Si può fare a meno di parlare di «par condicio» in una rubrica come questa in un momento come questo? Mi pare proprio di no. E dunque parliamone. Il significato del termine mi pare proprio non abbisogni di spiegazione alcuna. Comunichiamo in due con la stessa platea? E allora tanto io e tanto tu: la par condicio è una regola per non sopraffarci l'un l'altro. Se vendiamo tutti e due automobili, ne esponiamo a parità di tempo e di spazio (30 secondi di spot tv e/o una pagina di giornale) qualità e condizioni di vendita e poi il cliente decide. Ma se io, metti, ho più soldi di te perché sono una casa produttrice di auto più grossa della tua, sono comunque in grado di piazzare numericamente più spot di 30 secondi e più pagine singole di te, non me lo può impedire nessuno e questa par condicio dunque me la saluti. Ma è proprio da considerare stessa cosa se io e te invece vendiamo, in sede non commerciale ma politica, consuntivi di governo, programmi nuovi e le nostre idee? Ma proprio no. Se io parlo in TV due minuti e tu venti è chiaro che hai più probabilità di persuadere e dunque vincere tu anche se io dicessi cose sopraffine e tu per gran parte stupidate. Siamo in tal caso in termini quantitativi squilibratissimi (uno di semplice proposizione di opinioni e uno di vasto bombardamento con le opposte), e dunque di disuguale attribuzione di potenza persuasiva. E il punto allora diventa questo.



Portiamolo al limite partendo dall'inverso. La comunicazione politica di un dittatore, si chiami Mussolini, Franco, Hitler, Stalin, Pinochet o Saddam si basa appunto proprio sulla imparità della condizione persuasiva (o impositiva). Io dispongo di tutti i media, istituzionali e privati, e tu, ma a tuo forte rischio personale, solo di quelli clandestini quando e come puoi. Oggi c'è una legge in Italia che la par condicio mediatica in politica la stabilisce in relazione a una ripartizione di tempi dedicati riferita solo ai media audiovisivi e solo nei periodi di campagna elettorale. Ogni emittente deve garantire sia parità, come dire, di "minutaggio" a ciascuno dei partiti o schieramenti in lizza, siano rappresentanti di maggioranza che di minoranza uscenti, sia dunque di governo (uscente) che di opposizione (aspirante). Bèh, si potrebbe dire: almeno questo! o no? Perché una regola anche se nell'ordinario non così rigida dovrebbe valere ognitempo, per la verità, e non solo sotto elezioni, e se non altro per gli audiovisivi di servizio pubblico (RAI). E l'Authority per la Comunicazione ha formulato da parte sua sì un indirizzo normativo equilibratore, però non possiede i mezzi sanzionatori per farlo rispettare.

La campagna elettorale per le nostre elezioni di aprile dunque sarà regolamentata, anche se con qualche nèo. Quello p. es. che riserva l'ultimo giorno al capo del governo uscente, e fin qui magari ok, ma non, come sarebbe corretto, con una conferenza-stampa a giornalisti indipendenti e corrispondenti esteri, bensì (e così, ehm, proprio non va) assegnata a tutto campo a lui monologante. Per l'intero suo arco precedente invece i tempi saranno contingentati e sono previsti anche due vis-à-vis a due fra l'uscente e il candidato avversario che lo sfida per la successione. Secondo il premier in carica - di cui è nota la paradossalità dei sillogismi - questa regola, stabilita a suo tempo per legge, è non solo «illiberale» ma anche «liberticida». Fortunatamente s'è lasciato scappare i tempi utili per farla riformare in tempo dalla propria maggioranza parlamentare. Ma scopo fondamentale dell'occuparcene in questa sede oggi è illustrare come questa legge lui l'avrebbe invece voluta e come quindi continui a considerarla da riformare. In maniera da evidenziarne sia il torto che le intenzioni.

Il che consente di sbrigare il tutto in poche parole. Ciò che l'attuale premier dichiara è non essere giusto che partiti più grandi e partiti più piccoli abbiano a disposizione lo stesso spazio. Chi è più grosso, dice, conta di più e chi è più piccolo di meno. E così, per la verità, finisce con l'essere sempre, nei fatti, in tutti i campi. Ma questa è una campagna elettorale. Il momento cioè in cui il popolo decide se un governo al capolinea può proseguire od essere cambiato. E se in campagna elettorale tutti i quanti i contendenti non hanno a disposizione appunto lo stesso spazio - a prescindere dall'essere maggioranza od opposizione, o di esserlo fino a quel momento stati - per rappresentare e far valere i rispettivi argomenti, il rischio è grosso. Ed è precisamente quello che, mantenendo più megafono la maggioranza, e restando concesso ad essa più contatto mediatico con l'opinione pubblica persino in questo delicato momento di confronto, e restando stretta in più angusto spazio la minoranza mentre i cittadini stanno per segnar crocette sulla scheda e aspettano di verificare l'atteggiamento da prendere, NULLA POSSA CAMBIARE. Che cioè, profittando di quel vantaggio, sia la maggioranza a continuare a rimaner maggioranza e la minoranza a trovar più difficile il poter capovolgere le parti. Ma così, ostacolando possibili alternanze, è alla democrazia stessa che si reca danno, ed è ai regimi che si spiana strada.

Se c'è dunque qualcosa di illiberale e liberticida, è casomai proprio creare pole position a qualcuno e ridur voce a qualcun altro ai nastri di partenza. Quanto spago merita ciascuno schieramento non può insomma essere deciso sulla base del peso ottenuto nelle elezioni precedenti. Queste sono le elezioni nuove e lo spago son gli elettori cui tocca di rimisurarlo adesso, lasciando per tutto il tempo i candidati in assoluta parità d'espressione delle proprie idee e delle proprie proposte. Insomma, queste sono le occasioni in cui la possibilità di comunicazione di massa va intesa inderogabilmente eguale per tutti. E non maggiore pure adesso per chi maggiore l'ha già avuta, e abusandone, finora. Se no le cose, andiamo, potrebbero anche non cambiare mai. Ma ora, per fortuna, questa legge c'è e occorre farla osservare. Scatterà l'11 febbraio e sino a quel momento è tutto - è proprio il caso di dirlo, dando un'occhiata allo schermo televisivo - avanspettacolo.