamento d'ogni teoria liberale, da Voltaire a Croce a Popper. Non c'è scoperta scientifica, non c'è rivoluzione sociale, non c'è innovazione artistica, che non sia stata all'inizio solo un'opinione. E d'opinioni, come ingrediente principale, è fatta la politica. Senza opinioni non c'è dialettica e senza dialettica la cultura muore, lasciando posto solo alle teorie del comando. Democrazia, se ci stiamo attenti, vuol dire, alla lettera e anche nell'essenza, «governo del popolo», e ogni accezione diversa la sfalsa. E' un concetto che si infiltra a trovar luogo persino in economia, ad aver presenti illustri teorici del ramo e studiosi del capitalismo delle origini e dello sviluppo, come Adamo Smith e le sue conclusioni attinenti ai diritti dell'individuo, e Max Weber con la sua analisi dell'etica del lavoro e dell'impresa. Il valore (e il diritto) dell'opinione, il senso (e la necessità) della democrazia, a negligere o svalutare ciò che questi due concetti rappresentano nell'Occidente d'oggi, pur così gravemente impragmatitosi (e lo stesso Peirce, fondatore del pragmatismo moderno, non ne avrebbe piacere, a rileggerne le teorie poi dagli epigoni deviate) si inducono pericoli tremendi alla comunità umana. Perché più cresce, con le tecnologìe, la possibilità di un potere come non mai immenso e come non mai immensamente concentrabile, più crescono, parallelamente, gli obblighi comuni di produrre dialettica e di esercitare controlli. Opinione e democrazia da ricollocare, allora, una volta per tutte come asserti primari: merita dunque che ne facciamo insieme adesso e qui due distinte e convergenti radiografie, con relativa prescrizione di cure.

Opinione. C'era un mio collega, una volta, con cui era impossibile discutere. Arrivati a un certo punto d'un discorso in cui le nostre idee erano divergenti, era fatale sentirlo dire: «Sì, ma questa è solo la tua opinione». Nessuna difficoltà ad ammetterlo, naturalmente, perché se su quella certa cosa mi toccava esprimere il mio parere, esso naturalmente costituiva l'opinione che di quella determinata cosa m'ero fatta in base a quel che ne sapevo: Ma dove cascava l'asino? Che invece quella analogamente espressa da lui no che non era ritenuta la sua opinione: quella invece era la verità. Magari resa inossidabile dalla “V“ maiuscola. E qui la discussione non poteva, chiaramente, che interrompersi. Perché non basta che le opinioni si confrontino e si misurino da quanto è luccicante il loro aspetto, o dal maggiore o minore riscontro che hanno con quelle che sono correnti presso i più degli altri. Dietro alle opinioni c'è sempre qualcosa che le sostiene: documenti, testimonianze, nozioni, esperienza, istinto. Tutte argomentabili. Ed è dunque non l'opinione in sè che va contestata, essendo essa solo la conclusione di un processo ragionato o basato comunque sul vissuto, bensì occorre che siano riconosciuti, analizzati e sottoposti a verifica gli argomenti, i precedenti, i fatti sui quali essa è stata fondata sino a costruirsi. Se no, nessun confronto, nessuna discussione, avrebbe sbocco, e la dialettica del muro contro muro troverebbe sintesi mai. Perché la sede politica, per esempio, dove ne avviene il confronto, si sarebbe mai sennò chiamata "Parlamento", e "parlamentari" i suoi componenti? Già chiamarla, secondo prassi invalsa, “Camera" ne adultera, senza che ce ne accorgiamo, il senso, perché la camera, in architettura, da dove il termine viene, è proprio intesa come ambiente separato. Luogo decisionale e basta, in cui non è necessario sia prima avvenuto scambio. I più prevalgono sui meno e stop.

