C'era una volta il "quarto potere", com'era comunemente intesa la stampa. poi venne anche un film che si chiamava "Quinto potere" e si riferiva alla TV. Ricordate? William Holden e Faye Dunaway. E possiedono infatti sì, entrambi questi vettori mediatici, un enorme potere proprio, ma - almeno in Italia - non lo esercitano in autonomia, bensì "per conto di...". Vediamolo, per conto di chi. E se se ne può essere soddisfatti.

L'editoria è un'industria. Un'industria che possiamo classificare come culturale, anche se non lo è per intero data la quantità di roba che viene stampata a soli fini commerciali. Ed è un'industria anche la sua branca che si occupa di informazione. Il suo cuore produttivo non sta in redazione bensì nello stabilimento. Uno stabilimento una volta chiamato tipografico e adesso ancora, ma solo inerzialmente perché anche le sue macchine sono diventate elettroniche e dunque immateriali i caratteri - non fatti più di piombo ma di impulsi - che prendono alla fine rilievo fisico solo sulle lastre curve fatte di polimeri. Le rotative continuano a essere dei mostri immani che ci vogliono anni per progettare e costruire e costano una quantità di miliardi. Da questo punto di vista somigliano più alle navi che agli autotreni. E però dopo completate in fabbrica vanno smontate sino all'ultimo bullone per essere rimontate pezzetto pezzetto nella sede dove, dopo collaudo equivalente a un varo, diverranno operative.

Se il cuore è lì, in redazione sta invece il cervello intelligente. Ma non ancora il ponte di comando. Che risiede invece ai piani alti dove opera il governo della società editrice: presidente, amministratore delegato, consiglio d'amministrazione, direttore editoriale, direttore amministrativo. Non esistono quasi più - se non qualche sparuta mosca bianca - aziende editrici caratterizzate da proprietà e conduzione famigliari, editori come esclusivi imprenditori di settore, figure piene di editori-direttori. Ci sono invece dei manager attenti ai retroterra politico/finanziari dell'impresa e alla differenziazione di investimenti delle componenti proprietarie, e nei consigli d'amministrazione siede in più casi anche una rappresentanza diretta o mediata delle concessionarie di pubblicità. Le scelte strategiche vengono da lì e qualche non infrequente volta servono interessi in cui l'informazione davvero proprio prioritaria non è.

Ci sono giornali, grandi e piccoli, che sono indipendenti da chi in quel momento governa, e possono essergli di volta in volta ostili o amici. Ma non sono tuttavia indipendenti dalla compagine economica che editorialmente li esprime. Vale anche per i big («Corriere della Sera», «la Repubblica», «La Stampa»), dietro ai quali sta una proprietà che corrisponde a grossi gruppi industrtiali e finanziari. «La Stampa» deve usare i guanti con la FIAT e «la Repubblica» informa ben poco sulla CIR del gruppo De Benedetti, che pure sull'economia nazionale pesa assai, mentre il «Corriere della Sera» è sempre esposto ad assedii, o assalti, azionari di varia provenienza e di golose aspirazioni.

Ci sono poi le testate che sono organiche a una o ad un'altra compagine politica. E infine c'è la televisione, dominante anche sulla radio. In Italia c'è un sostanziale duopolio, in questo campo, in cui le componenti sono entrambe detentrici di tre reti, quelle di maggiore audience, talvolta concorrenti e talvolta no, di fatto spartitorie. La RAI, essendo titolare del cosiddetto "servizio pubblico", dovrebbe essere statale e basta, ma in realtà dipende dal governo che c'è; dal canto suo Mediaset - creatura e proprietà di un tycoon - si regola sul mercato ma le tocca tener conto di quando questo tycoon è presidente del Consiglio e di quando è invece capo dell'opposizione.

L'indipendenza del giornalista nelle cose che scrive - le quali non consistono solo in informazione perché la legge dell'Ordine professionale gli attribuisce esplicitamente, fornendogliene garante ombrello, anche «libertà di critica» - può essere coperta dai giornali che consentono di lasciar suonare più di una campana. Ma una decisione così può sempre subire una svolta, può sempre essere revocata. E allora questa indipendenza, questa autonomia di giudizio, del giornalista possono finir col consistere solo nella libertà, se si sente "stretto", di cambiar giornale. O di fondarne uno nuovo, come fece a suo tempo Montanelli per levarsi il bavaglio, tenendolo poi aperto finché gli fu possibile. Quanto all'indipendenza dei videogiornalisti, sappiamo com'è finita con Biagi e con Santoro, che credevano di poter continuare ad esercitare libero ruolo quale la loro professione ha per presupposto in una struttura invece piena di tabù, non sessuali, naturalmente, ma politici, ed esposta dunque ai colpi di striglia del Palazzo.

