Ci sono storie, personaggi, simboli, di portata universale che vengono da luoghi lontani del tempo e la cui originaria creazione finisce con l'occupare molte culture. Il teatro si è consentito di trasferire Antìgone su scenari astratti, Riccardo III in uniformi nazi, Arpagòne o Mirandolina in borghesi abiti moderni, e del resto già il Rinascimento abbigliava antichi personaggi con panni a sè contemporanei su pareti affrescate e grandi tele. Il cinema non è stato da meno, e gli autori di romanzo possono raccontare storie per le quali sia indifferente, o abolita, la collocazione temporale e di luogo quando con forza intrinseca s'intreccino conflitti o incontri basilari e perenni fra anime umane abitanti corpi di maschio e di femmina, oppure che tendano a potere o ne vengano schiacciate.
Come si fa, adesso, a scendere da così alto incipit a Mickey Mouse e Donald Duck? Màh, io ci proverò perché è un discorso di qualità e non di gerarchia, e perché il nutrimento di messaggi che un tempo arrivava alla fascia adolescente - l'età nella quale i caratteri si formano - e recava le griffes di Collodi e De Amicis, di Dickens e Twain, e che da parecchio aveva comunque già cambiato fonti, stili e percorsi, è giunto con i piedi ben già dentro a un'altra mutazione. E a formule rese pervasive e irresistibili da ragioni di business e di tecnologie.
C'è un medium che stato c'è sempre, sin da quando era graffito su roccia, e che noi oggi chiamiamo "fumetto" ma che già emetteva messaggi dalla strip a spirale della Colonna Traiana o dalle impaginate pareti della Cappella degli Scrovegni, come storie a quadretti sono sempre state tutte le innumerevoli Viae Crucis e i portali bronzei di centinaia e centinaia di basiliche e cattedrali. Prima ancora del«Corriere dei Piccoli», i cantastorie giravano i paesi srotolando i loro cartelloni dipinti con immagini in sequenza che raccontavano di paladini e di briganti, di grandi e struggenti amori diventati sangue.
Da Little Nemo e Arcibaldo/Petronilla a Mafalda e Snoopy il fumetto moderno è sempre stato insieme divertimento di bambini e satira di società, cultura grafica e alternativa eccellente di quel che non facevano più, per tramontata corrispondenza psicologica, Andersen, i Grimm, Perrault. Al loro favolistico posto ci sono casomai Spielberg e Lucas e altri fiabeggianti del tipo di Benigni, oltre a una marea di cattivanti diseducatori che vengono in cartoon dal Giappone portando esplosive frenesie robotiche o dall'America con cognome Simpson e tanta pragmatica sicumera. Perfino il Signore degli Anelli e Harry Potter di fiaba hanno solo l'apparenza e dentro ci sono ingredienti tipici di una postmodernità divagatoria che supera i valori intesi come umani per rimpiazzarli con icone oniriche. Peraltro suggestive: diciamolo però che, se similfavola dev'essere allora è meglio Pennac, il quale almeno le sue prestidigitazioni non le ambienta in una rinnovata Isola Chenoncè, forse ieri no ma oggi sicuramente distraente dall'osso che ci riguarda davvero.
Trovo molto significativo, e proseguo qui dai ganci già appositamente collocati più su, quel che è accaduto a Topolino e a Paperino. E' cambiato tutto, fonte, matita, espressione, input comunicativo, e perché allora non anche l'esteriorità fisiognomica del personaggio? Provate a immaginare che Arlecchino non sia più sfortunato e furfantello ma sia diventato una specie di Schumacher mietitrionfi, o che Pantalone abbia dismesso le sue taccagnerie da piccolo mercante per assumere le vesti di gran manager del mondo pubblicitario... béh loro erano dei "caratteri", delle "maschere", potevano recitare senza soggetto restando se stessi; ma se non c'è più la Commedia dell'Arte ma un'altra cosa, occorrono altre maschere e altri eroi. C'è Batman a raddrizzare le cose, al posto del Gatto con gli Stivali. E un surreale Cocco Bill ha rimpiazzato Nick Carter, così come Hannibal il cannibale è successo a Fantomas. Se però è sempre la ditta Paperino a trasformarsi in Paperinik o negli agenti Qu-Qu 7, e se Topolino tronca il cordone ombelicale disneyano per diventare un personaggio da cuocere nello hard boiled alla Hammet o alla Chandler, allora si sente il gessetto stridere sulla lavagna in modo raccapricciante. Come se Minnie (infatti sparita di scena) avesse preso a comportarsi con la leggerezza hard di un'eroina di Milo Manara. Proviamo allora a spiegare questo in termini un po' sociologici e un po' psicoanalitici, perché con le sole armi dell'esegeta di fumetti non ci si esce.
Ho qui davanti, sotto gli occhi, un album che mi ha prestato mio nipote, e lo sfoglio. Sì, c'è questo piccoletto con gli orecchi neri e tondi e da dietro gli esce una codina, ma è Topolino? Difficile riconoscerlo davvero in questo mondo in cui tutti gli altri non sono più cani, gatti, capre, scimmioni e maialetti ma tutti invece di sembianza umana e le femmine scoppiano nei pullover. E come si fa altrimenti, se il popolo dei comics oggi è condizionato da tutta un'iconografia generale che risente di sesso e computerizzazioni? C'è insomma un personaggio che ha operato un transfert. Cambiano le epoche, le ambientazioni, i comportamenti e il costume e dunque al posto di Mandrake e dell'Uomo Mascherato oggi giustamente ci sono Tex Willer e Dylan Dog, che rispondono, come si dice, ad "altro tipo di domanda". Come il cinema e come i libri. Ma Topolino no: pur essendo chiuso, come quello degli altri, anche il suo ciclo, egli viene tirato per i capelli a restare in scena, tramutato, deformato, alienato da se stesso, nei nuovi modi di essere, grafici e contenutistici, del fumetto postmoderno.
