Leonardo Sciascia era un comunicatore? Il successo dei suoi libri dice di sì nonostante fosse persona così schiva. Ma è esistito anche proprio uno Sciascia giornalista? Le innumerevoli cose che ha scritto pure per altri quotidiani ma soprattutto per «L’Ora» lo confermano. Appunto a ciò è stato recentemente dedicato un convegno a Caltanissetta e la rubrica di questa settimana sintetizza parte della relazione da me fatta in quella sede.
Io l’ho naturalmente incontrato molte volte, negli anni, per le sue frequentazioni del giornale e quand’era consigliere comunale, ma sempre assieme ad altre persone, colleghi, amici. Soltanto due volte noi da soli. La prima proprio qui a Caltanissetta nel 1958: in coincidenza con la mia assunzione regolare dopo tre anni di precariato Vittorio Nisticò, il grande direttore di cui sarei poi stato impari successore, mi mandò qui per fare, con qualche collaboratore locale, la pagina che ogni giorno veniva dedicata a questa provincia. Ci restai per otto mesi, mancando un’unica fatale mezza nottata e mezza giornata, quelle del 14 febbraio: scendevo ogni notte in stazione alle tre e mezza per consegnare al capotreno il fuorisacco col materiale per il giornale, e quella volta con lo stesso treno partii anch’io per andare a Palermo a sposarmi. Cerimonia rapidissima, rito civile, in Municipio, nella prima mattinata, e ritorno immediato a Caltanissetta in due: lasciai la sposa in redazione (dove in una delle due stanze la branda era stata appena sostituita da un quasi-letto a due piazze) e subito sparii da lei, poveretta, e anche abbastanza a lungo: mentro ero a Palermo era crollata una galleria della zolfara Gessolungo di Riesi e dodici minatori erano rimasti uccisi. Per questo ero tornato subito, saltando addirittura il pranzo di nozze. Non fu proprio quel che si dice una vera luna di miele, insomma, per noi due. Fu invece il mio vero battesimo nisseno. Segnato da una molto emotivamente seguita, e non solo sul luogo, mia campagna contro la Curia che una sola di queste bare aveva lasciato fuori dalla porta della chiesa, durante il funerale, bollandola a voce alta come quella di un «pubblico concubino» perché quella coppia, unica fra le dodici, non era sposata.
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Un gruppo di alcuni illustri collaboratori de "L'Ora" nel 1968: da sinistra Gioacchino Lanza Tomasi,Vincenzo Consolo, Leonardo Sciascia, Felice Chilanti, Piero Dallamano; al |
Sciascia qui lo conobbi dunque, nella libreria del suo omonimo, dove sostavo spesso, un libraio editore dalla conversazione intelligente e arguta. Ero con Roberto Ciuni, di passaggio qui, anch’egli poi giornalista a «L’Ora» prima di essere direttore del «Giornale di Sicilia» e di altri due quotidiani nazionali, e ci presentò lui che già lo conosceva. Allora di Sciascia, che abitava ancora in questa città e vi faceva l’insegnante alle Magistrali, erano note solo «Le parrocchie di Regalpetra» e di lì a pochissimo sarebbe uscito «Gli zii di Sicilia». Aveva già scritto qualche articolo per «L’Ora» e la nostra conversazione, passeggiando dopo, piano lungo il corso, vertè sulla possibilità di stabilizzare questa collaborazione, anche se lui era tendenzialmente restìo a un impegno costante (poi di rubriche fisse invece ne ha fatte diverse per noi, nel tempo).
La seconda volta di un, diciamo così, “tête-à-tête” fu vent’anni dopo, quando andai a trovarlo nella stanzetta arredata liberty che aveva presso le Edizioni Sellerio a Palermo, per chiedergli un’opinione sulla scelta che s’era fatta da parte nostra di Alfonso Madeo, inviato meridionalista del «Corriere della Sera», per succedermi nella direzione del giornale che si era appena costituito in cooperativa con la presidenza di Nisticò e in cui avevo assunto un ruolo editoriale. Sciascia non era, si sa, uno molto loquace, e ricordo l’unica frase che su questo, dopo che gliene avevo illustrato ampiamente le motivazioni, pronunciò con quella sua normale smorfia che sembrava aggrondata anche quando sorrideva: «Mi pare una buona cosa». Poi parlammo, naturalmente, come del resto quella prima volta, anche d’altro. La caratteristica singolare di questi due incontri è che entrambe le volte c’era dietro a me Vittorio che, l’una e l’altra, mi aveva suggerito lui i due rispettivi quesiti centrali del colloquio. Perché era lui che voleva Sciascia a «L’Ora» ed era lui cui premeva il parere di Sciascia su quella successione alla direzione del giornale.
La più famosa delle sue rubriche per il nostro quotidiano - e nelle quali fu sempre puntualissimo - fu «Quaderno», che infatti diventò poi anche un libro, ma l’ultima serie la chiamavamo, anche se non era questo il suo nome, “il quadratino” (perché erano pochissime righe collocate in prima pagina, in una cornicetta rossa) e fu anche quella che contenne l’ultima cosa che scrisse prima di morire.
