Stampa
Categoria: Secolo postmoderno

La rubrica precedente ci aveva condotto, per l'avvicinarsi del limite di spazio, a una sospensione del discorso. Che ora prosegue. C'è un saggio di Ferruccio Rossi-Landi, vecchio già d'una trentina d'anni ma dalle cui pagine si sfilano tuttavia parecchi riferimenti attualissimi relativi al rapporto tra linguaggio e ideologia e alla concezione stessa del linguaggio come attrezzo sociale; Rossi-Landi è un semiologo di scuola marxiana e queste cose le aveva del resto già esplorate Wittgenstein. Lo spunto fondamentale che qui motiva questa citazione è quello dell'intuizione della lingua non come scienza a se stante ma come elemento invece di una semiotica generale che sia una vera e propria "scienza globale dell'uomo". E a noi questo concetto serve per stabilire differenze e analogie in configurazioni statuali-culturali e in strategie politico-amministrative in cui è la lingua, appunto, strumento protagonista ma non soggetto finale di un'azione. A ogni lingua corrisponde una cultura, infatti, e questo è certo, e dunque un'identità; ma essa non lo è costitutivamente da sola: essa ne è mezzo, ne è vettore, ne è strumento di scambio. Non anche di tutela? Certo: tutela e scambio, concetti diòscuri, binomio sottile; bisognoso di accorto equilibrio e di rodaggi intelligenti.
Ci sono Paesi bilingui. Sono frutti geopolitici. Li ha fatti tali la storia. C'è l'Olanda fiamminga e c'è l'Olanda vallona; c'è il Canada anglofono e c'è il Canada francofono. Noi la chiamiamo, semplificando, Svizzera, ma il nome di Confederazione Elvetica è più corretto per uno Stato trilingue accovacciato tra Francia, Germania e Italia. Così il nome giusto di quella parte insulare dell'Europa è United Kingdom, Regno Unito, perché è fatto anch'esso, e con ingredienti pure linguistici diversi, da Scozia, Galles e una fetta d'Irlanda oltre che da quella che sogliamo chiamare con generica onnicomprensività Inghilterra. In Spagna, la realtà castigliana e quella catalana hanno trovato da tempo un modus vivendi; non così quella basca che ancora esige anche con azioni armate una propria distinzione nazionale. Quante sottolingue e dialetti convivono in due Stati che sforano entrambi il miliardo d'abitanti, come la Cina e l'India? Questa è una risposta probabilmente difficile anche per gli esperti. E che dire di due lingue che coprono una pluralità di nazioni divise su tre continenti spartiti da due oceani, come l'inglese e lo spagnolo?
Il centro del discorso cui ci siamo così via via avvicinati è ancora più piccolo: l'Italia, naturalmente. Dove accampa autonomia linguistica la Sardegna mentre in Sicilia, isola dal dialetto forte e ricco di grecismi ed arabismi, sono cinque i comuni dove si parla l'albanese; e dove le altre tre Regioni dotate, a ragion veduta, di statuto speciale, includono minoranze linguistiche rispettivamente francofone, germanofone, slavofone. La Val d'Aosta no, ma le altre due hanno una caratteristica comune: d'includere un'area in cui la seconda lingua è in realtà maggioritaria. Il tedesco in Trentino-Alto Adige (provincia di Bolzano) e… lo sloveno? ma no: il friulano! nel Friuli-Venezia Giulia (province di Udine, Pordenone, Gorizia). Perché qui c'è questa stranezza: che il bilinguismo statutario riguarda italiano e (a Trieste ce ne sarà ventimila) sloveno. Ma che il dialetto friulano, promosso lingua con legge dello Stato, è in realtà parlato dalla maggioranza regionale: circa 800mila cittadini, mentre i giuliani non sono più di 300mila (l'Istria è ormai da mezzo secolo spartita tra Slovenia e Croazia e altrettanti ne sono da allora con larghissima diaspora emigrati). Qual è il problema, dato che s'era partiti da Wittgenstein e dalla lingua quale strumento di politica?
Il problema non è certo quello della differenza fra una lingua e un dialetto: culturalmente né il friulano né il sardo hanno aggiunto nulla in identikit e valenza tradizionale a quanto già per melting di radici rispettivamente catalane e celtiche in sangue e idioma da sempre rivendicavano. Fra lingua e dialetto dopo la legge numero 484 ora c'è un forte differenziale d'altro genere invece, e cioè giuridico, e la prima gode adesso - a differenza del secondo, usato a Trieste - di forti sostegni finanziari. Che si traducono soprattutto in iniziative atte a consolidarla anche come idioma scritto e ad attribuirle il diritto d'essere insegnata a scuola. Diritto che già avevano, dai trattati di pace segnanti la riforma dei nostri confini orientali, sia lo sloveno a Trieste e Gorizia sia l'italiano nelle perdute province di Pola, Fiume e Zara. Come non lo sono né il veneziano di Goldoni né il meneghino di Porta, neanche il siculo, il napoletano e il romanesco son candidati invece ad essere insegnati a scuola: e che bisogno del resto c'è, con tutto l'intenso ammaestramento che ce ne dànno di continuo cinema e tv? E' proprio l'italiano, casomai, che in televisione scapita, assediato da tante dialettalità e destrutturazioni grammaticali. La destinazione finale, il punto d'approdo del nostro discorso, è però appunto quella che suppone l'insegnamento scolastico, in una parte del nostro Paese, di un idioma che non riguarda cittadini d'altra etnìa da un ridisegnar di frontiere lasciati al di qua di esse, bensì un'enclave esclusiva tutta interna ai confini nazionali e che finora l'ha parlato più in casa che fuori, più in campagna che in città, anche se Pasolini l'ha usato per scrivere delle poesie bellissime e struggenti.
L'avevano fatto anche Rocco Scotellaro nel profondo Sud, Gioacchino Belli a Roma, Ignazio Buttitta in Sicilia, ma i loro erano "dialetti" e il friulano invece è una (la più numerosa) delle tre varianti esistenti di quella antichissima "lingua ladina" che non dovunque con le stesse assonanze è parlata oggi anche nei Grigioni e nella Val di Fassa. Ho usato la parola "idioma" appunto perché mi esime dal distinguere - come si trattasse di galloni da cucir su maniche a una striscia sola oppure a due - fra dialetto e lingua. E dedicherò la rubrica della prossima settimana a concludere questa interessante passeggiata semiotica descrivendo che conseguenze e che tipo di dibattito provoca nel nostro Nordest una siffatta - e strategica - questione comunicativa.