Questo del titolo era il concetto che aveva della sua poesia il grande Nobel cileno autore del «Canto Heneràl». E del resto anche per Carlo Levi «Le parole sono pietre», e il sociosemiologo americano Philip Kotler le vedeva come una panòplia di matite affilate, utili a blandire, ma anche a mirare un bersaglio. Non è sempre così, naturalmente, perché ci sono anche le parole “buoniste” per cui lo zoppo diventa «disabile», lo spazzino «operatore ecologico» e cieca è rimasta solo la Fortuna assieme a quei vicoli che non portano in nessun posto; gli esseri umani che in tale condizione versino ora si appellano infatti «non vedenti». Altro genere: un clamoroso libretto di Luciano Bianciardi,«Il lavoro culturale» (di lui vedi però soprattutto la sua cosa migliore, quell’acuta e tagliente opera generazionale che è la «La vita agra»), mosse ad ilarità autocritica, a suo tempo, l’intera sinistra italiana analizzando - dall’interno - i luoghi comuni del funzionariato di partito in riunioni, documenti e comizi. Così che locuzioni come «nella misura in cui...» o «la questione che si pone è...», ma anche il gesto che quest’ultima accompagnava (mano aperta battuta di taglio sul tavolo) o che sottolineava il classico «bisogna capire, compagni...» (tutti i polpastrelli congiunti d’una mano poggiati a ruotare sulla tempia come un punteruolo), smisero di colpo d’essere usati, per gli ironici brusìi che adesso suscitavano. Pietro Ingrao sostituì allora il suo consueto implacabile «vi dirò con estrema franchezza...» con «ecco, e lo dico con estrema nettezza...» presto però divorziando anche da questa troppo vicina sinonimìa, divenuta a sua volta tormentone.
Da destra, prima, la lessicalità era imposta per decreto. Come quando il fascismo pose al bando i termini stranieri: fin che si trattò di sostituire “fasciacollo» a foulard o “tassametro” a taxi, tutto stava ad abituarsi, ma quando si pretese di chiamare «racchimpallo» il tennis, tutta l’Italia e persino i più ruvidi squadristi in camicia nera si misero a ridere con le lagrime. Per non dire dei nomi propri che diventano, ma in questo caso da soli, sostantivi comuni, ed è quello in cui sono incorsi Dedalo e Cassandra, Amleto e Robot, Kerensky e Quisling.
Ma le parole che mi pare il caso di mettere sotto osservazione stavolta, spinto come sempre dall’attualità mediatica, sono quelle che vengono perdendo il loro senso primo tramutandosi in altro concetto, o venendo travestite secondo diversa accezione con un’insistenza che finisce col produrne novello uso nel modo più assuefatto. Prendiamo «mercato», che è un esempio dei più calzanti. Ehi, ha preso pure la maiuscola adesso; mi scuso e ce la metto: «Mercato». Oddìo, restano sempre come popolarmente identificati il «mercato dell’usato», per dire, o quello «delle vacche», o il definire «a buon mercato» qualcosa che si è pagato poco. Ma già profferire «mercato del lavoro» ha un suono, oggi, nell’uso comune, più minaccioso ed evocatore di timori che normalmente definitorio. Mercato: cosa vuol dire, voleva dire prima, vorrà dire poi, questo vocabolo dal passo fattosi tanto veloce?
Dizionario, anzitutto e come sempre, per capirci. In latino “mercari” = commerciare, e da qui appunto “mercatus”. In italiano, «luogo dove si riuniscono venditori e compratori per trattare, vendere e scambiare merci»; per estensione «l’insieme delle strutture materiali adibite a tale scopo»; per estensione ancora «l’insieme degli scambi e del commercio d’una determinata merce»; per ulteriore estensione infine «complesso delle contrattazioni che si fanno sui prodotti»; ed è da qui che si arriva alla tappa-chiave, che è, senza essere ancora capolinea, questa: «l’àmbito definito dallo svolgimento e dalla portata dei rapporti fra gli operatori economici». Mi sono logicamente rifatto a edizioni le più recenti. Ma guardate come lo definiva il Palazzi del mio ginnasio (1944): «Vendita d’ogni mercanzia in luogo apposito, dove concorrono in certi giorni della settimana persone anche dai paesi vicini, ed è meno di “fiera”». Stop, non c’è altro. Possiamo ben dire che ne ha fatta di strada ‘sta paroletta, dal dopoguerra in qua, vero?
