Le parole sono parole, nel senso che corrispondono a oggetti, persone e pensieri, e sono fra loro collegabili sintatticamente; oppure possono essere semplici fonèmi. Sollecitando l'asinello a correre non gli si dice «Vai», gli si dice «Arri, àrri». Così come avendo a cavalluccio un bambino la cosa spontanea che si affaccia alle labbra è un «Hop, hop!». E prima, quando ce lo siamo issato sul collo, gli avevamo dichiarato «Oplà». Che si dice anche quando si scavalca un ostacolo o si fa volare con precisione il cappello fino al piolo dell'attacapanni. «Oplà la devolution», potrebbe essere benissimo un gaio, oppure ironico, titolo di giornale per annunciare un acrobatico compromesso legislativo fra alleati di governo. Naturalmente senza metterlo in corsivo come ho fatto io adesso, perché da più parti la si considera ormai diventata una parola italiana. In italiano dovrebbe invece dirsi «devoluzione», che è lo stesso e anche meglio, e se non si fa è per un motivo semplice: che si "devolvono" delle somme in beneficenza oppure degli incarichi a qualche sottoposto. E invece devolution contiene un concetto altro, e squisitamente politico. Quello di una pubblica istituzione che si spoglia di poteri propri passandoli ad un'altra istituzione. Nel nostro caso si tratta dello Stato e delle Regioni. Questi enti locali, intendiamoci, poteri ne hanno già e per un certo numero di materie anche in campo legislativo, ma s'è preso "devolution" dall'inglese - e questo è anche un modo di confondere tutta quella gente che non l'ha chiaro - perché in quel paese con questo termine ci si riferisce a un passaggio di poteri di tipo proprio statuale e complessivo e non soltanto amministrativo o gestionale. Solo che in Gran Bretagna riguarda unicamente, e per profonde ragioni storiche, la Scozia (o al massimo anche il Galles) e da noi lo si intende sminuzzato fra venti Regioni fra loro sbilanciatissime, e non può certo rappresentare la stessa identica cosa. Questo naturalmente è solo uno dei molti esempi di capziosa deriva lessicale ai quali inerzialmente il nostro sistema informativo si abbandona, rendendosi indipendente dai più indispensabili riferimenti concettuali. Sarebbe più proprio, invece di devoluzione, dire sempre "federalismo", ma sarebbe peggio che andar di notte perché questo stesso vocabolo conduce almeno a una dozzina di modi diversi d'intenderlo e ognuno dei numerosi partiti politici che il nostro Paese prolificamente annovera ha il proprio.
Parlando di fonèmi, all'inizio, ci riferivamo a un insieme di suoni comunque passibili di due valenze: una onomatopeica e una da contrazione semantica. Al primo caso vanno riferiti tutti quei suoni che ci sono stati resi popolari dai fumetti (sbàng, swiss, aargh, mumble, ecc.) o ci restano nell'orecchio dalle nostre nonne (patapùmfete, rataplàn, ciribiribìn). All'altro, suoni come ehilà (ora un saluto ma in origine contenente un avviso e un complemento di luogo) o vàff (ora una semplice imprecazione ma proveniente da un insulto che era composto da cinque parole); oppure hàil, che vuol dire «evviva» ma è diventato un riconoscimento orale fra neonazisti contraendosi da «HeilHitler» per caduta di quel nome; o ancora àilàikàik che diventò un osanna corale da quando Eisenhower usò il proprio nomignolo Ike per la campagna della sua rielezione, nello slogan scritto «I like Ike!» (Ike mi piace!). Alcuni dei fonèmi del primo caso sono però diventati parole a tutti gli effetti (slurp vuole ormai dire «cosa molto buona» e gulp «sorpresa»; e ciàk, nel cinema, si sa cos'è; per non parlare di flop, ormai sinonimo di insuccesso). Per Mussolini e per le compagini fasciste il Vate D'Annunzio coniò un fonema del tutto astratto, quasi demenziale: eja eja eja alalà (certamente invidia per lo hip hip urrah della marineria inglese poi esteso a tutto l'esercito di Sua Maestà). Fu usato come "saluto al Duce", e le camicie nere andavano all'assalto gridando «Alalà» per differenziarsi dal «Savoia!» dei soldati in grigioverde. Equivale un po' all' «Aalé ò òo» che si grida ora negli stadi, meno bellicoso ma comunque trionfale e talvolta un po' troppo eccitato anche questo.
