Steven Spielberg, classe 1947, aveva solo ventotto anni quando ci ha scagliato addosso «Lo Squalo», che non era comunque il suo primo film ma il terzo (e già col primo, «Duel», aveva cominciato a giocare con le nostre angosce), e trenta quando ha di colpo capovolto, rovesciandola come un guanto, l'immagine sin lì (e anche dopo) per noi temibile degli extraterrestri. Un po' come aveva vent'anni prima, e altrettanto improvvisamente, fatto Delmer Daves proponendoci per la prima volta un'altra faccia del western («Broken Arrow»), in cui i pellerossa non eran più "cattivi" ma "buoni" e Cochise un grand'uomo saggissimo. Il medium cinematografico ha questo di caratterizzante, anche da prima che fosse per noi abituale allineare videocassette negli scaffali di casa: che invece di suscitare immaginario, come fa il romanzo scritto, in ciascuno di noi a seconda della personalità culturale che abbiamo e del nostro tipo di occhi interni, lo rappresenta e concretamente ce lo mostra uguale per tutti, e con maggior possibile forza di imprinting anche rispetto alle arti figurative immobili. Così che noi possiamo benissimo raffigurarci in cento diversi modi, che so, la fisionomia dura e prepotente di don Rodrigo o gli sguardi infidi e persecutori di Javert o perfino le proterve sembianze di Fantomas, e il rispettivo modo d'atteggiarsi e di significativamente gestire, ma quelle fauci seghettate e inghiottenti che emergono improvvise dal mare restano visualizzate nel nostro archivio mnemonico come assolutamente identiche per tutti; e saranno pure nei nostri sogni esattamente riprodotte ogni volta così, in bianco, grigio e scarlatto. Quell'enorme pescecane è simbolo di qualcosa che ad ogni modo avevamo dentro già, e questo film ce lo rivela proprio dando maschera visibile e riempiendo di significati quel qualcosa lì. Che potrà essere non lo stesso per tutti, ma che per tutti ha un dato di somiglianza vigoroso: viviamo (e già vivevamo in quegli anni Settanta) in una società il cui equilibrio instabile rimescola precariati diversi ed è paura generalizzata appunto quella d'essere mangiati. Questa società, una società di competizione e scontro a tutti i livelli, può mangiarti in varie accezioni e l'occasione può scaturire anche in modo fulmineo e anche in circostanze e luoghi fino a quel punto ritenuti normalmente sicuri. E quel mostro aggirantesi sotto il pelo dell'acqua è stato e resta di queste paure lo specchio perfetto. Eri qualcuno, e da un momento all'altro vieni trascinato sotto, diventando bolo in un processo digestivo altrui.



Ma da «Lo Squalo» ho solo preso le mosse, in quanto denotante da subito acume ed abilità di un regista che si sarebbe poi ancor più affermato, e l'intenzione è qui invece quella di prospettare e definire come quest'autore abbia seguìto negli anni un filo che è sempre lo stesso, trasferendolo molto spesso e significativamente anche dalla realtà alla fantascienza. Spielberg è ritenuto impropriamente un eclettico: ha girato, in combutta con l'estrosità di Zemekis, anche operette giocherellone e demenziali, ha inventato quell'avventuroso archeologo retrodatato che è Indiana Jones, dedicandogli tre film di grandissimo successo, è stato autore di almeno quattro kolossal, due dedicati alla seconda guerra mondiale («L'Impero del Sole» e «Salvate il soldato Ryan») e due a un'altra sua sconvolgente invenzione, quel «Jurassic Park» che da un lato è un'ingegnosa fiction preistorica e dall'altro proprio una sorta di pauroso moltiplicatore di quel suo tremendo squalone. E poi altri film drammatici, il maggiore dei quali è «Schindler's List» (aspetti del nazismo e del razzismo in genere sono suoi soventi leimotifs, vedi anche «Amistad»), e, con acrobatica capriola di genere, quel «Capitan Uncino» che rivisita Peter Pan e l'Isolachenoncè parendo più che quella favola pedagogica che pur è un vero e proprio, anche se così denso, cartone animato. Che si vuole di più, per mettere tutto sotto l'ombrello dell'eclettismo? Ma sono