Oggi che siamo nell’irreversibile éra detta della comunicazione, quotidianamente mille canali ci parlano - e talvolta ci tuonano - che non c’è solo e semplicemente questo fatidico “mercato” ma che c’è adesso in più, attenzione, «la legge del mercato»; anzi «la Legge del Mercato» perché le maiuscole, nel frattempo, sono diventate due. Ora, di leggi oggettive, cioè ineludibili e perenni, sì che ce n’è. Quella di gravità, per esempio. Ma tutte le altre le fanno gli uomini per gli uomini (o per altri uomini), e ricadono dunque nella flessibilità o nell’imposizione dello “hic et nunc”. Ed è dunque prodotto dello “hic et nunc” anche sua maestà il mercato come inteso oggi con tutte le tavole della sua legge. Ed essendo abbastanza inquietante costatare come dato considerato pressochè ovvio che qualunque cosa ci accada intorno, e qualunque cosa che noi stessi veniamo invitati o indotti o costretti a fare, sia praticamente obbligata ma guarda da chi: dalle “leggi del mercato”, bèh, un piccolo punto anche al di là del semplice semantico credo vada fatto. Appunto proprio per spiegare così anche il semantico. Che non nasce mai da partenogenesi. Se le cose le vogliamo studiare invece di fotografarle e basta, c’è dunque intanto la radiografia.
Il mercato non scende dalla montagna scolpito anch’esso in pietra fra le braccia di Mosè. Via via che ci si allontanava dal dopoguerra e che svanivano le priorità militari, e cioè nei decenni trascorsi a noi più vicini che hanno smesso di dividere il mondo in due blocchi, diciamoci la verità, un’ideologia ha vinto ed una ha perso, diffondendosi l’una dappertutto, perdendo l’altra dappertutto connotati. Ed è andata così non per l’“in sè” che ciascuna rappresentava, naturalmente, composte com’erano entrambe di buoni e di cattivi, di mediatori e di settari, ma per le abilità e per gli errori che anche in un campionato appartengono alle squadre e ai loro capitani. Senza sposare ma solo diagnosticando, perchè legittime ambedue, e meglio se accettando ciascuna un zinzino dell’altra, quella che ha vinto è appunto quella che puntava sulla libertà di fare, quella che ha perso è quella che puntava sulla tutela dei diritti. Ora, nessuno si sogna certo più di ripetere col vecchio Marx che «la proprietà è un furto», ma non si può, andiamo, neppure esagerare nell’altro senso se no c’è un’altra parola già desueta che ritorna, la parola «padrone». La libertà di fare, se sciolta da condizioni, porta infatti, e anche questa è un’ovvietà, al prevalere del più forte, la tutela dei diritti ne risulta invece infragilita quando non travolta. Insomma cosa c’è che non va nell’accezione che ha assunto adesso la parola “mercato”? Semplicemente questo: che ha perso il da noi già visto suo significato essenziale, quello cioè di “contrattazione”.
Chi ne detta le leggi sono i produttori, chi ne impone l’attuazione è la pubblicità. Se i semiolghi stanno attenti alla scalata lessicale delle terminologie, ce n’è una da mettere con cura sotto il vetrino del microscopio: «i poteri forti». La usiamo tutti e sappiamo dove ormai risiedono: nelle roccaforti economiche, nelle multinazionali, nei monopoli di fatto. La distinzione di quell’aggettivo “forti” lascia nudi gli altri “poteri”: esecutivo e legislativo, per cominciare, ché quello giudiziario lo resta per conseguenza. Poteri che solo per distratto bon ton si sta esitando a classificare, con altrettanto precisa etichetta, “deboli“ e quindi oggetto di conquista, in avanzato corso, da parte degli altri. La così incoronata legge del mercato (viene dall’alto, non illudiamoci, e non dai consumatori) sta acquisendo supplenza sostitutiva del sistema democratico in sè sino a farlo disamorare anche dal basso, dacché è il marketing proprio come filosofia che ora determina anche criteri ed esiti dei momenti elettorali: l’apparire al posto dell’essere, la coccolante potestà mediatica al posto del libero arbitrio individuale, la rinuncia all’esercizio del voto come convinti della sua inutilità. Ci sono anche fra poteri forti dei conflitti, ogni tanto, e come no. Ma è sempre il consumatore massificato che fa loro da truppa, assomigliando assai alle leve coatte degli eserciti napoleonici. E alimentandone per giunta la liquidità di manovra attraverso la suggestione degli investimenti nei fondi di gestione, dacchè il comparto bancario appositamente va spegnendo gli interessi attivi.
Se nel nostro linguaggio la parola MERCATO è dunque cosi salita di rango, ecco il motivo per cui ho pensato toccasse anche a chi, me compreso, di linguaggi si occupa, analizzarne il perché. I media detengono un ruolo fondamentale, in tuttociò: ed è sagacia mediatica quella di usare le parole travestendo concetti secondo criteri di advertising: da Palazzo Chigi è un po’ che non si dice più «le sinistre»; si dice, cambiando loro denominazione, «i conservatori». E chi sono, lessicalmente, i conservatori? ma dài: coloro che si oppongono alle riforme. Bel colpo e proprio esclusivamente mediatico! Solo che quando le riforme sono ripistrinatrici di un passato che società e storia avevano per superato, allora è il vocabolario stesso (dicendoci così chi sono davvero i conservatori) a precludere la parola «riforma» e ad offrirne un’altra, come davvero pertinente al caso: si dice «restaurazione». La lingua è la lingua.