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Categoria: Secolo postmoderno

 

Problemi di ordinaria manifattura, oggi. La titolazione è, in un quotidiano, forse il compito più delicato e difficile. Più meritevole del massimo di attenzione, e di concentrato sforzo professionale, nel momento attuativo del prodotto. Quando cioè ogni singolo "pezzo" dev'essere collocato e il suo contenuto presentato. Non è lo stesso titolare «A Gaza cinque morti» o «M. O, strage infinita» un determinato articolo. Ovvero «Senato: sì alla riforma istituzionale» o «Da oggi Costituzione azzoppata». Perché?

La fattura di un titolo comporta sempre il convergere di due percorsi mentali, squisitamente professionali entrambi. Il primo deve raggiungere la maggiore efficacia concettuale/semantica del messaggio - notizia ovvero giudizio che la riguarda - da cui si vuole il lettore sia raggiunto. Il secondo invece è quello che deve valutare spazio disponibile e numero di caratteri del corpo, prescritto o prescelto, che esso può contenere. Talvolta, per automatismo d'intuito ed esperienza tecnica, il titolo può scaturire subito; ma ce n'è anche di quelli che comportano una mezz'oretta di rielaborazione e prove. Se non un consulto a più teste.

Esso deve cronisticamente comunicare un fatto o è il caso che ne comporti anche il soppesamento o una sua interpretazione? La scelta non ha regola fissa ma va considerata, naturalmente, volta per volta. E le sue componenti sono diverse: attualità, gravità, opportunità, predominanza o meno su altro argomento o evento magari contiguo, target di lettori, indirizzo di testata, considerazione dell'inclinazione in materia di altri giornali.

Questo per ciò che l'articolo contiene. Ma ci sono anche poi degli elementi di natura strettamente tecnica. Ciascun giornale (anche se ormai abbastanza omologati dall'elettronica) ha un suo proprio stile grafico. Che comporta non solo andamento impaginativo ma anche stabilizzata preferenza per una o un'altra font di caratteri. Un tempo, nei giornali, quando il titolo pensato sbordava dallo spazio assegnato, glielo si faceva entrare cambiando carattere e sostituendolo con uno più stretto. O lo si portava da una a due righe, ovvero da due a tre. Le tecnologìe elettroniche però pretendono semplificazione e velocità, e dunque predisposizione precisa di formule titolistiche, previlegiando quelle su una riga sola, obbliganti cioè alla maggior sintesi possibile. Parole quadri o pentasillabiche, anche se comuni o difficilmente sostituibili, son diventate impossibili ad essere impiegate (che so, "circonvallazione", o "amministratore), facendone conseguire caccia al sinonimo più corto anche se imperfetto, all'ottimale bisillabo, alle sigle ed alle abbreviazioni (perché "professore" è diventato "prof" senza punto, cioè non più abbrevazione ma a sua volta parola?).

Il punto centrale, per il primo e per il secondo esempio, è se si vuol solo registrare l'evento oppure allargare il concetto. Ed esprimere un giudizio. Resta però sempre anche una terza via, quella cioè di un titolo giocato su metafora, iperbole o doppio senso comunque significativi o scioccanti, e suscitanti effetto emotivo o di curiosità pur nel risultare chiarisimi comunque. Come fa "Il Manifesto" sempre ("Programma d'evasione" è uscito l'altro giorno scavato in una foto di Berlusconi che porge una carta, e si riferisce a una legge che favorisce fiscalmente una sua azienda) o come li faceva "L'Ora" già venti/trent'anni fa, sparando "I mafiosi hanno le ali" su una clamorosamente dubbia sentenza d'assoluzione o "Rocambole fa l'industriale in Sicilia" sull'aria fritta di un'imprenditoria coloniale che un particolare scandalo occasionava in via di attualità. Come si fa a contemperare intelligente estro creativo con le restrizioni da "Settimana Enigmistica" cui certo gelo tecnologico oggi costringe anche il più professionalmente creativo degli operatori mediatici a far da tramite pregnante fra quel che succede e coloro che sono interessati a saperlo? Eppure, spremendosi, ci si può riuscire anche così.