Bèh, qualche filosofo son certo che ne inorridirebbe, posto il considerare da parte di molti di loro la filosofia - del tutto legittimamente, per carità - come speculazione pura ricercante la costruzione di un sistema teorico fondato su progressioni logiche tese a fornire un quadro di raggiunte verità da considerare universali. Ma penso non tutti. Quasi certamente non Rovatti, a giudicare dalle lezioni che mette online. Pier Aldo Rovatti dirige il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Trieste e si è occupato molto anche della comunicazione come gioco e della comunicazione elettronica in rete, che può essere come sapete pure anonima ed anonimamente scambiata. Non avrebbe se no, penso, accettato qualche anno fa di essere mio corelatore in una tesi di laurea su «Il Web come new medium e come oggetto filosofico». Sarà per mia, impudicamente confessata, ignoranza particolare poiché filosofo io non sono, ma non ne saprei citare all'impronto, se non con rischio d'errore, altri di essi che abbiano puntato il loro pensiero in questa specifica o magari esclusiva direzione. Salvo, in più occasioni e come conseguenza delle sue elaborazioni, anche politiche, l'austriaco Karl Popper, che critica duramente come essa venga, specie negli audiovisivi, gestita; o forse qualche americano meno noto in Europa.



Ci sono invece alla ribalta molti da poter intendere come sociologhi della comunicazione, da Noam Chomski a John Rifkin (questo secondo è in realtà un economista ma ai problemi del comunicare ha sempre dedicato molta attenzione), a Pierre Bordieu, a Somalvico e Olini che scrivono in coppia, o polititologhi che se ne occupano come l'italiano ma noto anche altrove Francesco Sartori. Così come tali vanno storicamente considerati dall'ormai mitico McLuhan a Paul Watzlawick, e, prima di lui ma dopo il primo di questi due, Maslow, Herzberg, Lawssel, Kotler. E l'anno scorso è uscito un libro di Franco Lo Piparo (Università di Palermo), che è un linguista ma lo ha intitolato «Filosofia, lingua, politica»; così come è un linguista Raffaele Simone il quale ha dedicato tempo e studio a quella che è da lui considerata una vera e propria destrutturazione del pensiero umano quale era stato da millenni e sin qui - cioè dall'invenzione della scrittura - così preoccupatamente innovativa com'essa è delle sue procedure. Gli ipertesti, si sa, sono nemici della sequenzialità, data anche la frequente fortuità dei loro incroci. E ci si abitua sempre più largamente, come con facilità mi pare di poter notare, influenzati dal computer, a - per così dire, - pensare in digitale, secondo prassi di input ed output piuttosto schematiche, mentre i nostri meccanismi cerebrali erano predisposti a produrre e gestire pensiero secondo processi analogici. Il che rende immane il pericolo di confusione, e tale da indurre ad applicarsi nel fronteggiarlo col massimo di serietà possibile.

Per la verità - ed ho avuto occasione recente di porvi pensiero sopra - già Platone ed Aristotele usavano sostanzialmente un metodo binario nei loro ragionamenti (sì/no, vero/falso, buono/cattivo, morale/immorale, eccetera). Ma vivevano in un contesto di realtà tanto meno complesso di quello attuale che rendeva molto più facilmente separabile loglio da grano anche nelle alte vette speculative. Tutta l'evoluzione della storia che ci separa da loro - pur restando validi ancor oggi molti dei loro fondamenti di pensiero - è venuta via via complicando sia le terrene articolazioni sociali che le meditazioni dei filosofi in ordine alla concezione del mondo (fino all'esplodere appunto delle tecnologìe elettroniche che stanno letteralmente capovolgendo il nostro modo di essere su questa terra). E specie negli ultimi secoli proprio la filosofia è stata produttrice di movimenti e anche sommovimenti di società di rilevanza e diffusione enormi. Basti por mente al sia pur politico-religioso ma rivoluzionante mezza Europa pensiero luterano, agli illuministi e alle teorie liberali, al marxismo di derivazione hegeliana, all'idealismo crociano e per contro al pragmatismo, e all'esistenzialismo sia ateo che cattolico.

