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Categoria: Secolo postmoderno

Sto in questi giorni, come ogni anno, concretando a inizio corsi l'articolazione di programma dei miei, che di solito definisco dopo il primo contatto con l'aula. Per poterlo tarare con esattezza sull'arco vocazionale e sul background specifico di coloro che mi stan seduti davanti. Quadro che varia ogni volta in qualcosa, complessivamente e nel mix dei singoli. La vita di questa società è infatti sempre più veloce a mutare i propri canoni e anche quindi a chiedere novità a coloro che bussano alla sua soglia operativa, e non si può più, didatticamente, non tenerne conto. Quelli che ho già scelto, in quanto sono preliminare bussola anche a me, sono i titoli di questi corsi. Esporli, e darne una rapida illustrazione, è quanto riempirà stavolta lo spazio di questa settimanale rubrica.
A Trieste, dove insegno Teoria e tecniche del linguaggio giornalistico alla Facoltà di Lettere e Filosofia, e Storia della radio e della televisione alla Facoltà di Scienze della Formazione, i due titoli sono rispettivamente «Passato e futuro di una professione senza più presente» e «Medium mangia medium». Qui a Palermo, dove come sempre a partire da marzo insegno Teoria e tecniche del linguaggio radiotelevisivo, il titolo sarà - se non avrò sino ad allora cambiato idea, nel senso di trovar come casomai esprimere con maggiore efficacia lo stesso concetto - «Sua maestà lo spot».
Hanno tutti e tre un profilo chiaramente provocatorio; e un filo d'Arianna comune unisce le tre tematiche, diversamente caratterizzate invece dalla varietà delle aree mediatiche sulle quali eserciteranno analisi e in ordine alle quali forniranno conoscenze e strumenti per dotare di culturali e anche pratiche utilities i giovani che aspirano a realizzarsi in un arco di professioni contigue. Le quali sono tutte, in atto, fortemente mutanti. In rapida sintesi proverò qui di seguito a spremere il succo di ciascuno di essi, in modo da attirare attenzione, suscitare curiosità, attivare interesse su ciò di cui va tenuto conto e sui modi di d'usarne nell'approccio alle attività mediatiche; quali si configurano e quali s'accingono a modificarsi nell'attuale società della comunicazione (e della dis-comunicazione).
Se dovessimo giudicare da come grondano le edicole (ho chiesto al gestore di una grande e centrale di esse quale fosse il giro dei titoli e mi ha risposto «Sui seimila») dovremmo concludere che la carta stampata non sta perdendo colpi. Ma sappiamo anche, o dovremmo, che in edicola oggi c'è tanta carta d'ogni qualità e specificità perché quella che ve la mantiene non è ansia di leggere da parte della gente bensì l'essere vettore di messaggistica pubblicitaria. Senza della quale il numero dei nostri quotidiani e magazines scenderebbe della metà e anche il numero delle pagine dei restanti sarebbe più che dimezzato. Se io mi accorgo di quanto sia crescente il numero di studenti che vogliono fare i giornalisti e come tuttavia nessuno di essi sia se non casuale lettore di giornali, come da screening risulta, béh, non posso star lì in cattedra a fare la retorica del mestiere; devo prenderne atto, capirne il perché e investigarla, questa aspirazione al ruolo abbinata alla mancanza di feeling col prodotto. Questo significa anzitutto che il prodotto notizia - e quindi la gestione della notizia - va inseguito dove lo frequentano invece loro: cioè nella rete telematica. E che anche il mestiere di giornalista, e il suo linguaggio, vanno dunque aggiornati, devono cambiare.
Io analizzo giornali freschi, in aula, e li discuto, e mi accorgo come progressivamente ci si imbatta più spesso nel «come non si fa» che nell'«ecco come si fa». Il presente della loro fattura è sempre più subalterno alle ragioni della politica, le più banali comprese, e alle pressioni del mercato (finanziario e delle merci) e sempre meno preso dal gusto in sè della professione. La quale va dunque spinta, e adeguata nelle procedure, verso i nuovi modi di esercitarla che le tecnologie già - anche se appieno ancora potenzialmente - permettono; e con una libertà molto vicina a quella totale. Il che comporta appunto guardare avanti e provare formule. Ma anche - per saldare fra loro queste culture - guardare indietro: al ruolo e ai modi in cui il giornalismo aveva saputo essere, in altre epoche e momenti, informazione pura e "quarto potere". Dato che è verso là che c'è una spinta a tornare, ma a un livello di procedure logicamente più alto per diffusione, indipendenza e tempestività.
