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Categoria: Secolo postmoderno

 

Anche se questa volta parliamo di un fatto nuovo, ciò finisce praticamente con l'essere - ma vi siamo tirati per i capelli - la continuazione della rubrica della settimana scorsa. Velvet in inglese vuol dire velluto e, come sapete, non è propriamente una stoffa pesante. Ma c'è un «Velvet» che piomba invece sulle edicole con la grevità di un'incudine. E' accaduto per la prima volta giovedì scorso e merita un intervento apposito perché si tratta di qualcosa che sul mercato editoriale nazionale non aveva ancora precedenti di portata siffatta.

E' questo il titolo di un nuovo magazine (solo mensile, per fortuna) che accompagnerà d'ora in avanti «Repubblica». La quale ne aveva già tre di abbinati alle sue uscite, il «Venerdì di Repubblica» e «La Repubblica delle Donne», settimanali, e «XL», mensile. Ma non è questo il punto: già infatti all'alba del '900 il «Corriere della Sera» s'era affiancato «La Domenica del Corriere», «Il Corriere delle Signore» e «Il Corriere dei Piccoli» (e poi era venuto «Il Corriere dello Sport»). Ma lo stimolo editoriale era allora quello esclusivo di coprire degli spazi informativi. Nulla a che fare con le motivazioni odierne, le quali vedono le testate maggiori impegnate in una feroce concorrenza per veicolare la maggior quantità pubblicitaria possibile in quanto procurante un flusso d'entrata sino a poco fa pari ma ora superiore ai proventi da edicola. Ma se questo è un fenomeno - negativo, ovviamente - che diamo ormai per acquisito, abitudinario e scontato, perché tutta quest'impressione suscitata dall'arrivo di tale nuova testata, il cui riferimento, che essa anche supera ora per gli italiani, è evidentemente la «Vogue» in versione americana?

I motivi sono innanzitutto due: uno di dimensione ed uno di sfacciataggine (e poi ce n'è altri riguardanti, come vedremo, i criteri). La dimensione ha due elementi, che ad occhi comuni dovrebbero (?) apparire entrambi insensati, i quali sono lo spazio ed il peso. Spazio: 578 pagine (l'«Io Donna» che viene distribuito col «Corriere della Sera» del sabato ne aveva questa settimana 402, ed era già un record). Peso: 1 chilo e 920 grammi (sulla bilancia di casa mia, che è precisa). Quanto alla sfacciataggine, sta nel rapporto ripartitivo delle pagine: quelle dedicate ai testi giornalistici (servizi, interviste, reportages, commenti) e relative illustrazioni fotografiche di cronaca o d'archivio sono in tutto solo 184. Il che sta a significare in modo aritmetico come siano tutte occupate da pubblicità le restanti 394 (e pubblicità vanno intese anche quel gruppetto di esse in cui non campeggia un marchio ma costituiscono una semplice vetrina di oggetti con scrupolosa annotazione del produttore e del prezzo) e cioè il 68%, insomma un po' più dei due terzi dell'intera foliazione. Naturalmente, poi, nessuno metterebbe la mano sul fuoco a giurare che diversi articoli abbiano, dietro la loro forma redazionale, una sostanza di committenza anch'essi. Ma facciamo finta di no, via, e teniamoci ai numeri detti. Illustrando invece un altro particolare.

Che è quello della grafica impaginativa dei testi. La quale è comunemente, negli altri prodotti del genere, tesa creativamente a distinguersi dalle pagine pubblicitarie per connotati titolistici, sigle cromatiche, risalto dei caratteri. Ed è anche logico che, fra tanta pubblicità che gli si porge, seducente o sparata, si attragga l'attenzione specifica del lettore su cose che sono state fatte scrivere ai giornalisti apposta perché sian lette, no?. In questo «Velvet» vige invece il criterio inverso: le pagine contenenti titoli, mai vistosi, e testi di lettura in caratteri leggeri sono strettamente soffocate e sopraffatte dalle figure, dai volti, dai colori di quelle che si succedono a squadroni esibendo le griffes di Calvin Klein o Givency e di tutto l'Olimpo cuturiero, profumistico, cosmetico, cuoiaio e gioielliero esistente. Normalmente, in queste riviste, le pagine d'un articolo o servizio sono tutte in sequenza prima che altra pubblicità, concluso esso, si affacci. O al massimo la loro sola parte finale cede alla pubblicità un suo terzo o metà di menabò. Qui invece la sequenza scritta di un servizio procede occupando solo le pagine di sinistra, lasciando spazio intero alla pubblicità strillata in tutte le contigue di destra sulle quali, come si sa, primariamente cade l'occhio nello sfoglio. (Unicamente un articolo della direttrice ha il previlegio di estendersi - interminabilente scritto in piccolo - su due pagine affiancate). Lasciando intravvedere così come una precisa strategìa voluta quella di distrarre dalla lettura e lasciar piuttosto catturare l'occhio dalla lussureggiante vetrina delle figure che sulla previlegiata posizione di destra offrono i visualizer. Il messaggio è in definitiva questo: «Vogliamo primariamente che guardiate queste pubblicità, e che paghiate per guardarle, perché sappiamo benissimo che a voi piace fantasticare sugli acquisti».

