Vediamo: tu pensi PRIMA di scrivere, pensi MENTRE scrivi, o pensi (ri-pensi) DOPO che hai scritto? Non sono io a domandarmelo: non me lo sono, anzi, mai domandato in precedenza a oggi. E’ tuttavia qualcosa, ed ha la sua importanza, che attiene al digitare su un computer. Anche se chi queste domande invece le poneva, formulando codeste tre categorie in materia di scrittura (cioè del trasferire pensieri in forma grafica-alfabetica) era uno che una cosa come il computer mai e poi mai sarebbe stato in grado di immaginarsela. Mi riferisco al prof. Arthur Schopenhauer (1788-1860), la cui "Parerga et paralipomena" indicata da Ludovico Geymonat nel terz’ultimo volumone della sua (fin qui insuperata) "Storia del pensiero filosofico e scientifico" come la sua opera di maggiore successo per limpidezza analitica - non ho mai letto, ma della cui perspicace detta suddivisione trovo riferimento nella campagna di diffidenza verso certe delle correnti utilizzazioni della tecnologìa elettronica condotta da un linguista non di secondo piano, Raffaele Simone. E me ne scaturiscono pensieri come quelli che adesso esporrò, dopo avere comunque dovutamente spiegato che parerga e paralipomena può sembrar buffo ma vuol dire "Saggi accessori e tralasciati".
Le nostre vecchie macchine da scrivere, se non le abbiamo da tempo depositate nel cassonetto, stanno ormai a far marginale decorazione soprammobile in un angolo dello studio quando nostro eventuale sentimentalismo non le abbia invece con maggiore affettuosa evidenza imbachecate sottovetro. (Così come in qualche diversa parte di parecchie abitazioni ha ancora tabernacolo qualche vecchia macchina da cucire a pedale). Le nostre dita poggiano adesso abitualmente, e senza più neppure nostro sforzo di applicazione, su silenziose tastiere elettroniche. E’ il computer, nel nostro mestiere, il compagno attuale delle nostre giornate lavorative. Dei giornalisti e dei professori? Ma no, anche di chi scrive relazioni burocratiche, o romanzi, o lettere agli amici; perfino di chi esterna poesia ed ha abituato anch’essa a comparire, timida o sonante, su vetro e non su carta. Per qualcuno è stato un passaggio eccitante ed affascinato, per qualcuno straziantemente imbranato; per qualcuno irritante per i contesti obbliganti, per qualcuno infine (i giovanissimi) spontaneo e anche gioiosamente in quanto già mediato dai videogiochi.
Anche la sensazione di confronto, fatalmente, col tempo svanisce. E’ (è stato) esattamente come per la locomozione individuale. Pensiamo forse più, se non siamo fantini, butteri, corazzieri, o simili, alla millenaria sensazione che dava, per andare da un luogo all’altro, lo stringere fra le ginocchia - ora che da generazioni inforchiamo motociclette rombanti - gli elastici e tiepidi fianchi di un cavallo al trotto? I più acculturati fra noi resistono ancora al fast-food, ma per quanto a lungo ciò ci sarà possibile? E quanta gente ha pian piano preso desuetudine dal teatro dacché cinema e televisione non han più resa necessaria la fisicità del respirare in sala la medesima aria aspirata ed espirata dall’attore sul palco? Resistono, questo sì, ma sono ragioni che esamineremo meglio un’altra volta, gli stadi. Vi scorrazzino centravanti e terzini, o vi esplodano i fiati e le corde del pop e del reggae, debba o non debba intervenirvi la forza pubblica, sono questi, assieme ai cortei nelle piazze, gli appuntamenti di massa che la tecnologia a tutt’oggi supporta ma non sostituisce.
