Uso (ma non per pigrizia...) per la mia rubrica di questa settimana quello che è stato l'intervento da me svolto su invito dell'Ordine Professionale dei Giornalisti per introdurre il dibattito nel convegno tenutosi a Siracusa in dicembre in occasione dell'assegnazione del Premio Mario Francese. Penso infatti sia buona materia anche per questa sede.




L'occasione fornita quest'anno dall'assegnazione del Premio Francese è preziosa perché il tema di questo nostro incontro, l'inchiesta, vede presenti dei colleghi che di inchieste ne hanno condotte in modo brillante e prestigioso.

Ma viviamo ancora tempi in cui l'inchiesta giornalistica è non dico possibile, ma ancora possibile in un certo modo, e capace di conseguire i risultati ai quali un'inchiesta scopritrice e portatrice di verità dovrebbe poter condurre? Parlo di inchieste alza-sipario in campo politico e giudiziario, di inchieste sul mondo degli affari, delle grandi inchieste sul costume, parlo di inchieste sugli intrecci che non solo in campo criminale vero e proprio ma comunque torbido e a sé vantaggioso, quello politico compreso, sa gestire la mafia.

Le eccezioni, comunque sempre più rare, si possono ancora verificare. Ma non è, per molti versi, più aria, anche se confidiamo, o anche solo speriamo, che possa tornare. Il più dell'ambiente editoriale, oggi, a differenza di un tempo quando in questa direzione venivamo anzi sospinti, tende invece a trattenerci. Allora infatti venivamo casomai personalmente querelati in sede penale per diffamazione a mezzo stampa o diffusione di notizie false e tendenziose "atte a turbare l'ordine pubblico", beneficiando comunque quasi sempre della condizionale, oggi gli eventuali denuncianti preferiscono ricorrere alla sede civile chiedendo danni alla propria immagine e risarcimenti vari d'ordine miliardario, magari con congrue provvisionali che coinvolgono l'editore stesso.

E così i giornali, invece di fare inchieste in proprio, riferiscono di quelle che compiono magistratura, commissioni parlamentari o Guardia di Finanza, ché tanto, oddìo, talvolta lo scoop ci esce egualmente. Difficile dunque adesso trovare in edicola - eppure qualche esempio lo avremo qui oggi stesso da parte dei loro autori - inchieste di gran scalpore come "Capitale corrotta, nazione infetta" di "L'Espresso" o "La cicogna incatenata" di "Paese Sera" che precedette la legge sull'aborto. O le grandi inchieste de "L'Ora" sulla mafia che le costarono attentati e anche morte (non solo de Mauro). Ma di queste non vi parlerò io perché lo sentirete qui fra poco da Roberto Ciuni, autore fra l'altro lui stesso, sempre su quel giornale, delle puntate del "Sacco di Palermo" di per allora inedito ed eclatante contenuto.

Ed erano tempi in cui non era facile esercitare su questi temi il nostro mestiere. Quand'ero direttore de "L'Ora" entra una mattina nella mia stanza Gianni Lo Monaco, impagabile e compianto cronista di giudiziaria, per dirmi "C'è il giudice Gebbia che ti vuole parlare". Gebbia era magistrato di sorveglianza, ufficio nel quale arrivano spesso "soffiate" dal carcere, il quale mi spiega, poiché vado subito a trovarlo, che non posso continuare a "camminare così" e mi annuncia pertanto l'assegnazione di una scorta di polizia (erano gli anni '70 e non era tanto usuale come poi ciò divenne, anche se non per giornalisti). Io avevo scritto in quel periodo un paio di "fondi" sull'assassinio del colonnello dei carabinieri Russo e invitavo la Procura ad almeno "sentire" in merito i famigerati cugini Salvo, detentori di lucrosissimi appalti esattoriali e allora ancora giudiziariamente imperseguiti (poi però uno morì ai "domiciliari" in clinica e l'altro fu ammazzato prima che dicesse certe cose). Era uno strano periodo, in cui da un lato mi si condannava per diffamazione (ho subito in tutto ottantasei processi a questo titolo ma la mia fedina penale è tuttora pulita) e dall'altro mi si proteggeva…

Sentiremo oggi testimonianze interessanti da parte di colleghi autori d'inchiesta, e probabilmente insieme ad esse anche qualche espressione di sopraggiunta insoddisfazione professionale. E tuttociò, mi auguro, sarà sommamente utile. Nel ricordo dunque di Mario Francese, valoroso indagatore a mezzo stampa ucciso per una sua delicata e rischiosa inchiesta in corso di pubblicazione sul "Giornale di Sicilia", dò da questo momento il via al dibattito.