Esattamente un anno fa avevo intitolato il numero corrente di questa rubrica «La lingua di Sanremo». Ne riproduco, perché mi pare utile, l'inizio come allora apparve in questa stessa pagina. <Grammatica: «L'insieme della struttura interna di una lingua e della sua tradizione grafica». Così il dizionario di Maurizio Dardano, ma quello di Giacomo Devoto e Giancarlo Oli amplia di molto, e secondo me giustamente, l'accezione di questo termine. Definendolo così: «L'insieme delle convenzioni che dànno stabilità alle manifestazioni espressive». Sto con lui: anche un prodotto televisivo può avere (ha) una propria grammatica, ed essa può cambiare. E se cambiare grammatica significa adottare regole espressive differenti, usando dunque un altro linguaggio e avendo una diversa scala di referenze, è col tempo possibile diventare, al limite, una tutt'altra cosa pur mantenendo i requisiti nominali di quel che s'era. E' accaduto al Festival di Sanremo». Consiglio comunque gli studenti di andarsela a rileggere tutta. Nell'indice a link della rubrica «Secolo postmoderno», qui su «Ateneonline», essa porta il numero 23. Se oggi ci torno sopra è per sottolineare la sua non "e" ma "in" voluzione ulteriore e i contesti generali in cui essa, a rischio, come sono del resto a rischio anche quelli, si inserisce. Proseguo dunque, e allargo, l'analisi impostata allora, e senza bisogno di ripetere da essa concetti che troverete lì; come se questa, insomma, e in effetti poi lo è, ne fosse semplicemente la seconda puntata.
Come si è presentata quest'anno all'appuntamento, questa maxi-istituzione televisiva nazionale? Peggiorata, nonostante qualche buona "voce" giovane e qualcuna veterana la annoverasse. Titoli e servizi dei giornali lo affermano coralmente, e poi c'è l'inequivocabile responso Auditel: tre milioni di spettatori/ascoltatori in meno significa aver perso, per luffa o ricorso a zapping, da un quarto a un terzo di essi a seconda delle serate (troppe, anche se la pubblicità ne avrebbe volute di più). Non parlerò di cantanti e cantautori, singoli/singole, in coppia, in gruppo. Perché uscirei dal mio seminato e dalla mia competenza. Quello che importa qui è l'allestimento, l'impianto generale, il modo di gestirlo: e Sanremo ormai infatti comunica nel suo "tempo reale" più scena, abbigliamento e verbosità, inframmezzati da sketches e spot, che musica e prodotti d'ugola tanto da oggi stesso riempienti in CD gli scaffali di Ricordi. Poiché oggi le case discografiche usano questo festival solo come locandina, a prescindere da chi lo vince, mentre era nato, invece, per lanciare premiando ciò che poi il mercato, allora in vinile, avrebbe recepito.
Lasciando dunque da parte parolieri, laringi e arrangiatori, è nostro interesse qui occuparci proprio unicamente del teleshow in sè: di quel loro addobbato contenitore, cioè, alla fine prevaricante nei loro stessi confronti; e di coloro che quel palcoscenico invece calcano per parlare e mostrarsi e non per cantare. Di ciò insomma in cui il linguaggio televisivo specificamente consiste, dato che le canzoni parlano il loro, che è indifferentemente, agli effetti della sostanza, veicolabile anche per radio, in cassetta, in compact disk, come colonna sonora di film, e dal vivo negli stadi o, nei casi in cui il ritmo lo consenta, nelle serate di balera.
L'arredo scenico, anzitutto. Tecniche di studio tv, e prima ancora di teatro, vogliono (vorrebbero) che esso fosse organizzato e teso al modo migliore di orientare l'occhio verso quei protagonisti umani che dovrebbero essere centrali, e di esaltare aapunto questa centralità della loro singola o convergente presenza. Nella fattispecie, portatori d'ugola e accompagnatori musicali, dal chitarrista solitario al, che so, quartetto, all'orchestra intera con tanto di maestro direttore; a un coretto, se c'è. E' un concorso di canzoni? Nulla deve distrarre da ciò. Anche la scenografia deve servire loro. E non per niente, quando Sanremo era Sanremo (parafrasiamolo, questo slogan-tormentone) essa era scarna, e concentrata su di loro. Bastava, questo sì, che avesse quel tanto di eleganza. Il nostro video, invece adesso, è traboccato per una settimana di coloratissime ridondanze barocche, profili cromatizzati al neon, cangianza abbagliante di luci, un boccascena e quinte incornicianti tutto a forma di luminosa brocca panciuta. E sullo sfondo uno schermo con semoventi motivi astratti. Del tutto distraente, insomma, anche perché, dovendo esser visto bene anche da casa, costringeva troppo sovente le telecamere al campolungo, e possibilmente abbastanza dall'alto, così da ridurre in troppe inquadrature a microscopiche figurine schiacciate al suolo chi stava volonterosamente sgolandosi al microfono. Ditemi quale visualizzante grammatica è mai questa, che ambienta, declina e coniuga il discorso in un siffatto modo.