Una teoria filosofica che non riesca ad intridere di sé la società, in sostanza fallisce; e qualche volta le sue forzature fanno anche fallire regimi. Persino Mussolini aveva infatti cercato di recuperare fondamenti filosofici per basarci sopra la sua dittatura, facendo coniare e dedicandovi appositi corsi applicativi l'istituto della «mistica fascista». Che parola ineffabilmente sublime... Mi parrebbe dunque ben strano che la filosofia in quanto tale potesse risultare del tutto disinteressata ai fenomeni sociali. Sono del resto anche assai labili i confini tra filosofia e ideologìa: si dice oggi che le ideologìe si sono dissolte tutte, tra la fine della seconda guerra mondiale e la caduta dl muro di Berlino. Tutte? Ma allora il capitalismo che cosa è? E cosa sono le ragionate proposizioni che hanno con prepotente sbalzo logico sostituito il concetto economico di «Mercato» a quello politico di «Democrazia» nel governare coloro che non sono più nominati cittadini bensì consumatori (chiamati pertanto, ma guarda, ad essere loro responsabili dell'economia di un Paese più quando acquistano beni e servizi, e secondo quale ascendente o discendente misura, che quando votano alle elezioni)? E conquistando a ciò persino la Cina ex maoista? C'è dunque invece, al momento, un'ideologìa che ha vinto e altre che hanno perso: tutto qui! Global e no-global vedono scendere in campo pensiero, non solo scontri di piazza. E in tutto questo i sistemi informativi giocano un ruolo enorme, e in parte anche non positivo sia per scarsità di indipendenza sia per defilazione e spesso autocensura; e dunque è appunto il grande comparto della comunicazione umana, sia interpersonale che mediatica, sia tradizionale che neotecnologica, quello che si pone - oggi come oggi - quale assolutamente centrale. Non si può fare a meno dei filosofi e non si può fare a meno dei comunicatori. Può anche essere che i filosofi non siano bravi comunicatori (i loro libri sono certamente meno letti di quelli di Stephen King o di Andrea Camilleri), ma è certo anche che tocca ai comunicatori di farsi tramite pure dell'indispensabile rapporto fra filosofia e società. Che il pianeta Terra sia oggi sull'orlo di un abisso non ci vuol molto a capirlo. La filosofia non può essere solo rifugio dai mali del mondo, la comunicazione non può occuparsi solo di ciò che accade negli stadi sportivi o nel retrobottega della politica, di cataclismi naturali e di una parte sola dei sanguinosi conflitti sparsi nei continenti. E' questo il motivo per cui io proverò adesso ad esercitarmi in un'operazione che tenti, con i mezzi intellettuali che ho, di focalizzare questo rapporto. Se c'è una disciplina che si chiama Filosofia Morale, una che si chiama Filosofia della Storia, una che si chiama Estetica e che sempre filosofia è, non vedo proprio perché l'èra postmoderna non debba disporre anche di una Filosofia della Comunicazione. Categoria che tanto incisivamente, tanto determinantemente la impronta.

Le cose che dirò adesso sono quelle che secondo me ogni operatore della comunicazione dovrebbe aver costantemente presenti anche se pensa esse possano esulare fondamentalmente dalla propria funzione, come dire, istituzionale. E parto appunto da quella che è la sostanza della filosofia, intesa come scienza e come ruolo, cercando proprio di individuare, al di là di quel che i più considerano o inafferrabile o scostante, quel che è l'osso della questione. Si tratta della «ricerca della verità», intesa come scopo, primo ed esclusivo, della filosofia. Ciò può essere enunciato in due modi. Così come appena detto (ponendo magari la "v" in maiuscolo per evidenziarne l'unicità e l'assolutezza), oppure indicandola, in maniera meno intimidente ma anche più flessibilmente precisa e sicuramente più alla portata generale, come «ricerca dei princìpi primi e delle cause». Il senso è assolutamente il medesimo, e non occorre neanche tanto sforzo mentale per convenirne. Focalizziamo meglio: principi e cause primi sono insieme di ordine naturale e di ordine concettuale. Naturale quelli già preesistenti alla comparsa dell'uomo e che all'uomo stesso sopravviveranno in quanto immodificabilmente regolanti esistenza e vita dell'universo (leggi balistico/gravitazionali, elettromagnetiche, termo e foto dinamiche, atomiche, fisico/chimiche e quindi anche biologiche), concettuale quelli derivanti dalla ragione, che appartiene al cervello umano e alla sua elaborazione di pensiero, e che investono, essendo raggiungibile per sua capacità e metodo la rispettiva essenza, non solo logica ma anche etica ed estetica.