Detto il che, l’intuizione iniziale che a queste riflessioni, assai meno banali di quanto a taluno potrebbe sembrare, ha fatto da presupposto trova il momento d’essere chiarita e sviscerata essa stessa. Quali sono - fra le altre, perché non sono beninteso le uniche - le procedure mentali che il computer ci ha costretto a cambiare? Costringere non è un verbo che uso a caso: sottraetevi se ne siete capaci. L’enorme facilità di scrittura SEMPRE PULITA perché correggibile proprio passo passo che è dote primaria del computer in questo campo, rende possibile la pratica contestualità dello scrivere e del pensare. Certo, lo scrivere/pensare (locuzione comune: “scrivere di getto”, no?) era anche prima nella capacità di molti. Ma il fatto stesso della difficoltà di correggere, e quello che la correzione “sporcava” il foglio (battere righe di “x”, nella dattiloscrittura; tirare freghi di penna o inserire frasi con freccia allogante, nella scrittura manuale) costringeva proprio alla procedura inversa: pensare di più PRIMA, per fare meno fatica DOPO. A differenza di quello iconico che c’è in basso a sinistra sulla nostra scrivania elettronica, il cestino vero che stava a terra accanto a noi diventava, se no, presto tracimante per tutta la
carta che vi sarebbe finita dentro appallottolata a furia di ricomincia-e-ricopia.
Anche la terza procedura (scrivere senza star lì a correggere tutto in corsa, tirare il fiato, e in seguito rileggere e quindi arricchire/limare, allungare/accorciare, anteporre/posporre, cambiare/sopprimere) è altrettanto facilitata dal computer. Ma essa può riguardare alla fin fine più i dati formali e stilistici che quelli di sostanza e di fondo. Solo la prima insomma continua a fornire le garanzie che sono più importanti: quelle cioè che vi sia una preesistente costruzione mentale, sorretta da autoindagine e da ispezione dei dati e dei percorsi da sviluppare come sequenzialmente formativi del testo. Che dopo, così, scorrerà più corretto, più veloce, meno soggetto a ripensamenti. Il foglio ancora bianco induceva a riflessione approfondita, prima di imprimervi un incipit scevro da ripensamenti e proseguire senza troppa necessità di revisioni; lo schermo ancora vuoto seduce invece a grafirlo subito, poi si vedrà. Conviene dunque, anche ora, riuscire a trattare il video come fosse un vero foglio. Nel primo caso infatti il nostro pensiero non si spezza in segmenti, resta abituato alle allenanti tecniche di architettura in cui prima si disegna e poi si passa a mattoni e cazzuola. Nel secondo esso rotola in uno con l’azione. Nel terzo si può essere indotti a un mero procedimento estetico oppure anche scoprire che l’insieme non va o è la concatenazione logica a non funzionare, e allora si butta tutto e si ricomincia da capo. La professione della scrittura può essere lenta e può essere rapida; a differenza dell’ingegnere, che non può “correggere” il suo ponte finito, noi il nostro prodotto invece sì. Ma se la prassi scelta è la numero due o la tre la nostra mente un po’ alla volta risulterà estemporanea e imprigrita o superfluamente affaticata. Capisco dunque in merito i timori di una sentinella come il Simone.
E vi incollo dietro un’osservazione mia, che è questa. Può essere, anzi è quasi certo - e anche ciò sarebbe limitante - il computer giunga in futuro a privare retrospettivamente gli studiosi di filologia critica (aggiungo quest’aggettivo perché un’ermeneuta è pure lui un perito settore, cioè anatomista e comparatore - anche se di testi rimasti vivi e non di cadaveri) di un loro strumento indispensabile quale è il lavoro su “originali”. E’ su ciò che si basano le cosiddette “edizioni critiche”, nelle quali non sempre sono le scelte ultime dell’autore a restare dominanti. Come non c’è più il negativo in una fotografia digitale, così un prodotto di computer è solo “il prodotto finale”.