La conduzione, adesso. Fino all'obbligo d'essere ìlari, ed anche spiritosi, nulla da dire. Non è mica la figura di un banditore d'asta da Sotheby il modello cui rapportarsi. Ma se il conduttore si veste come se andasse a un ricevimento all'Eliseo, e cioè appunto da banditore d'asta di rango (oggi si vedono spesso senza cravatta anche i ministri nel loro ufficio o quando fanno dichiarazioni)... E se parla più attento a un pubblico caciarone che a un uditorio di media e composta consistenza, scrupolosamente non scostandosi mai da una banalità non sorridente ma ridanciana, che non è la stessa cosa, attenzione, se ogni aggettivo ha, come ha, una precisa individualità propria... E se la sua mobilità facciale prevede un'unica variante, che è quella di far quasi toccare le orecchie agli angoli delle labbra scostate a scopridenti, che è il max della sua espressività... E se infine per anni ed anni a presentare 'sto festival è sempre lui, dopo aver sempre lui selezionato chi ci viene a cantare e chi resta a casa... Abbiamo descritto Giuseppe (Pippo, per il set nazionale) Baudo. Come si dice, un Potente. Sanremo è sua. Organizza, guadagna, intrattiene, conversa; qualche volta ballicchia. Può anche fare il "direttore artistico" o il sottosegretario allo Spettacolo perché conosce tutti ed ha capacità manageriali, ma che spettatori addirittura di seconda o terza generazione debbano ancora subire la dittatura iperpresenzialista di Mike Bongiorno e sua, quando ci sono già in giro tanti nuovi bravi e versatili presentatori meno schematicamente mattatori e più modernamente mediatici, questa è, suvvia, una condanna. E lo share ne ha dimostrato la crudeltà.
Perché poi c'è questo di aggiunto. L'acquisita consapevolezza di "non bastare". La neolingua trasmettitrice di messaggi televisivi - che assegna due polpose e succinte "veline" perfino a due sciolti intrattenitori come Greggio e Iachetti per fare «Striscia la notizia», nel timore sconsiderato che se no gli italiani non la guardino nonostante il suo humour e gli scoop giornalistici che fa, e un personaggio felicemente inventato come il Gabibbo - si sentirebbe asintattica (e Baudo con lei) se non affiancasse al conduttore due subconduttrici due, chiamate con molto poco garbo "vallette". Ancora fino a poco fa ne era ritenuta sufficiente una, ma qual era il problema? Che o era mora o era bionda e su questo si sa come l'Italia (anche il mondo, per questo) sia nettamente divisa in due nell'apprezzamento. Ovviare, dunque, con sagacia bipartisan! E' chiaro che quando i capi si accorgessero di quale pur non dichiarata valenza possiedono le rosse, diventerebbero immediatamente tre.
A cosa servono queste vallette? Bèh, stiamo parlando di grammatica e loro sono avverbiali. Cos'è un avverbio? Ci spiega il vecchio Garzanti che è una parte invariabile del discorso la quale serve a "determinare" ogni tipo di contesti. Determinanti e come, dunque, queste vallette, chiamate a due compiti. Primo, spalleggiare destra e sinistra il conduttore sia elevandolo così di rango che in funzione visual, come i corazzieri col presidente della Repubblica. Solo che questi hanno appunto la corazza e loro - e cosa se no - maxiscollature, lunghissimi spacchi e delle trasparenze qua e là. Tutti ricordano ancora, magari la graduatoria di canzoni no, ma quanto poco del suo elastico torso nascondesse quel superiormente scarso vestimento verde alla valletta di turno come bionda che era stata (facendo onore al cognome) due anni fa Vittoria Belvedere. Altri invece considerarono in precedente edizione uno strafalcione appunto di grammatica abbinare la magrissima e dinoccolata Veronica Pivetti alla bionda Elena Herzigova. A torto, perché la più sexy era proprio lei, mentre l'altra era semplicemente una bonarda. Insomma, non distoglie anche questo in modo infarcente da chi sta lì a cantare? Il Giro d'Italia non migliorerebbe spettacolarmente il linguaggio delle pedalate se ai polpacci di Pantani e di Cipollini abbinasse a stargli dietro, magari a spinta, anche delle giovani cicliste in tanga e carioca. Non è detto comunque non ci si arrivi. Il secondo dei compiti che s'è detto di una brava valletta è poi quello di fare ogni tanto una comparsata con l'ospite o un "numeretto" di dialogo col conduttore, bene imparato, o anche in "a solo". Qualche volta riesce e qualche volta no, ma sono foto sui magazines anche queste.