In ogni giornale c'è una categoria di firme commentanti che viene appunto chiamata degli «opinionisti», i quali in genere sono anzi collaboratori esterni in modo che la testata stessa possa non far considerare la loro come coincidente sempre con la propria. E le più serie fra esse, sui problemi più delicati, ne affiancano incolonnati due che suonano campane diverse, portando ciascuno gli argomenti propri; siano le rispettive conclusioni, al limite, opposte, o anche soltanto fra loro differenti. Solo dove hanno spazio più opinioni si costituisce un'area che possa legittimamente alzare insegne di libertà. Questo vuol dire che non esistono opinioni giuste ed opinioni sbagliate? No, vuol dire solo che tutte le opinioni sono legittime e che ce ne possono però essere di quelle che sono ben supportate da conoscenza e logica, e di quelle invece basate su argomentazioni manchevoli od inesatte. Di questo background bisogna discutere, se no non se ne incrina la facciata che ne fa specchio esterno. Ci possono anche essere "opinioni correnti" collettive e addirittura di massa e non è tuttavia detto, ancorché radicate e diffuse, siano quelle solo per ciò le meglio fondate. Talvolta, e mica tanto di rado, è invece l'opinione di piccoli gruppi o anche del singolo, quella che è frutto di più approndito studio e portatrice di positività maggiore. Oddìo, può essere anche inascoltata, intendiamoci, ma tanto la sua verifica sarà il corso delle cose a farla emergere più avanti. La storia e la cronaca portano di ciò bizzeffe di esempi illustri e lo sappiamo.

«Fare opinione», si dice spesso di un medium o di un leader, attribuendogliene intrinseca capacità. Ma guai se scambiassimo tuttociò con capacità di oracolo o di profezia, perchè ciò si può ottenere anche con mera retorica o con prestidigitazione oratoria. Andando per sinonimi si dice spesso «punto di vista» invece di opinione. E di questo si tratta: se io guardo le cose da qui o da più in là è chiaro che il mutar prospettiva dà all'opinione, senza toglierle legittimità, un verso diverso. Può darsi che da dove sto io si veda un fiume, che tu invece non vedi perché te lo occlude una montagna che mostra invece a me il suo lato opposto. Vale per gli individui, per le ideologie e le religioni, per le classi sociali. Vale per i programmi d'azione e vale per le leggi. Quanto è rara infatti, quella Verità che è portatice di maiuscola: perché neanche che il cielo è blu possiamo dire con certezza finché ci sono daltonici che lo vedono arancione, e com'è ovvio non colpevolmente nè dolosamente. I daltonici sono pochi? Forse nell'anticamera dell'oculista, ma nelle scienze sociali, in economia e in politica sono legioni e dimostrarlo non è neanche difficile.

Democrazia. C'è qualcosa intanto da sfatare con tutta la necessaria e ferma indelicatezza possibile: che democrazia sia praticamente sinonimo di maggioranza. Democrazia è un modo di governare, non un modo di esprimersi. E un modo particolare, che sia cioè in articolato raccordo - senza perdere mai contatto con le sue componenti - con le esigenze dell'intera comunità amministrata,. Una volta differenziata in "classi" e ora distinta, ma non cambia molto, in "parti sociali". Da quando l'espandersi numerico delle popolazioni l'ha di necessità resa delegata attraverso l'elezione di rappresentanti e non diretta come nell'antica Atene era possibile, questo vocabolo è venuto cambiando abito e il suo cambiar abito ha causato distorsione graduale del concetto. Non fermare su ciò l'attenzione per prenderne atto ha messo in gestazione vari tipi di pericoli. Non ci sono, quasi, due Stati che abbiano identico sistema elettorale. Il nostro, poi, li cambia in continuazione per l'invalere di sue pragmatiche valutazioni contingenti. E' abbastanza evidente che adottando un sistema o un altro cambiano i risultati, cambia il profilo stesso del potere. Per essere democrazia, insomma, non basta quella cosa che si dice fare le elezioni, se poi il meccanismo di ripartizione dei seggi non attribuisce ad ogni voto l'egual peso che gli tocca (lo schieramento che governa attualmente il nostro paese, per esempio, ha preso un po' meno voti ma moltissimi più seggi, grazie appunto a un meccanismo idiota, di cui nessuno parla perché formulato a suo tempo proprio dall'attuale opposizione).