Esse consentono prima di ipotizzare e poi di definire dei modelli categoriali ognuno dei quali porta con sè il suo opposto come controfaccia (vero/falso, bene/male, giusto/ingiusto, bello/brutto, libero/nonlibero), per attrazione assemblante tutti fusibili in unico prisma, e questo può spiegare il detto invalere avutosi dalla parola «verità» come convenzionalmente sintetizzante questo globalizzato insieme. Anche se il suo uso troppo rigido può suscitare diffidenza o dubbio quando assuma valenza religiosa o anche solo retorica. Se però ci rendiamo conto del nerbo sostanziale di quanto fin qui esposto, al di là di del nome che gli si applica, siamo perfettamente in grado di pervenire a stabilire come sia stato definito qualcosa che funge da osservando parametro generale cui riferire anche ciò che di più piccolo, frammentario o transeunte attraversa la realtà e che da esso deve ricevere luce configurante. Perché non c'è evento o atto o comportamento o idea della sfera umana (individuale o sociale) cui non vada necessariamente attribuita verità o falsità, solidità logica o no, equità o meno, bellezza o il suo contrario, liberatorietà o limite, il quale possa sfuggire, per essere giudicato, al riferimento universalmente valido proprio con quel prisma lì. Che la norma vuole sia ragionato ma che può anche, a un certo livello di intellettualità e/o di sentimenti, essere esperientemente istintivo. Poi le scuole filosofiche sono diverse e diverse anche le loro metodologìe. Ce n'è di più rigide e di più duttili. Ma è con ciò che tutte quante debbono ineludibilmente misurarsi.

Esiste però, e come, anche una realtà parcellare sul pianeta da noi abitato. Anche singole verità concrete che riguardano il mondo e queste o quelle sue localizzate comunità, sono state molto difficili da raggiungere (e poi da comunicare una volta con certezza evidenziate e documentate) e ciò anche dovendo per esse spesso duramente combattere. Come la non piattezza bensì rotondità della terra e il non girar del sole intorno ad essa bensì viceversa. O come, dalle nostre parti, le ragioni e le responsabilità della strage della diga sul Vajont e su come essa sia stata originata non dal fato ma dal malo comportamento di uomini; o le circostanze dell'uccisione del bandito Giuliano, assassinato dal cognato su mandato dei carabinieri che poi camuffarono il tutto da conflitto a fuoco avvenuto fra lui e loro. Non occorre che citi altri degli innumerevoli possibili esempi a varie epoche e luoghi appartenenti. E' certo ad ogni modo che esiste un criterio universale per riconoscere ciò che vero, e i filosofi ci pervengono per sillogismi considerati ferrei quanto l'algebra per un matematico. Il comunicatore, e nel nostro caso i giornalisti, abbisogna invece di testimonianze e documenti. Resta comunque che anche il loro rapporto con la verità nel prendere posizione privata e pubblica su ciò che è bene e ciò che invece è male, su ciò che è giusto e ciò che non lo è, non può prescindere da quei parametri di commisurazione con l'universale che una cultura fatta di filosofia e di scienza, di stabilizzata concezione del diritto e di quella che riguarda il binomio dignità/libertà ha già inscalfibilmente preindividuato ed approfondito per loro in vari specialistici modi. Che, anche se in continuo aggiornamento, devono dunque già possedere per patrimonio proprio.

Professionalità e deontologìa non ne possono insomma prescindere e un comunicatore non può essere abdicante burocrate di desk. La riflessione su tuttociò non finisce comunque qui, e sarà proseguente oggetto anche del mio «Secolo Postmoderno» della prossima settimana.