C’è sempre un’intercorrenza temporale fra scrittura di un testo e sua pubblicazione. Sarà dunque possibile che al momento della lettura di questa rubrica siano intercorsi degli altri fatti in relazione al suo odierno tema; che non rinuncio egualmente a trattare posta la sua eccezionalità. Non basta che lo chiamiamo «il caso Biagi» perché un altro «caso Biagi» ha appena e a lungo occupato da noi le prime pagine dei giornali e si trattava dell’economista Mario, il cui assassinio ha siglato il rientro in scena delle Brigate Rosse. Dunque lo chiameremo «il caso Enzo Biagi». Chi è lo sanno tutti: un giornalista di qualità e popolarità eccezionali che in questa professione è anche, da noi, il decano della serie A. C’è una sua lettera molto grave sul «Corriere della Sera» di oggi. Sono un giornalista anch’io, insegno giornalismo in due Università e non posso, si capirà, non preoccuparmene posto che tengo lezione ai miei studenti ispirandomi proprio a quelle regole professionali (oggettività sui fatti e indipendenza delle opinioni) di cui egli rappresenta un esempio dei più cospicui. Cosa è successo? Beh, stampa e tv l’hanno già detto e prima di ripeterlo anch’io farò due citazioni, che si possono trovare peraltro anche nelle mie dispense dell’anno scorso.
La prima è questa: «La stampa è un arsenale che non bisogna assolutamente mettere alla portata di tutti». Appartiene a Napoleone Bonaparte e quando la pronunciò, accompagnandola col provvedimento che riduceva da 72 a 13 i giornali che uscivano nel dipartimento della Senna, ancora non era neanche imperatore ma solo primo console. La seconda invece consiste nell’art. 1 dello statuto (1927) del sindacato nazionale fascista dei giornalisti e così recita: «Il SNFG non è soltanto un’organizzazione sindacale di tutela dei giornalisti italiani, ma è anche uno strumento squisitamente politico agli ordini del Duce e del partito fascista».
Cosa denuncia Biagi nella sua lettera? La minaccia di suo (e anzi non solo suo) licenziamento dalla Rai, servizio pubblico, pronunciata dai microfoni di una capitale estera dal nostro presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, lì in visita di Stato; licenziamento «a meno che non cambi». «Ma io - dice Biagi - faccio questo mestiere da sessant’anni e cambiare non posso», E cosa ha fatto mai il giornalista? è incorso in denunce penali? ha fatto le corna in tv? ha detto bugìe? No, il premier ha definito “attività criminose” le espressioni critiche di questi su alcuni indirizzi del governo ritenuti non commendevoli. Mi domando: cosa dovrò dire d’ora in avanti dalla cattedra? Rimangiarmi ogni illustrazione del ruolo della stampa in un paese libero? Sorvolare sulla parte avuta dal «Washington Post» nel Watergate e su quel titolo «J’accuse» che campeggiava in «L’Aurore» sopra un articolo di Emile Zola (affare Dreyfus)? Smettere di sottolineare come in democrazia i Parlamenti siano sovrani ma essa poggi anche su quei due fondamentali pilastri di controllo che sono il giornalismo e la magistratura?
Non credo insomma sia solo Enzo Biagi a doversi dichiarare leso ed offeso di fronte a un passo falso di questo genere in cui ogni tanto incorrono, nella storia, sia la destra che la sinistra; ne sia bensì coinvolta una categoria intera. Quanto a me, essendo stato direttore di un quotidiano, consigliere dell’Ordine professionale, presidente in Sicilia dell’Associazione della Stampa, vicesegretario nazionale del sindacato dei giornalisti italiani, questo motivo è dunque quadruplice e ne sento obbligo di esternazione. Se le Università italiane hanno istituito corsi di laurea in Giornalismo, sottraendo così agli editori l’esclusività di poter creare questo delicatissimo genere di operatori dell’informazione e conferendo loro una qualificazione culturalmente più elevata, non è certo perché l’ossequio prevalga sul rigore e annulli quel principio di autonomia ed autogoverno che sia a giornalisti che a magistrati spetta. Ed è riconosciuto da legge.
E penso, in definitiva, che quanto è accaduto fornisca dimostrazione sufficiente che il vero “conflitto di interessi”, se c’è, a luce di storia, è quello fra il cav. Berlusconi e l’Italia. Quanto di premoderno (l’ho già scritto una volta) ha ancora modo di affiorare in quest’èra postmoderna, no?