Ma le parole dei titoli sanno di nonsenso, talvolta, non tanto per un "ciak" traslato o per un "pole" ormai senza "position". «Il paniere cresce» fa secondo voi capire che ai dati Istat per misurare il costo della vita sono stati aggiunti alcuni parametri indicatori nuovi? E che ne dite di «Normativa out» per dire che si ritiene inammissibile fare la cioccolata con altri grassi che non il burro di cacao? Cito a memoria, naturalmente, ma quasi ogni giorno se ne può trovare uno. Va bene la concisione, ma il lettore non può essere sottoposto a enigmi. «Il manifesto» li fa spesso titoli-metafora e anche belli e di buon suono, ma sempre sovrapposti a una grande fotografia che li decodifica erga omnes. Si può fare un titolo che non contenga un verbo: sostantivi, aggettivi ed avverbi riescono quasi sempre a farlo sottintendere e qualche volta proprio a sostituirlo («Il Po fuori dagli argini»). Ma ce n'è qualcuno (che so, «uccidere» o equivalenti) che è veramente difficile lasciar da parte. «Puliva il fucile e il fratello cadde con un grido» sarà suggestivo ed elittico ma insufficiente: morto, infatti, o solo ferito? I sommari e gli occhielli non costituiscono supplenza, devono solo collocare nel tempo e nello spazio, indicare protagonisti e fornire particolari o reazioni.
Fretta, sommarietà e tiranne ragioni di spazio (i titoli importanti sono ormai tutti su una sola riga molto grossa) fanno sì che la titolistica dei quotidiani abbia drasticamente ridotto il numero delle parole usabili a quelle già a forza divenute padrone dell'orecchio di tutti, scartando le altre anche quando più proprie. E poi qualcuna di esse ha addirittura quattro o cinque sillabe, e mica si può fare con tutte come «professore», ormai da tempo divenuto prof e senza neanche più il puntolino in coda. Mi è stata appena proposta una tesi di laurea molto interessante: uno screening di sei mesi su una decina di quotidiani per estrarne selezionato quel pacchetto di lemmi (trecento? cinquecento?) che costituiscono ormai lo smilzo vocabolario dei nostri giornali: una pulce al confronto degli Zingarelli o dei Devoto-Oli da un paio di chili di carta ciascuno. Studiare l'italiano a scuola potrà diventare, a questi effetti, una fatica inutile e già del resto la televisione non fa da tempo che compiere attentati alla palestinese contro i congiuntivi e le subordinate.
Nei titoli, stringati come sono, non si mettono mai punti, rarissimamente c'è bisogno d'una virgola o di una parentesi, ma ci sono due interpunzioni che fanno la parte del leone: il punto interrogativo, in genere finale, e il doppio punto che isola il soggetto. Il primo caso sarebbe da scartare sempre (al lettore si dànno notizie, non si fanno domande): al quesito «Agnelli vende Fiat.Auto agli americani?» risponda il giornale, se può, se no si astenga dal dichiararsi in dubbio. Anche perché un «forse», pur contando cinque lettere al posto di una, almeno è un'affermazione; a parte che il segno “?“ in testa a una pagina è pure brutto da vedere. Quanto al secondo caso, ho qui davanti sei giornali di stamattina e di doppi punti in prima pagina ne sto trovando sedici, che sarebbe una media fra i due e i tre ciascuno ma in realtà sono di più perché «La Stampa», che da certi inestetismi di solito rifugge, non ne ha nessuno. E' una sequela di «Bush:», «Berlusconi:», «L'Onu:», «Campionato:», «Sanità:», e chi più ne ha più ne metta: che comodità, quest'interpunzione introducente, che evita un «afferma», o «compie», o «accusa», e via così. A parte, che se dopo viene una frase, dovrebbe apparire fra virgolette la sua testualità. Ma anche questa coppia di doppi segni è una ruba-spazio e allora spessissimo si omette e al posto della testualità c'è l'approssimazione, o la più breve parafrasi possibile.
Certo, siamo giornalisti e non notai certificanti, ma anche giornalisti e non poeti trasfiguratori. E tutti questi nomi o cognomi col doppio punto danno a quella prima pagina l'aspetto di un bollettino e anche l'impressione di un ruolo che non interpreti ma sia semplicemente di passaparola. E questo non ce l'hanno insegnato né Giovanni Albertini né Nunzio Morello, ma neanche Ottone e Montanelli. Oddìo, ci sono poi a latere "fondi" e commenti, ma diciamo che hanno meno visibilità e meno lettori di quelle che dovrebbero essere le news. Quello che risulta sgradevole e crea incertezza (ci fossero le virgolette e le parole testuali ciò non accadrebbe) è la sensazione che si ha di non trattarsi d'una semplice e magari sagace sintesi quando più giornali, dopo quei due punti e prima del nome, fanno seguire una stessa sostanza ma ne cambiano, ciascuno in un modo, o l'accento o una sfumatura. Molto spesso assai imperfettamente corrispondenti all'originale. E poi arriva sempre una lettera: «Caro direttore, io non ho detto così...».
E poi c'è la questione degli eufemismi. A dire «disabile» invece di «sciancato» c'eravamo abituati. Ma questo, appena introdotto, per esempio, di non dire più «guerra» bensì «pressione militare», così la gente si preoccupa di meno, è un autentico capolavoro. Di quelli che fanno esclamare «Uàu!», in inglese «Wow» (fonèma). Che bello se un giornale ci sogghignasse amaramente sopra, invece di recepirla e adottarla.