Poi ci sono le telecamere. Nulla da dire, fanno quello che possono. Esse sono la penna con cui si scrive, anzi, nella fattispecie, si descrive. Il linguaggio di chi vi è addetto è fatto di inquadrature e di movimenti, di stacchi e di dissolvenze, di primi piani e di zoomate lontano. Con una scenografia come quella già descritta e l'ordine di farla risaltare, è chiaro come il discorso debba spezzarsi di continuo, fraseggiando a singhiozzo. Ovviamente, esse si guardano bene dal ridurre a micro, guardandoli praticamente dal soffitto, conduttore e vallette come fanno ogni tanto, inseguendo varietà (?) coi cantanti. E, altrettanto ovviamente, evitano piani ravvicinati quando il seno troppo in vista appartenga a una cantante e non a una valletta: è quest'ultima che è qui per questo, no? e quello della cantante è solo un tentativo di rubare ad esse qualche inquadratura in più.
C'è invece un particolare tecnico che mette conto di sottolineare. La base dello studio è accidentata da dislivelli palco-platea-orchestra, pertanto carrelli o treppiedi a rotelle vi si muoverebbero con insufficiente agibilità e la macchina a spalla avrebbe meno campo e più difficoltà di angolazioni. E allora esse si sono trasformate roboticamente. Comandate da lontano, spingono avanti lunghi snodi onnidirezionali come i cyber elettronici che assemblano le parti d'autovettura sulle catene di montaggio. E in cima a questo loro segmentato collo c'è la rotante scatola portaobiettivi all'interno della quale le immagini vengono digitalizzate e trasmesse in regìa. Possono arrivare a pochi centimetri dalla bocca che canta, ergersi fino al soffitto e da lì planare, girarsi con coordinate flessioni verso il pubblico. Sono meno veloci in carrellata o panoramica, ma possono in compenso essere più numerose e passarsi palla. Particolare proprio linguistico interessante è che non vengono più sottratte alla vista: le si lascia quardarsi a vicenda mentre compiono le loro aggraziate e tutt'altro che infastidenti parabole, come se fossero, ma infatti lo sono diventate, elementi mobilissimi di scena anch'esse. Quest'innovazione espressiva non sarebbe tollerabile in uno sceneggiato, naturalmente, per ragioni di realismo, ma questo è uno show particolare e dal vivo, e lo decora senza disturbare, diventandone anzi elemento di caratterizzazione.
E poi ci sono gli intermezzi, la frutta candita (si fa per dire) sulla torta. Occorrono i "siparietti", retti da ospiti o da macchiettisti, coinvolgendo qualche volta le vallette ma per lo più no. Stavolta si andava da Luciana Littizzetto (dimostrazione che si può essere bruttine ma bucare lo schermo lo stesso con estro e provocazione) a Sharon Stone (22 ore d'aereo per star lì pochi minuti e baciare Baudo facendolo sentire Michael Douglas) a Giorgio Panariello (dissacratore di mestiere ma talvolta troppo greve, anche se i tempi sono quelli che sono). Manca solo che ci introducano pure un numero di dance-girls, ma probabilmente ci stanno giù pensando: perfino nel base-ball americano, dove tutti i primi piani sono ai protagonisti, ci sono le "ragazze ponpòn" che saltellano in maglietta coi colori della squadra, per ravvivare. Occorre dire che se c'è bisogno di cose così delle due l'una? O il festival da solo non funziona e allora tant'è sostituirlo con uno show vero ed intero, dove si canti pure. Oppure c'è la necessità che le sue serate siano più lunghe perché coi soli cantanti non c'entrerebbero stacchi pubblicitari nella quantità con insistenza voluta.
