Quando la polis era piccola, la democrazia era "diretta". L'oratore parlava, la folla ascoltava, poi si alzava un braccio ed era un voto, cento braccia ed erano cento voti. Si contavano. Se si alzavano tutte era l'unanimità. Nulla di tutto ciò è adesso possibile. Siamo in troppi. Non siamo più radunabili in unico luogo. Ora la democrazia è "delegata". I cittadini, suddivisi territorialmente in collegi, eleggono un ristretto gruppo di rappresentanti e questi compongono un'assemblea, da tempo intesa come "parlamento", la quale si assune i compiti deliberanti "in nome" del popolo che l'ha selezionata. E' questa che conferisce ai governi la fiducia perché essi, appunto, governino, ovvero gliela revoca. Né è possibile, per un parlamento, per un governo, per il suo capo o per ciascun singolo dei suoi membri, avere un rapporto comunicativo diretto con la massa da cui trae validità il loro mandato. La comunicazione con la gente deve perciò avvenire attraverso i media. Si è passati dagli araldi alla stampa, dalla stampa alla radio, dalla radio alla televisione, dalla televisione all'on-line.
C'era una volta il "comizio". Una campagna elettorale, ma ancora sino a pochi anni fa, si svolgeva nelle piazze: oratori sul podio, ascoltatori a (non sempre) riempirla. Si alternavano, cambiando ogni volta a questo podio colori, bandiere, simboli. Su un piano, comunque, di eguaglianza. Oggi le campagne elettorali si fanno in televisione. E la televisione è un filtro: sceglie, riassume; le è possibile il "tempo" reale, ma non la "durata" reale. Il luogo fisico "piazza" non aveva una propria opinione, le sue pietre ospitavano e basta; il luogo immateriale "televisione" un'opinione particolare invece può averla. E se ce l'ha può influenzare, condizionare, anche manipolare, i contenuti di cui è semplice, ma non passivo, contenitore e vettore.
Non occorre andare molto indietro col ricordo per poter fare un altro confronto. All'interno della tv, stavolta. Oggi si chiamano talk-show perché gli necessita, per essere attrattivi, un elemento spettacolare. Più che un dibattito con un moderatore sono dei circhi con un domatore (o aizzatore, talvolta) e sono questi conduttori a decidere gli invitati. Prima invece si chiamavano «Tribune politiche» ed erano in sostanza delle conferenze stampa. Regolate così: accanto a un conduttore più che altro con funzioni di chairman notarile sedeva un membro del governo o il segretario di un partito. Gli scranni di fronte erano per metà riservati ai quotidiani di diffusione nazionale e per l'altra metà, secondo una turnazione puntata per puntata, a quelli locali. In questo comparto vi avevo qualche volta partecipato. Era ogni singola testata, e non i responsabili della trasmissione, a scegliere il proprio giornalista più adatto a rappresentarla in quella sede. Ogni giornalista aveva diritto a porre una domanda, cui il politico rispondeva, e aveva poi anche una sorta di diritto di replica: poteva cioè - questa era la formula - spiegare se era o non era rimasto soddisfatto da questa risposta. Nulla che somigli, insomma, a ciò che si vede in televisione adesso, dove le regole del rugby sembrano aver del tutto soppiantato quelle della professionalità.
Noi stiamo parlando del nostro paese e non dappertutto è finita così, naturalmente. Ci sono paesi, peraltro, dove i media hanno ancora l'unica funzione di essere propaganda del regime. Ma questa sommaria descrizione di quadro è stata fatta perché solleticatami da un episodio di questi giorni, che ha avuto per protagonisti l'un contro l'altro polemici un presidente (quello della Regione Siciliana) e un quotidiano («La Repubblica»). Se ne faccio oggetto di una rubrica come questa è proprio perchè ricade credo esemplarmente in una problematica comunicativa, la quale ne è appunto il pane, e più specificamente appunto riguarda una metodologia della comunicazione politica. Dell'episodio presidente e testata dànno versioni diverse e ragioni contrapposte ma io penso, rispetto a loro, in un terzo modo.
Quel che è in sostanza avvenuto è che delle comunicazioni sull'attività del governo sono state fornite ai singoli rappresentanti delle testate in modo separato e possibilmente differenziato e non facendoli passare dall'anticamera al luogo di queste comunicazioni tutti insieme. Il quotidiano afferma che i giornalisti sono stati chiamati uno alla volta e che quando toccò al suo cronista egli non fu invece ricevuto, come gli altri in precedenza, perché il presidente trovava, e lo dichiarò come motivo, quel giornale troppo critico verso il suo governo. Il presidente invece sostiene, confermando il suo giudizio di antipatìa per tale quotidiano, che non si trattava di una vera conferenza stampa ma di un fatto informale in cui alcuni giornalisti furono più intraprendenti di altri nell'accesso.