Lasciamo stare Berlusconi, il quale gestisce il proprio impero mediatico stampato e audiovisivo tramite fratello, moglie, figli, che ne sono vicari perfetti, cioè per sangue e per comune interesse patrimoniale, ed altri prestanome, ma in RAI vige da lunghissimo tempo un criterio dal nome infame eppure stato fin qui indistruttibile: "lottizzazione". Entrarci per concorso è solo un lontanissimo ricordo. In quelle redazioni si entra solamente pro quota. Chi è in quota a un partito e chi a un altro - i numeri hanno riferimento al rispettivo peso di ciascuno nel momento - ed i partiti hanno anche le loro correnti interne e le personalità maggiori, che all'interno della stessa quota ritagliano fettine. Così al posto dell'indipendenza vige l'appartenenza.

Cominciò che le tre reti RAI furono assegnate una alla DC, una al PCI e una al PSI (i tre partiti allora più forti e senza la cui indicazione o consenso non si nominavano direttori di testata o redattori-capo regionali) e questo aveva la parvenza sì di una tollerante equanimità all'insegna di una democrazia spartitoria (una voce, una presenza, assegnata a ciascuno). Ma ne risultò tutto triplicato, in mezzi, personale e costi, con grande ingessamento di tutta la baracca. Perché se hai tre reti e le suddividi tematicamente (che so: news, cultura, intrattenimento) è un conto, ma se devono, alla luce detta, essere tutte e tre "generaliste" ed occuparsi cioè ognuna di tutto, dai TG ai talk-show allo sport, alla produzione e all'acquisto di programmi tutti simili fra loro, al divertimento dei bambini e alla cultura da fornire agli adulti, e dotarsi di un sufficiente magazzino di film ciascuna, allora il conto è un altro e tutto può arrivare al paradossale. I tre TG sono scaglionati di mezz'ora e se li vedi tutti e tre di fila ci trovi la stessa roba, e magari con le stesse immagini e le stesse parole, ma con tre sfumature d'ottica politica diverse, ciascuna delle quali qualcosa aggiunge, qualcosa svaria e qualcosa omette. Ma non è un assurdo dei più ridicolmente irritanti?

A un certo punto si arrivò comunque a una semplificazione (per modo di dire): due delle tre reti alla maggioranza governativa dello stesso segno e una all'opposizione. Sì un giornalista può essere anche un militante politico. Lo dimostra «Il Manifesto», ci sono gli organi di partito, e poi il giornalista di per sé non è un intellettuale imbalsamato. Ma che i giornalisti debbano indossare una "maglietta" più o meno simbolica per trovare collocazione e scatti, sempre quotati anch'esssi, di carriera, questo appare bestemmia proprio alla luce della legge professionale, che impone soltanto qualità, e fedeltà a princìpi comuni di categoria e civili.

C'è un elemento poi che vizia profondamente tutta questa situazione e che costituisce caratteristica infelice dell'informazione pubblica nel nostro Paese, ed è la seguente. Al fianco del sindacato nazionale dei giornalisti come organizzazione, ma anche dentro ad esso come iscrizione dei singoli, esiste un sindacato dei giornalisti RAI. No, badate, un sindacato di tutti i giornalisti radiotelevisivi che raggruppi accanto a quelli della carta stampata gli appartenenti a questa specialità della categoria, che hanno problematiche diverse e distinte, come ovvio. Il che sarebbe dunque funzionale. Ma un sindacato composto dai soli giornalisti RAI.

Cosa ne consegue in un paese dalle mille escogitazioni bizzarre e strumentali come il nostro è diventato? Che nel rapporto sindacato-editore siedono di fronte ai due lati del tavolo due controparti (consiglio d'amministrazione più responsabili di testata e coordinamento dei comitati di redazione) selezionate politicamente con gli identici criteri lottizzati e nella stessa proporzione, sicché ognuna delle due è come si guardasse allo specchio e ne possono conseguire sia clamorose chiusure d'occhi che pateracchi da Guiness. Cosa infatti più volte registrata.

La subalternità della professione giornalistica e proprio nel comparto più impattante è dunque oggi, da noi, addirittura qualcosa di codificato, qualcosa di concettualmente digerito anche come dato culturale, qualcosa che grida vendetta al cielo se inciampiamo nel farci trascinare da questa così retorica immagine. Certo, restano degli spazi più liberi, e sono nella carta stampata. Dove anche ci sono delle parti diversamente schierate, ma in modo fluido e non così rigidamente, smaccatamente, blindato. E si è scettici sul che, col cambiare governi, possa solo in conseguenza a ciò cambiare anche questo. Più facile prevedere in tali occasioni soltanto un'inversione tipo quella che fa cambiare lato del campo alle squadre nel secondo tempo d'ogni partita di calcio. Mentre quel che occorrerebbe sarebbe proprio un "rompete le righe" il quale rimettesse ciascun singolo entro i dettati della legge sull'Ordine professionale cui è iscritto. Per legittimo che fosse il poterselo aspettare da un governo con le caratteristiche di quello appena insediatosi, non resterà invece che combattere pure all'ombra del presente per restituire a questo mestiere il ruolo che gli compete, cioè di controllante contropotere. Perché credere ai miracoli sarebbe, diciamolo ahimè, anche in tale materia un po' cosa da babbei.