tutti, invece, molti e differenziati modi di inseguire sempre lo stesso pensiero. Anche se è l'immersione nella vera e propria fantascienza, quella classica, su cui mi voglio fermare - contraddistinta dal rapporto con gli alieni e dall'immersione in un tempo futuro galleggiante fra previsione verosimile ed immaginazione catastrofica - a costituire una sorta di "pacchetto centrale" della sua opera. I film così tematizzati sono ben cinque: «Incontri ravvicinati del terzo tipo», «E. T., l'extraterrestre», «A. I., Intelligenza Artificiale», «Minority Report», «La guerra dei mondi». E sono suddivisibili sia in due versanti d'ottica (il primo e il secondo ne manifestano uno, e il terzo, quarto e quinto l'altro; in termini cioè rispettivi di positività e negatività) sia secondo temporalità (il primo, il secondo e il quinto collocati nel presente, il terzo e il quarto in un domani che è ipotetico ma del quale sono già oggi ravvisabili dei trends). Vediamo adesso di sgrovigliare un poco questo viluppo di filoni.

Comincio proprio con gli "incontri ravvicinati". Senza ripetere riferimenti già comparsi nel numero precedente di questa mia rubrica sul modo istintivamente avversario in cui il cinema ha sempre teso a considerare gli eventuali abitanti di altri pianeti e galassie, dipingendoli come devastante pericolo e incutenti terrore, ecco qui invece, e abbastanza stupefacentemente - anche se non per i partecipanti a quel vasto fenomeno generazionale, da poco affacciatosi proprio allora a segnar epoca, dei «figli dei fiori»; e Spielberg ne avrà tenuto conto - tutt'altro. Atterra cioè, provenendo da un lontanissimo chissaddove, un'astronave nel Wyoming, intorno alla quale la NASA tende cordoni di sicurezza e si capisce però subito da un particolare di spicco che questi alieni hanno grande apertura d'intelligenza ed espresse intenzioni d'amicizia. Non si fanno vedere (li vedremo poco e solo indistintamente anche dopo come longilinee evanescenze ombrose che non mostrano lineamenti ma solo lunghi arti) però dal loro vascello emettono, in evidente tentativo di comunicare, amplificati suoni molto dolci corrispondenti a un alfabeto musicale, per raccogliere e cercar di interpretare i cui codici vengono allestiti degli appositi pannelli-griglia luminosi. I protagonisti primari del film sono dei civili, anche un bambino, che riescono a penetrare, attratti da affascinata curiosità, i divieti di accesso e provano ad aver colloquio. Alla fine, c'è chi di loro deciderà di partire insieme a queste nuove entità così cattivanti fiducia e voglia di sapere, e sale, per solo stimolo di conoscenza, a bordo della grande nave astrale che subito s'invola. Ma non è la storia che di questo film interessa, bensì il messaggio che lancia e che è: aver dell'Universo un'aprioristica paura è sbagliato. Ne facciamo parte inseparabile e integrata e, se altri ne abitano altre parti, è più facile siano interessati, esattamente come noi, più alla reciproca positiva investigazione che alla guerra. Anche noi bianchi europei eravamo stati, a suo tempo, e possedendo armi che loro non conoscevano, temibili arrivi alieni per gli Aztechi, i Maya, gli Incas, e da essi bene accolti all'inizio. E abbiamo compiuto nei loro confronti genocidio, sottomettendoli. Ha anche una sua logica, dunque, che ci sia rimasto inciso in subconscio che se degli altri alieni si fossero una volta presentati a noi stessi, dotati di più scienza e di più straordinari mezzi d'offesa, e da una lontananza non grande stavolta come solo un Oceano ma invece di moltissimi anni-luce, sarebbe toccato a noi d'esser visti adesso da loro come animali subalterni e ci sarebbe stato fatto del male. Che questo film abbia inaspettatamente proposto al pubblico di tutto il mondo, e quasi in sintonìa col movimento hippy, l'esatto contrario, spogliando gli extraterrestri di un automatico ripetuto ruolo da bestiali conquistadores, è stato un fatto di eccezionale rilevanza, un vero e proprio importantissimo atto di cultura.