E siamo al dunque: la pubblicità. Già i testi (ancora no quelli delle canzoni: gli altri) sembrano scritti più con lo stile da copywriter che da sceneggiatore/dialoghista. La famigliola che abita nel Mulino Bianco o quelli che non sanno candeggiare la biancheria col prodotto giusto non parlano diversamente, infatti. E qualunque testimonial d'abbigliamento o di cosmetici è anche libera docente in portamento del corpo e modo di sorridere contenta, così come veline e vallette a loro volta testimoniano. Che la pubblicità, da allieva di pittori (Toulouse-Lautrec, Mucha, Dudovich) quand'era bambina, sia diventata scafata maestra di lingue con cattedre disseminate in tutto il bacino della comunicazione per quant'è largo, è assunto neanche più da dimostrare; e i primi ad abbeverarsene sono i politici così come ne proviene il look corrente, di parola e grafico, dei media. Ma per incrociata crescente simbiosi, come essa entra nello spettacolo inchiodandovi i suoi spot così il conduttore stesso dello spettacolo entra a intervalli nello spazio di questa senza neppure cambiare cravattino. E così ecco Pippobaudo (che «La Stampa» oggi nomencla come "Sua Pippità") il quale fa gnam-gnam garantendoci com'è buono quel commestibile industriale oppure decanta un detersivo col tono tipo "la chimica al servizio dell'uomo". Dopodiché torna come niente fosse stato a condurre. La pubblicità nello spettacolo e lo spettacolo nella pubblicità. Le visite si ricambiano, e senza sponsors la Rai neanche la metterebbe più in scena questa baracca, dove non vincono i migliori ma quelli in certo modo più vistosi e più alti in decibel.
Ho nominato la Rai, tre righe più su, e siccome essa è in questi giorni su tutte le prime pagine per le questioni caprine del suo rinnovo di dirigenza, mette conto di cogliere l'occasione, e con essa concludo, di fare un'osservazione. Che riguarda un argomento usato in sede governativa: «Mai più nell'organo di vertice una maggioranza mobile», cioè che non rispecchi rigidamente un rapporto prefissato. Come non si trattasse di un pubblico servizio che produce informazione e spettacolo ma dovesse invece configurarsi come una società dai poteri ripartiti secondo pacchetto azionario. Ma dove siamo? In un'azienda così le maggioranze devono essere mobili: si tratta di intellettuali e professionisti - tali sono i cinque membri del Consiglio appena nominato - i quali su ciascun progetto e il suo indirizzo e a chi affidarne l'esecuzione non dovrebbero che poter essere di volta in volta unanimi oppure diversamente orientati tre a due o quattro a uno secondo combinazioni, come si capisce, onestamente variabilissime e non precostituite in base a criteri estranei ai loro compiti, all'oggetto della decisione e alle rispettive inclinazioni personali. C'è da augurarsi che, per la loro qualità e per essere il presidente indicato uno (dopo tanto tempo, ed era ora) di lungo corso proprio in questo mestiere della comunicazione di massa, le cose riescano d'ora in poi - non c'è da esserne sicurissimi ma teniamo le dita incrociate - ad andare proprio così. Per come fare informazione pluralista, dibattito, cultura, intrattenimento; e anche circhi, compreso, se ci sarà, il prossimo Sanremo.
Postilla. Ripensandoci, quasi quasi ora cambiavo titolo a questa rubrica, prima di spedirla on line. Invece di quello serio serio che vedete quassù in testa me n'era venuto in mente uno più brillante, come «Le veline sono avverbi, / le vallette anche». Sarebbe stato più enigmatico - non adesso per chi è arrivato alla fine di questa lettura - ma forse più incuriosente. Quello che c'è, invece, indica con precisione il tema. Perché sto annotando questo? Perché resti in mente fin d'ora qualcosa che vedremo meglio quando parleremo di titolistica: bisogna sempre avere almeno un paio di titoli nella manica per qualunque tipo di "pezzo". Uno di cronaca e uno di fantasia, uno liscio e uno colorato. Poi la scelta definitiva si fa a seconda dei contesti di pagina o d'occasione. E se si riesce a pensarne una diecina è anche meglio. Non foss'altro che come addestrante ginnastica mentale.