Parliamo di radio? Una tesi di laurea appena conclusa e di cui sono relatore dimostra abbastanza bene la rivincita di questo medium che la tv sembrava aver emarginato in modo definitivo. Una rivincita che questo si prende in web dove, mentre i giornali sono "costretti" a spostarsi, esso ci va "per scelta". Scelta saggia e lungimirante, peraltro. Cosa consente Internet alla radio, che il nostro normale apparecchio audio invece non ci rende possibile? L'abolizione dell'appuntamento orario, il trovare il tuo notiziario o il tuo programma quando lo cerchi tu, la possibilità che esso costituisca archivio anche per te. Oltre alla possibilità arricchente che questa new radio sia anche graficamente impaginata e possa integrare il suo audio con immagini. Per non parlare dell'interattività, che allarga la sua attuale interlocuzione solo telefonica.
Se le radio trasmigrano in rete, o direttamente in rete ne nascono di nuove, anche gli studi televisivi dovranno pur ambire e tentare di diventare sito. E la storia della radio e della televisione è troppo corta perchè il percorrerla non porti in un fiat verso il presente e il futuro. E verso i nuovi modi di "farla", anche la televisione. Un programma radiofonico di cui io consiglio sempre insistentemente la frequentazione ai miei studenti, «Golem» di Gianluca Nicoletti, è per esempio già nel futuro: si occupa di TV, in RADIO, e porta tutto questo anche in RETE; con approcci tematici, linguaggio e uso di tecnologie molto spesso inediti. L'appuntamento alla fine è lassù per tutti, nello stesso spazio, voglio dire: posta l'imminenza di coniugio fra due vetri rettangolari già da un certo tempo fidanzati, come quello del televisore e quello del computer, i quali già comunque una procedente assuefazione ai rapporti prematrimoniali se la stanno concedendo.
Quanto al linguaggio delle immagini movies, e a quello dei titoli (che hanno sempre un'accezione fonetica anche quando stampati) forse non tutti diamo loro l'attenzione che meritano nella rispettiva mutanza di questi anni. Ma basta concentrarcisi un poco per avvertire come le tecniche comunicative di quella forma pubblicitaria oggi la più invasiva, che è lo spot, tengano cattedra (non stiamo parlando della qualità, ovviamente) nei confronti di tutti gli altri comparti, dallo spettacolo alle news. Come cadenza, "trovata", sfondo, look, stereotipi, ricerca d'impatto, vocabolario. Ma anche nel rapporto col cosiddetto mercato e nelle regole datesi per la direzione in cui orientare volta a volta i riflettori.
La gente pensa come la suggestione induce e se, per esempio, negli ultini tre anni i media fossero stati meno indulgenti con la politica ridotta a gossip od avanspettacolo e lo sport a business o ad amori di centravanti con "veline", e ci avessero invece con più continuità informato - nel nostro interesse, essendo eventi e problemi che ricadono a riguardare da vicino anche noi - sulla questione cecena, che più drammatica, ingiusta e crudele non potrebbe essere e che, a volerla - per capirci - parametrare in analogia, è infinitamente peggio di quando il Lombardo-Veneto era sotto gli austriaci, se l'avessero fatto, insomma, fin da prima che diventasse macabro spettacolo buono ad usarsi anche su altri terreni, l'opinione pubblica avrebbe avuto molti elementi in più per valutare in oggettiva luce quanto è avvenuto - e non è finito di avvenire - in questi giorni a Mosca. Dei quali il dato saliente è la "prova generale" del mezzo chimico esistente da tempo nei maggiori arsenali di più continenti e col quale saranno, salvo reazione universale, combattute le prossime guerre. Dalle quali, per noi, i nostri figli, i nostri nipoti, vorremmo poter scampare.