Da una parte c'è Domenico Modugno: «Nel blu, dipinto di blu, felice di stare lassù». Dall'altra c'è Paul Watzlawick: «Che il cielo sia veramente blu è improbabile, poiché il concetto di blu è la denominazione umana (e perciò comunicata) di un determinato stimolo della corteccia visiva del cervello, mentre là fuori sono solo vibrazioni elettromagnetiche (e anche «vibrazioni elettromagnetiche» è solo la denominazione che abbiamo dato a un fenomeno)». Patatràc. La poesia e la scienza, sempre unite in tutte le più antiche cosmogonìe d'ogni religione, in realtà sono da tempo più che divorziate e noi semplicemente fingiamo di non accorgercene. E magari - diciamolo - mica ci dispiace. Restando così volta a volta brevemente consolati o esposti a docce fredde per le quali non abbiamo ombrello. Tutto quel che ci viene dal mondo naturale non ci giunge infatti trasferito direttamente ma attraverso processi neurologici molto complessi; però al recepire noi poi aggiungiamo l'elaborare e strumenti, dunque da quel momento individuali, di questa rielaborazione non sono più solo percezione, ma anche pensiero e sentimenti, stabilirsi di correlazioni mentali fra quanto ci viene, di analogo o di diverso, comunicato. Fra quanto sappiamo già e quanto di nuovo apprendiamo. E quindi non ci costruiamo solo immagini scientifiche, che, ehm, spesso anzi saltiamo volentieri, bensì anche ideologiche, sociali e, appunto, poetiche.

Ma poesia, che viene dal verbo greco poièo (= faccio, creo), se usata in questa originale ed estensiva sua accezione pura copre - non consideriamolo strano, eh - anche lo speculativo ed il sociale: in quanto si tratta non più di acquisizioni a noi trasmesse bensì di costruzioni nostre che, con materiali e mezzi intellettuali e non più fisici, ruminiamo adesso solo dall'interno. Formandoci interconnessioni programmatiche, progettualità, caratteri, culture. Da trasformare poi in azioni, che non sono solo materiali, essendo azione pure la parola.

Quella mia citazione iniziale di Waztlawick - chi ha seguito il mio corso sa chi è - appartiene a un intervento da lui fatto a un convegno internazionale sulla comunicazione umana svoltosi ad Abano Terme nel 1983 (ne avevo conservato il ritaglio) e proprio non lo considererei roba vecchia solo per questa datazione. Concludeva infatti così, quel suo intervento: «Per lo studio dei processi di comunicazione nei grandi sistemi sociali è dunque di particolare interesse il fatto che tali processi possiedono letterarmente un'individualità propria e si sviluppano e si complicano chiaramente secondo leggi che però forse non hanno più nulla in comune con i propositi, i fini e i valori degli individui che tengono insieme». E ditemi se per caso tutto questo non sia più che attuale, anzi proprio - sia mondialmente sia nel nostro piccolo italiano - attualissimo e meritevole di forte considerazione.

Noi troppo spesso li perdiamo di vista, i precedenti delle cose, adagiandoci a considerarle solo al presente e neanche preoccupandoci di tracciare ascissi ed ordinate di ciò che potranno produrre nel futuro. E invece si tratta di qualcosa che bisogna tenere sempre fresco in testa. I mezzi del comunicare sono ogni anno che passa più leggeri, più piccoli, più multiuso, meno costosi, e presto potremo anche introdurceli sottopelle come fossero dei pace-maker. Cominceranno i militari, naturalmente, come per usi militari concepì il primo computer, ancora elettromeccanico, Alan Turing nell'Inghilterra degli anni '30. Oggi questa parola evoca variegatamente ben altro e solo i francesi, continuando a chiamarlo calculateur, rimandano alla sua accezione originale di macchina per calcoli. E non altro che un calcolatore era ancora, ma già elettronico, il primo, l'ENIAC della Pennsylvania University costruito nel 1946 (180 metri quadri di base e 18mila valvole). E non è vertiginoso considerare come lo fosse anche quella scatola di ottone dotata di otto levette a ingranaggio, strumento davvero protoinformatico da porre in cima a questo albero genealogico, costruita da Blaise Pascal nel 1645 che toccò a un altro filosofo (Leibniz, incredibile!) di perfezionare? Altro che calcolatore, il cellularino che oggi ci permette di telefonare, messaggiare per iscritto, fotografare e filmare, ricevere TV, Internet e cinema, e domani chissà cosa ancora. Ma è come per l'energìa nucleare: ha la faccia buona e quella cattiva, può essere angelo oppure assassino. Sta a noi di farne uso con juicio.