Vale anche per Paperino, tutto questo. Ho qua sul tavolo anche uno degli ultimi albi suoi. L'irascibile pasticcione perseguitato dalla malasorte (è questo il suo personaggio, il suo storico logo) è diventato un audace scorridore notturno dotato di sofisticati gadget teconologici, custode della legge e nemico e peresecutore di chi la viola. Circondato da papere vampette con l'ombelico obbligatoriamente scoperto, s'è liberato anche lui di Daisy e si è messo le scarpe. Paolino Paperino si è messo le scarpe! Una "mutatio" come potrebbe essere quella di Arlecchino senza più il patchwork delle sue losanghe multicolori.
Ma insomma, la matita di Quino è stata posata e Mafalda non c'è più, Schultz è morto e Charlie Brown non ha più avventure. O per meglio dire Mafalda e Charlie Brown "non proseguono". Ma "vivono" lo stesso perché le loro storie sono ristampate di continuo e le librerie ne sono piene. Perché non lo stesso per Mickey e Donald? Se immergiamo le mani nella tinozza dell'attualità possiamo ritirarle su, poiché la risposta là in fondo c'è, tenendola chiusa nel pugno; ed è quella che segue. Perchè essi non sono più figli dei loro rispettivi disegnatori, Floyd Gottferson e Charles Barks cui Disney li delegò, defunti anch'essi, ma sono diventati prodotti merceologici di una grande multinazionale del cartoon, del cinema, della TV, del turismo spettacolare che ne possiede e ne concede i diritti. E fin che in giro per il mondo continua a prosperare il business di Disneyland e continuano a sorgerne delle altre, Topolino e Paperino devono continuare la loro esistenza anche in edicola. Perché il flusso non si interrompa, perché i bimbi e i ragazzi continuino ad avere come ipnotiche icone quelle due orecchie nere e quel becco giallo. A costo di scaraventarli da superstiti di un altro mondo in un contesto disegnato e fumettato che non gli appartiene, che li rende caratterialmente irriconoscibili, che ne disturba la memoria. Eppure qualche anno fa un quotidiano nazionale ripubblicò settimanalmente e a lungo l'«opera omnia» del vero Topolino dagli anni '30 ai '50 (e idem fece un altro per Paperino) e fu un grande successo in entrambi i casi. E sarebbe così di nuovo se ciò si rifacesse. Così come ha successo, quando sporadicamente avviene, la riproposizione televisiva dei loro vecchi cartoni animati. Prolungare invece artificialmente un fatto ormai storico è una sua mistificazione e riuccisione continua, anche se questo segmento del mercato editoriale resta prospero e incoraggia a continuare così, come non ci fossero creativi capaci d'inventare altri prototipi e mancasse la forza pubblicitaria capace d'imporli e di suscitare entusiasmi nuovi. I Pokemon e gli Simpson ne sono la prova (non bella, magari urtante, ma una prova comunque, e certamente aperta a varianti migliori).
Non può naturalmente essere nella memoria di tutti, ma ci fu un momento, negli anni '40, in cui Topolino già visse uno sdoppiamento che gli tolse connotati e durò un paio d'anni. In America fu propagandisticamente arruolato dalla CIA e dal Pentagono per una serie di storie completamente avulse dalle caratteristiche precedenti, diventando eroe che sorvola la Germania con un avveniristico aereomezzo e fa prigioniero tutto il vertice del Reich. In Italia, contemporaneamente, la Mondadori fu costretta dal regime, se voleva continuare a pubblicare le sue storie, a lasciare lo sfondo dei quadretti ma a ridisegnarci sopra i personaggi con volti diversi e antropomorfi, a sostituire le orecchie di Topolino con una massa di capelli neri e a chiamarlo Tuffolino. Dopo la guerra le abbiamo riviste quelle storie, riportate all'originale, e ci fecero tenerezza.
Oggi queste creature rivivono una sorta di alienità: sono grossomodo loro nel design somatico ma è tutto quanto li circonda che è cambiato, nel modo di disegnare e colorare, e anche nella sostanza. Possono non averne contezza i più giovani, che non hanno mai sfogliato gli album in cui questo stupefacente personaggio combatteva il pirata Orango o incontrava il dottor Enigm, ma sia consentito ai più anziani di insistere nell'auspicare che a tempi nuovi corrispondano personaggi nuovi, per cui le idee sono anche facili. Invece di usare come prêt-à-porter, come "moda pronta", simulacri che non ne sono adatti. Antìgone e Riccardo III possono, nell'universalità che rappresentano, reggere il palcoscenico anche in abiti moderni. Ma quel topo e quel papero, per restare se stessi, continuano ad avere bisogno, se non dei calzoncini rossi e della casacchina alla marinara, almeno di rientrare nel proprio canone culturale. Erano latori di un messaggio originale e spontaneo, ora invece, settimana dopo settimana, copiano quelli degli altri nel più omologato dei modi. Basta sfogliare per trovare una citazione a pagina tolta di peso ai più abusati dei telefilm. Bèh, a mio nipote sembra naturale oppure non se ne accorge, ma io e i miei coetanei purtroppo sì.