Io invece formo la mia valutazione verso entrambi con lo stesso spirito e nella stessa ottica che se fossi ancora, come lo sono stato per diversi anni, presidente del sindacato territoriale dei giornalisti e vicesegretario nazionale del medesimo. Una conferenza stampa, formale o estemporanea che sia, è una conferenza stampa. Non presuppone una serie di consecutivi colloqui appartati e singoli fra chi esterna e chi raccoglie, ma un'unica esternazione offerta all'attenzione contestuale di tutti. Con libertà di valutazione e d'interpretazione di ciascuno e che ciascuno, e non solo alcuni, ha il diritto, se lo ritiene, di approfondire con domande. Avrebbero dovuto essere i giornalisti stessi a dichiarare, "o siamo accettati dentro tutti insieme o nessuno di noi entra", rifiutando l'ambiguo "uno alla volta". E avrebbero dovuto così sventare la possibilità che all'uno o all'altro, a seconda della testata rappresentata e del livello di feeling fra interlocutori, le cose dette fossero, chissà, graduate nel livello e differenziate nelle qualità modali e/o nella specificità dei particolari.
Bene, questo rappresenta - e per questo me ne sono occupato - da un lato un efficace esempio dello scadimento, appunto modale, della comunicazione politica; e dall'altro del trend di subalternizzazione (la Crusca questo termine non lo approverebbe ma si sa che la lingua è anche plastilina) della professione giornalistica nei confronti di chi potere politico detiene. Lo si tenta per ora, del resto, anche con i magistrati.
Racconterò ora un episodio personale che non c'entra nulla e nulla ha in comune, per carità, con quanto sin qui esposto; ma che serve a costatare fin dove e a quali superamenti di soglia si può arrivare quando si perde di vista la distinzione e la parità dei ruoli fra il potere politico e quello che una volta era stato battezzato "il quarto". Risale a molti anni fa e segue a una mia intervista - di quand'ero anch'io un redattore parlamentare - con un assessore regionale. Dopo avermi esposto nel suo ufficio le mirabilia del suo assessorato, e dopo che io mi ero alzato riponendo il taccuino, fece un cenno a persona presente che non ricordo se fosse capo della sua segreteria o del suo gabinetto, il quale mi porse un fascio di dépliants e di documenti, parte imbustati e parte no, mentre l'assessore in piedi ora a sua volta mi chiedeva se avessi figli e, alla mia risposta che avevo due bambini, mi disse con un gran sorriso che allora avrei trovato là in mezzo anche qualcosa di utile per loro. E che dopo aver letto il mio articolo mi avrebbe fatto scrivere, così aggiunse, "altre cose interessanti".
Tornando al giornale ripensai per strada a questo: forse si trattava di qualche iniziativa riguardante gli scolari, o dei buoni-libro, che so. Ma quando al mio tavolo di redazione aprii le buste, in una c'erano cinque banconote che insieme facevano più o meno il mio stipendio di un mese. Mi tenni per un paio di minuti la testa fra le mani e poi feci il numero di quel testimone che mi aveva messo il pacco di carte in mano poco prima e gli chiesi di venire subito al giornale perché "dovevo restituire qualcosa all'assessore". Capì al volo e dopo meno di mezz'ora me lo annunciarono dalla portineria. Scesi io e non gli dissi niente, gli porsi solo quella busta che adesso era più gonfia perché le cinque banconote io le avevo appallottolate una per una. Poi gli voltai le spalle sempre in silenzio e risalìi. L'accaduto fu da me riferito solo al direttore del mio giornale e l'articolo che scrissi con quell'intervista dentro, molto oggettivo, con qualche apprezzamento legislativo e con due o tre rilievi critici, era esattamente lo stesso che avrei scritto se questo increscioso e tremendo caso non fosse avvenuto.
Ai miei studenti di giornalismo è dunque doveroso che affettuosamente dica: attenzione che c'è sempre qualcuno il quale si ritiene più in alto di voi e che di voi vorrebbe fare poltiglia servile. Sotto tutti i regimi gli ingegneri continuano a costruire ponti e i medici a curare i malati nello stesso modo. Magistrati e giornalisti non rivestono ruoli meno delicati, eppure si vorrebbe che loro sì di regime in regime cambiassero verso e modo di esercitare la professione. Che ne dite? Non è forse «No» la risposta che si deve dare?
Metodologie della comunicazione politica
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- Scritto da Etrio Fidora
- Categoria: Secolo postmoderno