Nella precedente rubrica ero andato a prendere il bandolo lontano di quella immateriale rete comunicativa che avvolge oggi il mondo, e l'avevo sdipanato sin qui. Chiedendomi alla fine se già intorno a noi potessimo riconoscere una  filosofia inducibile da tuttociò. E per la verità una derivantene vera e propria "new philosophy" non vedendola davanti a me al momento con lineamenti compiuti, ma solo dei possibili e fin qui non ben definiti filoni che ne potranno divenire componenti, avevo detto di ravvisarne tre. Che ora cercherò di descrivere, anche - per un tanto di chiarezza - numerandoli, e magari suddividendone parte pure in sottoclassi.
Il numero uno (chiamiamolo "di massa utente", perché "di massa" sarebbe troppo largo) è da ripartire, credo, in due comparti anagraficamente distinti: (a) adolescenti/giovani e (b) adulti/maturi.
(a) Premessa: sono i giovani già in grado di "elaborare" una filosofia? La filosofia è per fefinizione una sistematica compatta, dunque diciamo di no (non ancora). Ma anche le intuizioni estemporanee, ancorché empiriche, possono delineare circuiti intellettuali/ emozionali che, quando si costatino comuni, determinano classificabilità di una certa visione del mondo e del modo di viverlo, che sarà sì più comportamentale che teorica ma che una certa connotazione di tipo inconsapevolmente "filosofico" ce l'ha. Denominiamola comunque filosofia lo stesso per mantenere una certa terminologia comune all'interno del discorso e così, sottolineata la provvisorietà dell'accezione anche a valere per i punti seguenti, poterci capire.
Mi pare che i dati emergenti siano più o meno due: uno sperimentale-creativo, applicato al computer («Lui è il mio pongo»), e teso a spremerne le risorse («Vediamo se può fare anche questo»), l'altro, ludico/scommettitivo, applicato al telefonino («Tutti nel mio giro», «Chi vince la gara dei contatti?») e intenzionato alla messa a prova dei rapporti («Io ti chiamo più spesso che tu me»).
La creatività si estende al linguaggio: non possiamo più chiamarlo gergo, è una neolingua quella che si sta formando, e da questo punto di vista è proprio il cellulare, con la sua ristrettezza di display, ad essere maggiormente decisivo. E la scommettitività si estende al computer perché anche strumento di ricerca per nuovi contatti affidati spesso al fortuito.
Dato aggiunto, poichè il cellulare stesso è sempre più plurifunzionale, cioè "sempre più computer": esso non è più status symbol, è sempre meno gadget, è insomma come quel che dovevano fin qui avere sempre pronto nella fondina il manutentore (chiave inglese), l'ingegnere (regolo calcolatore), il medico (stetoscopio), il cowboy (Colt a sei colpi). E' un "lazo" da far ruotare onnidirezionalmente per catturare quel che vuoi, un docile boomerang che torna dopo aver visto o segnato meta. Il computer già e il telefonino in procinto, è in Internet che conducono e la filosofia del "nauta", del "navigatore", è delineata da tempo: «Non mi occorre l'aereoplano, Sono un Ulisse anche se chiuso dentro la mia stanza»).
(b) Il fruitore adulto, nella sua maggioranza - perché per la non certo piccola minoranza il computer da tasca è arma (di comunicazione, ma arma, e sempre pronta) - non lascia dubbi sulla propria passività. Il computer non l'aveva previsto, non l'ha voluto, forse neanche vagamente desiderato. Gli è piovuto sulla testa, gli è stato imposto o lo ha solo accettato per obbligo di contesti, per necessità lavorative, per paura di emarginazione. In un certo minoritario numero di casi, sì, per propria iniziativa di curiosità. In genere, però, si tratta proprio dei medesimi costringenti motivi per i quali si va a mangiare da MacDonald pur rimpiangendo la ribollita toscana o si compra la motocicletta al figlio con quattro peli di barba pur stando poi in ansia per lui ogni sera, o si manda in Parlamento una maggioranza che non si adora ma da cui ci si aspetta vantaggi di ceto. Perfino chi gli resiste, al computer da tavolo e al cellulare da taschino, è in posizione passiva: quella di chi appunto pratica la filosofia dell'ineluttabile dall'osservatorio degli astenuti.