Vi sembra corretto che questo prodotto cominci con le rituali indicazioni del sommario (tre pagine, peraltro fastidiosamente alternate da altrettante di pubblicità persino esse) solo a pag. 33 e che per raggiungerlo e sapere così quel che c'è dentro, occorra dunque prima attraversare una barriera di ben trentadue pagine di abiti da sera e da mattina e di inviti a profumarsi in questo o quel modo? E di un'altra analoga diecina ancora prima di imbattersi nel primo degli articoli, mentre i successivi altro non saranno poi che isolotti nel mare, e neanche sufficientemente appariscenti, separati l'un dall'altro talvolta da venti ma anche da trenta/quaranta pagine e doppie pagine di pubblicità (le firme di essi poi sono microscopiche: si tratta solo di redattori, infatti, mica di stilisti)? E non vi sembra pazzesco che uno si deva portare a casa oltre ai saccoccioni della spesa o alla borsa con le carte d'ufficio anche i quasi due kg di carta patinata equivalenti alle quasi 600 pagine di questa testata? Per questa volta (primo numero, quindi allettamento promozionale) ce la siamo cavata aggiungendo un euro al costo di «Repubblica» quando l'edicolante ce l'ha faticosamente pòrta reggendola a due mani, trovando opportuno a nostra comodità di trasporto inserirla in un sacchetto e sacramentando perché con una pilona di quelle per terra nel gabbiotto non sapeva più dove mettere i piedi. Ma il secondo numero quanto costerà? Io spero ardentemente lo prendano in pochissimi, ché tanto la pubblicità di borse, creme e ombretti la si trova anche in «Sorrisi e Canzoni» pur se non in queste pantagrueliche dosi, ma so che resterò deluso perché questa grande società editrice una ricerca di mercato l'avrà pur fatta, prima di buttarsi. E ne avrà dunque ricavato in quale misura, per operazioni precedenti già subìte. risulti ebbramente infantilizzata quella parte della massa considerabile acquirente potenziale.

Le conclusioni da tirare sono in sostanza le stesse già espresse nella rubrica precedente. I nostri media non influiscono più sul sistema ma è questo che modifica loro e se ne fa tramite alienante verso la massa. I media oggi sono più che altro dei moltiplicatori di effetti. E valga un esempio freschissimo: se al prof Prodi vien da dire a chi lo sta ascoltando «Questo Paese è impazzito» (ed è per la verità cosa che pensano in tanti e che penso con naturalezza anch'io), è una battuta come un'altra, anche se molto seria, alla quale chi vuole consente e chi vuole invece non si associa. Ma quando il tono desolato della sua voce che pronuncia questa frase viene l'indomani mattina rimpiazzato da titoloni a tutta prima pagina che fra virgolette ciascun giornale riproduce come uno stormo di aerei sorvolante un territorio lasciando cadere ciascuno una bomba, ecco che ne risulta automaticamente cambiato non solo il tono ma anche il senso e lo scopo e questa megafonìa rimbombante suscita un tale scandalizzato casino di reazioni sinceramente o strumentalmente offese da aprire crepe assai pericolose dovunque, maggioranza e opposizione. Una cosa è accendersi un sigaro per calmare il nervoso e una cosa è invece incendiare una prateria. Mazzini e Garibaldi mica andavano d'accordo su tutto e se ne saran dette certamente tante e anche pesanti, ma se fossero esistite allora le tecnologìe adatte per tradurre istantaneamente in documento circolare le parole, nonché la potente e capillarmente diffusiva struttura attuale dei media, bèh, sarebbe stato fortemente incerto arrivare lo stesso all'unità d'Italia.

Pensateci. Magari mentre sfogliate «Velvet» e fate così anche un pensierino su Ezio Mauro, quell'eccellente giornalista che dirige oggi «Repubblica» ed è quindi costretto per "ragion di Stato" editorial/societaria a firmare da direttore (non responsabile) anche questo appena descritto sottoprodotto della sua testata - ma sarà stato almeno risarcito con una congrua aggiunta allo stipendio - e che solo un rimedietto lava-coscienza è riuscito a trovare. Cioè una rubrica tipo corsivo a chiusura di questi due chili di giornale, pagina appunto - se ci arrivate - n° 578, che si chiama «Pesce fuor d'acqua», e che si annuncia darà ad ogni numero parola, per esprimere giudizio, ad un "profano" del settore moda. In questo numero è toccato a Michele Serra (ricordate «Il Male», «Cuore», «Tango», e le fantasiose sciabolate al curaro di quelle così felicemente sovversive testate?) il quale, evidentemente molto soffrendo ma anche con molta metaforicamente diplomatica eleganza, lamenta come oggi si pensi il concetto e l'impegno di "stile" possa riferirrsi solo alla moda, dimenticandosi di applicarlo anche agli ospedali o alle case popolari. Pure lui avrà posto mente al fatto che è appena uscito un film di successo intitolato «Il diavolo veste Prada». Perché è proprio così.