Per essere democrazia, continuo, non basta, al limite, neppure il suffragio universale se poi la gente, stufata da certo tipo di marchingegni ed esiti, a votare neanche ci va più. Per cui la "madre di tutte le democrazie", come amano definirsi gli Stati Uniti d'America, è, per esempio, normalmente governata dalla quota di maggioranza, e tale attualmente solo per un pelo, di una minoranza dell'elettorato. Per essere democrazia non basta neanche fare un sondaggio d'opinione al mese, allo scopo dichiarato di tenerne conto, quando poi ogni buon demòscopo sa come il tenore della risposta dipenda dal modo in cui sia formulata la domanda. Con queste premesse, non è a chi non sfugga (ma ci si chiudono gli occhi sopra lo stesso) come finiscano col prevalere metodi dirigistici e decisionalisti unidirezionali dall'alto al basso che con la democrazia reale e non solo apparente proprio nulla hanno a che spartire. Ma noi stiamo parlando di "democrazia politica“ naturalmente, cioè di natura generale e di indirizzo, perché a livello operativo dei singoli comparti della macchina sociale vigono necessarimente livelli gerarchici di responsabilità: il capitano di una nave, il direttore di un giornale, il primario di un'équipe chirurgica, il comandante di un reggimento, anche il capo di un governo, godono di indispensabili e tempestivi poteri di comando, salvo risponderne, e persino l'agorà di una polis affidava pieni poteri pro tempore ai propri generali. Il punto è che non sia mai perso l'obbligato rapporto assecondante con i propri legittimi referenti (intesi proprio come mandanti), e i referenti di una dirigenza politico-statuale sono sempre non la metà più uno di questi ma in toto la gente, the people, il popolo, insomma hò dèmos: fonte etimologica e filosofica/ideologica della parola democrazia.

C'è un altra valenza importante da tenere in considerazione, nell'attualità presente, come potenziale deviante della democrazia, la quale se non è spontanea e non funziona dal basso perde il suo requisito fondamentale e si trasforma in mero dato contabile, e capricciosamente multiuso: il potere mediatico. Da quando la comunicazione è stata, dall'avanzare tecnologico, resa "di massa", il suo potenziale di persuasione tramite suggestione è divenuto quasi irresistibile. La suggestione persuasiva è beninteso sempre esistita e ne erano maestri Demostene e Cicerone. La usò con successo la bella Shahrazàd raccontando mille una favole al sultano Shahriyàr e salvandosi così la vita; la usò Marcantonio per sollevare con abile artifizio retorico il popolo romano contro Bruto; la usò John Milton per strappare al parlamento inglese, dopo aver visitato in carcere Galilei costretto all'abiura delle proprie scoperte, l'act sulla libertà di stampa; la usò indirettamente Silvio Pellico squalificando l'Austria di fronte all'opinione pubblica europea col dare alle stampe «Le mie prigioni». Ma funzionava solo con interlocutori a portata di voce o con gli strati all'epoca alfabetizzati. Dalla diffusione della radiofonìa in poi altra fu la musica: cominciò Joachim Goebbels a portare in tutte le case tedesche la sua voce esaltata a scopo convincente d'essere una razza eletta, e finisce con la televisione capace di imporre a tutto il mondo Cocacola e MacDonald attraverso la pubblicità e condizionare i meccanismi di giudizio del cittadino attraverso l'infotainment. Non ha speranza di farcela, a momento elettorale, nessun candidato che non sia capace di «bucare il video» anche se è con frescacce. Se il voto del cittadino è conquistato con i metodi di Giucas Casella o con quelli di una headline, bèh, chiamare democratico un risultato vincente assume pure un carattere beffardo.

Conclusione. Opinione e democrazia non devono diventare il panda e la foca monaca protetti perché non siano rimossi dall'ambiente che muta loro intorno, e bisognose quindi a loro volta che nasca un movimento in questo caso di ecologìa semantica. Su opinione e democrazia occorrerebbe oggi tenere seminari e corsi , meetings e conventions, serials divulgativi e scrivere libri o dispense in CD. Certo, a chi più sa tocca insegnare a chi sa meno, e a chi è più dotato, abile e capace di guidare chi di meno lo sia, ma orientare e dirigere non sono verbi che somigliano al verbo comandare. Quelli sono ordinari e permanenti e questo solo eccezionale. Quando una maggioranza emani solo diktat fa inversamente ricordare la “dittatura del proletariato" d'infausta memoria e «Grande Fratello», nonostante il suo share, non orienta ma sbanda. Perché anche confondere audience con democrazia significa non aver capito proprio niente e capovolgere un concetto a testa in giù. E passare gomma cancellante su un'opinione solo perché sia per avventura minoritaria è un atto che ha del criminale. Se mi tornano in mente, da ciò indotti, i versi di quell'elegìa che ancora non si sa se attribuire a Mimnermo, Callino o Tirteo e che suonano: «En èirene dè dokèiste èszai, o nèoi, / atàr polemòs gàian hapàsan ehèi» (Credete di essere in pace, o giovani, ma la guerra possiede già tutta la terra) non è stavolta a quella che si sta preparando nei paraggi del Golfo Persico che mi riferisco, ma a quella planetaria e tecnologicamente assistita già in corso contro la stessa intelligenza umana. Usando di strumenti che ben altro e meraviglioso impiego potrebbero per l'Uomo invece avere.