Una filosofia così è anche naturale non si ponga il problema del poter restare avviluppati in qualcosa che, essendo più grande e potente di noi, possa anche informaticamente usarci invece che limitarsi a far usare da noi gli strumenti che mette a nostra disposizione. Non hanno letto, per lo più, i suoi aderenti, nè Orwell né Huxley e per loro il "Grande Fratello" è solo guardare dal buco della serratura due che scopano su Canale 5. Non per niente è così enormemente alta e ulteriormente in crescita la frequentazione dei siti porno: il porno è proprio concettualmente, infatti, un istituto passivo, in quanto merce offerta a chi è voyeur (voyerismo = disimpegno); e che ora può fruirne nel proprio casalingo privato senza più doversi esporre con finta indifferenza all'edicola per fascicoli e videocassette o arrischiarsi nei cinemini a luce rossa.
Il punto cui siamo giunti ci porta a individuare senza fatica il numero due del quadro che stiamo esponendo, e che consiste in una filosofia la quale non sta di fronte al video ma che gli è anzi retrostante. E' la seconda di queste tre filosofie, ma non per questo la meno importante. E non è variegata come la prima, costituisce anzi un grosso e roccioso monoblocco con assunti e pretese di generale egemonia: è quella che se emettesse francobolli avrebbero su la faccia di Bill Gates. Con la sensazione però che saremmo più chiari a riconoscerla come un'ideologia che come una filosofia. Ma sono sfumature, perché non c'è mai stata un'ideologia, nel corso della storia, che non abbia avuto dietro di sè dei filosofi. E si tratta di un'ideologia, anche, che ha radici solide e antiche. Come c'è un filo storico che unisce i tiranni, da chi faceva senatori i cavalli a chi riteneva di coprir trono per diritto divino a chi faceva assassinare gli oppositori che avevano troppi seguaci, e come ce n'è un altro il quale invece segue percorsi opposti che legano l'essere "civis" all'essere "citoyen" all'essere "cittadino", ce n'è anche un terzo. Il quale si sposta invece un po' al di qua e un po' al di là di questo steccato a seconda delle convenienze; perchè ha sempre conosciuto solo le pragmatiche regole di quello che adesso chiamiamo business. E che smetterebbe subito di fabbricare computer se fosse dimostrato che si guadagna di più a fabbricare stilografiche o, che so, biciclette. Il riferimento è fatto per assurdo, naturalmente, perchè la congiuntura che conta davvero è con interessi spaziali e militari. Senza stilografiche e senza biciclette si può andare benissimo sia su un pianeta lontano che in guerra, ma senza computer non si va nè verso Marte nè contro il nemico del momento. E' questo dunque il business epocale e di questo business è la Rete ad essere il profeta.
Torniamo, per nostra convenzione, a chiamarla filosofia e non possiamo non avvertire essa concepisca il "web" - che sia "world wide" ovvero "wild wild", a seconda di come vogliamo interpretare le tre "w" che sono la sigla più digitata al mondo - come una lucrosa e plagiante fornitura di servizi al pubblico nell'interesse delle grandi corporations produttrici e detentici di licenze di apparati di informatizzazione e comunicazione telematica e di gestioni di telefonìa su filo. Che poi sono lobbies coautrici di legislazione quando non di atti di governo, non meno potenti cioè sulla bilancia mondiale di quanto lo siano i "cartelli" di fatto petrolifero o assicurativo o di gestione fondi. Non si sa bene se l'icona Paperone l'abbia inventata Walt Disney o Karl Marx ma è di questa insomma che si sta parlando.
E siamo arrivati al numero tre. Vogliamo chiamarla «hacker», questa terza filosofia? Se lo facciamo occorre aver chiara una cosa, ed è che «to hack» in inglese vuol dire “rompere» ma che nel linguaggio corrente il sostantivo «hack» corrisponde a una locuzione che in italiano ha bisogno di tre parole per esprimersi rendendo il concetto: «calcio negli stinchi». Non un calcio qualunque, cioè, come quello di Baggio in porta o di un cavallo imbizzarrito, bensì, come dire, un calcio "apposito", non solo punitivo ma un po' maligno o addirittura, meglio, con un che di sfregio beffardo.