Perché il computer, passato intanto dall'informatica alla telematica, è insieme agevolante e incentivante ma anche distogliente. Come del resto la TV, che con tale strumento è destinata a fare a breve corpo unico. Questo non era forse ancora chiarissimo agli studiosi partecipanti a quel convegno di 23 anni fa, ma il meccanismo resta - anche se ora dotato di moltiplicatori potenzialmente micidiali capaci di sostituire l'istruzione scolastica con la suggestionata presunzione alimentata dalla fitta rete audiovisiva che rimbalzando dai satelliti avviluppa e comprime il mondo sotto l'apparenza di espanderlo - quello allora descritto da quell'acutissimo docente del Mental Research Institute di Palo Alto, California, di nome appunto Watzlawick.

Oggi il computer l'abbiamo accettato tutti. Come strumento di lavoro e anche di informazione, dialogo e svago. Crescendo la sua memoria dalla manciata di Kb iniziali ai Mega, ai Giga e ora anche al millimultiplo di quest'unità, che non mi ricordo come si chiama. Non vi saprei rinunciare neanch'io. Ma se ancora mi ustiono ogni tanto con la Moka quando mi faccio il caffè, figuriamoci quanto occorre stare attenti con questa bestiolina robotica qui. Non è più, beninteso, il mostro che fa irruzione nel mondo della produzione come impulsivamente prefigurato negli scontri sindacali degli anni '80, ma occorre per certi versi sapersene proteggere lo stesso. Io ricordo benissimo le battaglie durissime con cui tipografi e giornalisti si opposero all'introduzione delle «macchinette» (così le definivano, spregiativamente) nelle redazioni e negli stabilimenti di stampa, per non diventarne nevrotici succubi gli uni ed esserne colpiti nell'occupazione gli altri. Come ricordo il leader a quel tempo dell'organizzazione unitaria dei giornalisti italiani Luciano Ceschia, poi direttore di un paio di quotidiani, che dichiarava voler restare aggrappato alla sua Remington nera a castello nello spavento di non essere più se no capace di scrivere un articolo; e il leader dei tipografi italiani Giorgio Colzi che prometteva a oltranza «lotta dura senza paura». Il suo vice era Guglielmo Epifani, oggi segretario generale della CGIL, allora sfegatato come lui sulle barricate, ma che credo abbia da un po' di tempo cambiato saggiamente idea. Io pure ero un dirigente nazionale dei giornalisti, allora, vicesegretario della FNSI, e mi ero invece litigato con tutti questi facendomi insultare e rischiando pure di subire vie di fatto. Perché io pensavo invece, anche se abbastanza solitariamente in quest'àmbito, che queste proposte di nuova tecnologìa avanzate dagli editori andassero accettate a condizione fossimo noi a controllarla e gestirla a nostra tutela e con familiarizzazione graduale che ce ne lasciasse padroni anche nella metodologìa delle procedure. E ce l'avrebbero pure concesso, pur che passassero. (Ma ero per questo considerato una specie di amico del giaguaro, guarda un po').