Sciascia fu certo una presenza eccezionale non solo nella nostra testata ma - non esprimo davvero niente di nuovo - sulla ribalta generale degli intellettuali scrittori che hanno caratterizzato il nostro ‘900. Semplice lo era nei modi, ma non certo dentro la testa. Scriveva con stile semplicissimo ma dietro le righe si percepiva, si percepisce, un pensatore di grande rovello, la cui determinazione nell’esprimersi era proprio il frutto - e ciò non è per nulla contraddittorio - dei suoi dubbi interiori. E attenzione alla parola: non significa incertezze di giudizi, ma l’averli sempre preventivamente assoggettati appunto a dubbio come setaccio delle apparenze. La complessità del suo pensiero, lui che riteneva la Sicilia essere il confine e il gancio dell’Occidente con l’Oriente, e così tanto rappresentata nella letteratura e nell’arte da svanirvi dentro, a questa rappresentazione (lo aveva scritto in una lettera a Italo Calvino), e che, insieme al travaglio della “sicilitudine” - splendido neologismo comune a lui e a Tomasi di Lampedusa - tanto aveva preso dal giansenismo antigesuitico di Biagio Pascal e dalle rigide asprezze di un altro Calvino, Giovanni, lo portava di continuo ad essere controcorrente e a congiungere l’analisi con lo spirito della polemica. E questo caratterizzò appunto spessissimo le sue rubriche scritte per noi.
Io sono sempre stato colpito da due delle salienze del suo essere: talune sue amicizie, taluni suoi personaggi protagonisti. Dico quali.
Entrambe radicate più intellettualmente che per pulsione affettiva, aveva due grandi e solide relazioni personali. Quella appunto con Italo Calvino - colui proprio che dètte notizia della scoperta fatta di questo giovane intellettuale siciliano in una sua lettera a Giulio Einaudi proponendogli per questi una collaborazione a, credo, «Nuovi Argomenti» - e Renato Guttuso. La prima durata quasi una vita (eppure così diversi: l’uno di rocambolica fantasia, l’altro un geometrico intassellatore; poi infatti uno screzio ci fu) e mi impressionava, appunto, il così forte nesso potuto realizzarsi fra portatori di diversità pur tanto marcate. La seconda amicizia, che invece sembrava tra due più affini per radici, la troncò con un irrevocabile colpo di scure - e questa fermezza mi emozionò per la sua rarità - quando Guttuso (anche lui sodale de «L’Ora») mentì su di lui per motivi di prevalente ragion politica e pur chiedendogli poi perdono. La sinistra, aveva detto Sciascia quando si scollegò dal Pci che l’aveva eletto come indipendente, per presentarsi invece con i radicali i quali a loro volta lo elessero, «aveva perso il polso della situazione». Molti se ne accorsero solo assai dopo, ma lui già allora. E di Marco Pannella, altra importantissima affermazione con l’altra connettibile, disse che non ne condivideva tutto ma che ne «apprezzava il far politica in modi che politici non erano».
E ora quei suoi personaggi che più mi han fatto riflettere. Traducendo un testo di Manuel Azaña aveva scritto Sciascia di questo (e io me lo sono copiato prima di venir qui per poterlo citare nella sua esatta testualità) che esso costituiva «la più alta, nobile e solitaria espressione dell’angoscia del far politica che ogni uomo politico dovrebbe sentire». Questo di Sciascia è sempre stato assillo costante: dietro alla «Controversia liparitana» si legge infatti il dramma di Aleksandr Dubcek, dietro al «Consiglio d’Egitto» quello analogo del popolo algerino umiliato e crudelizzato dalla Francia, e - aggiungo perchè ne ho visto proprio poco fa esposto nell’atrio il manifesto d’epoca - in un suo testo per il teatro del 1965, «L’onorevole», c’è già scritta, meditiamolo, tutta Tangentopoli: trent’anni prima!
Sentiva acutamente - voglio sottolinearlo perché è quanto resta fondamentalmente dentro di me, di lui - e in modo laico il mistero dell’anima e l’espiazione delle responsabilità, così pervengo a definirla, che si annidano nel rapporto dell’uomo con le idee, con la scienza, con la politica, con l’arte di governo. E non a caso tre personalità cui ha dedicato tre libri insieme lucidissimi ed appassionati sono stati fra’ Diego La Matina, Ettore Majorana e Aldo Moro. Così differenti fra loro nei presupposti, così affini nel rispettivo tormento. L’uno per la sua tremenda partita, in diseguaglianza di risorse condotta, con l’Inquisizione spagnola; un altro per aver, probabilmente, misurato fino alla propria conclusiva tragedia il rapporto fra le conseguenze pratiche della scienza e la sorte degli uomini. Quanto al terzo, non posso costantemente fare a meno d’immaginare quale e quanto diverso sarebbe stato il corso della storia recente del nostro Paese se prima che scomparissero si fosse alla fine consumato il raccordo fra l’uomo del “compromesso storico”, Enrico Berlinguer, e l’uomo delle “convergenze parallele”, appunto Moro che proprio questa sua enunciazione, in fondo, pagò con la vita; mentre fu invece (paradosso) l’altro a precludere indirettamente la strada che forse l’avrebbe salvato. E così abbiamo invece poi avuto Andreotti, Craxi e Forlani, e tutto il resto conseguitone sino ad adesso.
Penso che se Sciascia vivesse ancora un altro drammatico personaggio alla cui vicenda dedicherebbe attenzione, facendo anche di lui parabola, sarebbe quasi certamente Adriano Sofri.
Queste, e non solo queste, sono le cose che soprattutto collegavano Leonardo Sciascia a ciò che é stata per la Sicilia «L’Ora» di Vittorio Nisticò, un giornale-officina, un giornale-motore, un giornale che era specchio di tutte le complessità socioculturali di quest’Isola, e però insieme anche invenzione e fantasia continue. Che accoppiava insomma al più convinto rigore professionale la più alta libertà intellettuale, mantenendo tuttociò con coerenza (anche costosa) finché lui soprattutto, e altri di noi, ci fummo dentro.