E quale sarebbe, dunque, questa filosofia scalciatrice? Si sa, o si crede di saperlo, chi è, uno hacker. Lo è chi entra nei sistemi altrui inventando grimaldelli telematici o profittando di varchi esistenti, Lo è per esempio il famoso ragazzino di «War Games» che mise innocentemente in crisi il Pentagono; lo erano gli organizzatori di scherzacci cane per i quali usavano sghignazzando la propria abilità di gestire mouse e tastiera come frombolieri che puntassero Golìath o come il Belushi di «Animal House»; lo sono coloro che, solo per curiosità di sapere o per mettere alla prova la propria saptenza di softwaremen e le proprie intuizioni informatiche, effrangono fortini elettronici di grandi imprese e tiran giù le mutande alle multinazionali.
Se qualcuno di essi, invece di lasciare solo un anonimo messaggio di sberleffo nella cassaforte telematica violata, ruba dei segreti, non è per ricavarne neanche un cent, lo fa per "dare", per metterli in circolazione. Alla Robin Hood, diciamo. Il succo: «Hai dei per te redditizi segreti dentro i tuoi cervelloni di chips? Bene, te li faccio spartire con coloro che tu peli così se ne avvantaggiano anch'essi». Ecco. Cosa dovrei dire di disapprovante o di censorio nei confronti di una filosofia così io che da ragazzo mi facevo entusiasmare da Arsenio Lupin e da Raffles? Oddìo, anche questo sempre rubare è, per la legge, e dunque tutti gli sceriffi delle varie Nottingham si sono ogni volta scatenati contro i «merry fellows» che commettevano di tali illegalità. Ma tant'è, uno lo bècchi e cinque ne spuntano e come si fa a non fare il tifo per loro anche nella realtà e non solo al cinema? Ma li avete contati, quanti "remakes" ha avuto Zorro? Anche il loro altro non è che violare il codice penale in nome di un codice etico, e troppi di questi tycoons potrebbero essere benissimo anch'essi interpretati da Basil Rathbone.
Detto il che, e descritte queste filosofie, si potrebbe anche con tranquiilità dedurre quale potrebbe essere la "filosofia generale" che invece dovrebbe davvero presiedere, al di sopra di tutte queste, all'esistenza e all'uso di S.M. La Rete. Una cioè che la descriva come libertario strumento di conoscenza e di scambio, di rivelazione e di cultura, di contributi dal pubblico al singolo e dal singolo al pubblico; fornito però di paratìe a maglia metallica come gli ascensori e di guard-rail come le autostrade. Senza trabocchetti e trucchi e possedendo invece una deontologia propria. Senza segreti che non siano quelli che tocca alle Costituzioni degli Stati di tutelare. Senza spionistici attentati alle pryvacies costituiti da carte moschicide elettroniche strategicamente piazzate perché vi restino attaccati senza che tu lo sappia i diarii, i percorsi e le tappe dei tuoi passaggi nell'etere: costituendo in tal modo una sorta di archivi automatizzati per cui tu stesso diventi la multiuso scheda di te stesso in mani altrui.
La filosofia sposabile del Web non altra è che questa. Che la compari cioè a quella mela che Adamo ed Eva non fecero neanche in tempo a sbocconcellare, senza però che vi sia quell'arcangelo di guardia con lo spadone in mano, simbolo di verboten e d'espulsione, che l'iconografia sacra e profana ci tramanda. E su quell'albero ci sia scritto invece: «Venite e nutritevi, e conoscetevi fra voi». Ma sarà permessa, sarà possibile venga praticata, una filosofia così, o le forze da prima dover sconfiggere sono ancora troppe e troppo ramificate? Concludere con una domanda tanto retorica non è proprio il meglio, andiamo, ma quelle che abbiamo descritto non mi pare proprio siano le strofe di un inno all'ottimismo. Una diagnosi, piuttosto, cui prudenza vuole non siano aggiunte prognosi.