Non fu così, io fui emarginato: la guerra restò pertanto frontale e fu persa, ed esse si trasformarono in imposizione coatta a nostro danno, ingabbiando le persone e ingessando i giornali. Adesso il sindacato dei poligrafici non esiste più, sostituito da diplomati in forme lavorative nuove e una gran parte dei giornalisti (quelli che non sono sempre in giro sul campo) s'è trasformata in un impiegatizio e subalterno ceto di operatori di desk. S'è commesso un peccato originale, suvvìa, occorreva essere meno tradizionalisti e più lungimiranti. All'inizio fu sì un po' una Babele; arrivò p. es. una volta da noi in amministrazione una dirigente nuova la quale pretese di sostituire il linguaggio Basic col Cobol, meno comune, che però lei conosceva meglio. E non vi dico la tragedia ed i pasticci di contabilità, eppure oggi persino i pc Window e i Mac della Apple dialogano tranquillamente fra loro. E poi vennero freneticamente in proscenio i problemi dell'ergonomìa: postura della schiena, come tenere le braccia, rapporto fra altezza di seduta e livello del piano di tastiera (le macchine da scrivere stavano apposta su tavolini più bassi mentre i computer, che allora con la tastiera facevan blocco, ce li sbatterono sulle scrivanie). E così sintomi di scoliosi e infiammazioni ai tendini dei polsi. Ci pensiamo ancora a tutto questo? L'uomo è darwinianamente adattabile e psicologicamente duttile: abbiamo solo rinforzato gli occhiali.

Il problema è però più vasto e si dilaterà. Conosco e frequento un sacco di persone che si incontrano per un aperitivo, vanno a cena con gli amici, al cinema, a teatro, ai concerti, alla presentazione di un libro, visitano le gallerie d'arte. O magari, chiaccherando, giocano a carte. Così socializzano, si aggiornano, discutono. Ma ne conosco pure tanti che appena possono o fino a notte tardi stanno seduti in casa da soli davanti al computer in una stanza chiusa come fosse una cabina, immergendosi anch'essi in rapporti sociali magari vasti che sono però del tutto virtuali. Scambiano e-mail, chattano, bloggano, con interlocutori per lo più senza nome, sostituito da nick, con i quali hanno in comune una sorta di misantropìa fisica per cui al parlare s'è sostituito il digitare. E la gamma va dall'introversione comparata a conforti di allegrìa. Anche questa è interazione selettiva, intendiamoci, ma i rischi di omologazione, di futilità, di perdita culturale, di atrofizzazione dei sensi, sono maggiori. La tendenza numericamente prevalente (poiché ci sono anche dei blog di tutto rispetto e di grande utilità) non è infatti tanto quella - constato continuamente - di scambiare dibattito quanto quella di cercare consonanze e consensi, di pigiar tasti invece di emettere suoni, di non farsi vedere in viso; e il pericolo è chiaramente quello che si alzino ponti levatoi di fronte alla realtà. Sembra un processo di moltiplicazione di contatti ed è, al contrario, un processo di straniazione. E invece occorre stare nel mezzo, dato che in medium stat virtus, come sempre. Io trovo interessante passeggiare spesso nei blog, e anche scriverci, ma li uso da osservatore e per ritrarne spunti di conoscenza, qualche volta per contestare o dar stimolo; per il resto, contatti, frequentazioni, interazioni, dialogo sono per me molto più fruttuosi, a meno che non ci sia una distanza territoriale obbligante, quando sono diretti e fisici e impegnino in entrata e uscita tutti e cinque i nostri sensi invece di filtrarne dal video uno solo; al massimo, e più di rado, due se si scambia anche musica.

Cos'è, in definitiva, interazione umana? Quando sento che qualcuno si dichiara disposto a dare la vita per ciò in cui crede non posso fare a meno di pensare (dato che non c'è cosa in cui io creda - è un verbo delicatissimo, badate: o il so o il non so dovrebbero in effetti valere, e quel verbo serve a superare misticamente un dilemma logico irrisolto - ma ci sono cose di cui sono al massimo, perché raggiunte ragionando, sufficientemente e fino a contraria prova convinto) che chi è disposto a dar la vita propria è disposto anche ad uccidere altri, in quanto è proprio il concetto di soppressione della persona che anzitutto e a certe condizioni accetta. I modi di uccidere sono tanti. Non solo l'ambiente naturale ma anche la società degli uomini ha una sua ecologìa cui non bisogna attentare. Ed oggi sono abbastanza malati, per un mix di nostre disattenzioni e di nostre decisionalità, sia l'uno che l'altra. E sono davvero, in vari luoghi del pianeta, proprio in punto di morte. C'entrano anche le tecnologìe, c'entra anche l'abbassamento d'esercizio intellettual-culturale di cui esse sono, per nostra miopìa, concausa.