Spieghiamoci per esempi. Scriveva (a mano, intingendo nel calamaio) Giacomo Leopardi: "Silvia, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, / e tu, lieta e pensosa, il limitare / di gioventù salivi?". E noi allora supponiamo (per carità, infatti: sto davvero inventando, attenzione!) che, sul foglio originario ritrovato, quel “mortale” sia segnato a penna d’inchiostro diverso; che al terzo verso ci fosse un “lucea” con su riga di cancellazione e lo “splendea” vi fosse stato sovrapposto; che il successivo “e pensosa” fosse scritto di lato e condotto accanto a “lieta” da una linea d’inserzione; che infine “il limitare di gioventù salivi” fosse indicato come sostitutivo di un precedente “il tuo tempo giovane godevi” a sua volta rimpiazzante un cancellato “la tua fresca età mostravi”. Ecco che lo studioso può dedurne: a) come successivo l’impulso a far intuire subito la luttuosità del finale; b) il voler rafforzare con un agente interiore una luminosità che poteva se no essere anche riflessa; c) una ricerca di più completa precisione ritrattistica; d) il progressivo miglioramento estetico, sempre più pregnante, del fine-strofa. Bene, questo ci dà maggior conoscenza non solo di ciò che Leopardi sentiva scrivendo, ma anche, se si può dir così, della sua metodologia poetica. Leopardi avesse avuto un computer (oggi poeti che se lo son comprato ce n’è) "A Silvia" resterebbe il bellissimo idillio che è, ma noi avremmo minor nozione (restandocene beninteso l’intuizione anche se da sola) del suo tormentoso poetare. Ripeto comunque che questa è stata soltanto una finzione, pur funzionalmente escogitata perché un esempio “vero” non ce l’avevo a portata su due piedi.
Alleggeriamo adesso - per un momento e piuttosto impudicamente - il discorso con una carabàttola assai poco leopardiana scritta da me in un quaderno parecchi decenni fa (cui nessuno avrà mai motivo, che sarebbe davvero assai poco serio, di dedicare un’esegesi filologica), soltanto per rivelare che le sue varianti precedenti e fortunatamente irricostruibili, almeno quattro, avrebbero, se note, completato l’opinione d’un eventuale lettore mostrandogli anche una istintivamente smodata materialità iniziale, solo con paziente gradualità passata da scalpello a pastello, da goliardìa smaccata ad emozionata allusione. (E’ che anche il nome di costei assonava con Silvia). Eccola qua: "E lei Occhiblu alla fine adesso scendeva. / Scendeva / da quella scala a chiocciola / lentissimamente scivolando / maculata tutta / d’efelidi ocra dolcissime, / mano alla ringhiera / sofficemente. / I suoi colori eran suoni, bada: / strisce fucsia le labbra / e più giù di geranio / due dischi e fulvarancia / era non solo di capelli. / L’accappatoio leggero / pendeva turchese / dietro la spalla da un tremante / dito. Fra i denti stretto / un angolo di bocca,/ e un eloquente luccicone / spuntava fra le sue ciglia in cantuccio".
Quella volta pensavo al cinema, anche se un cinema così all’epoca non era concepibile, e oggi potrebbe essere un lampobrandello di clip senza possibilità data - è questo l’unico punto che interessa il nostro assunto provocantemente esemplificativo - di radiografarne la genesi, per la quale occorrerebbe disporre della pellicola dei numerosi precedenti ciak o, come in molti casi, del cosiddetto backstage.
Tornando allo Schopenhauer da cui eravamo partiti, e per chiudere il cerchio, dice in sostanza di lui Geymonat che egli fa prevalere il concetto di causalità su quello di razionalità: se la logica dell’uomo si esercita in conseguenza della rappresentazione che questi ha, o si dà, del mondo, è chiaro che sono i fenomeni a determinare quella e non quella questi. Cosa perfettamente vera, come abbiamo appena visto, come possiamo, se vogliamo, costatare ogni giorno intorno a noi, e come anche il computer appunto ci dimostra. (Ultimo cenno dovuto, per mio scrupolo: personalmente ho ora accertato d’appartenere alla prima delle tre categorie schopenhaueriane “de scriptura”: se il mio testo non ce l’ho prima ben costruito in testa, normalmente non comincio. Ma una piccola ripassata a luce della terza gliela dò poi quasi sempre).