Proseguito poi, ma dando luogo ad una storia inversa, da «E. T.» cinque anni dopo. Anche nel quale film atterra in America notturnamente e in prossimità di un abitato un'astronave in visita ispettiva, stavolta però subito fuggente in quanto allarmata dal sopravvenire inquieto di un gruppo di allertati FBI con le torce elettriche. E abbandonando per forza lì da solo uno di loro, probabilmente di stadio infantile, il quale era sceso a curiosare. Battezzato poi da loro con le iniziali di "ExtraTerrestre", questo piccolo goffo essere viene trovato e protetto da un gruppo di bambini, che lo nascondono, lo nutrono e gli insegnano a trasformare i suoi rauchi suoni in un minimo repertorio di parole (sempre spiati intanto dall'FBI). Lui in cambio esibisce proprietà come quella di cicatrizzare piccole ferite e di farli volare sulle proprie biciclette. Poi costruisce, con un vecchio ombrello ed altre cianfrusaglie, un'emittente che punta in cielo per lanciare un messaggio di soccorso e nostalgìa. Raccolto il quale, il che lo guarisce da una depressione mortale, i suoi verranno a riprenderlo e vi sarà un commossissimo commiato. Cosa voglia dire Spielberg anche questa volta dovrebb'essere assai chiaro: che il livello della conoscenza e del rapporto passa, presupponendolo, per quello dell'innocenza, e che solo menti ancora sgombre da pregiudizi adulti troppo rigidamente razionali son quelle adatte - canale i sentimenti affettivi - a superare le differenze e le reciproche paure. E che, se qualcosa del genere davvero un giorno avvenisse, è questo che occorrerà per ricavarne senza diffidenza vantaggio e non danno. Per gli umani e per gli altri. E' un concetto bellissimo e ammonitorio insieme. Anche in questo film c'è, come già per quel grande squalo, una costruzione animal-robotica perfetta da parte d'un genio di questa cinematografica specialità (avrà il suo daffare anche nel popolatissimo successivo parco giurassico ed è pure il costruttore di un maestoso King Kong per diversa produzione e diverso regista), Guido Rambaldi.

Ci vogliono poi diciannove anni perché Spielberg diventi pessimista, ma visitando il nostro futuro. Quello in cui l'intelligenza artificiale e il moltiplicarsi dei robot avrà condotto gli umani a replicare se stessi in molteplici tecnologici modi, servizievoli ma anche immorali, perdendo fatalmente per istrada brandelli o segmenti interi, appunto, di umanità. Superando così anche l'attualissimo problema di supplire all'infertilità impiantando zigoti già completi di DNA in uteri femminili, previo accertamento di sanità (ci abbiamo appena fatto sopra un referendum naufragato senz'esito) con l'immaginata possibilità di ritirare da apposita fabbrica un androide bambino perfetto in tutto e indistinguibile da uno vero, compresa la capacità di amare. Bambino costruito appunto come gli androidi di un altro preveggente film («Il mondo dei robot», 1973), opera prima d'un altro acutissimo regista, l'inglese Michael Crichton, i quali sfuggivano però alla programmazione loro imposta d'essere soggetti commerciali pro turisti danarosi diventando al contrario, protagonista Yul Brinner, possessori d'odio testardo verso gli umani, considerati antagonisti da sopprimere. E questo bambino, innamorato della mamma cui è assegnato, attraverserà prove e pene indicibili per la perdita di affetti che proprio negli umani troverà. E' anche questo un film-tappa miliare. Perché sta appunto nel rapporto dell'uomo con un tipo di realtà che da virtuale può trasformarsi solo in artificiale, e per opera sua: il grande ed immenso problema di questo postmoderno secolo. Che non sappiamo ancora come sarà, se lo sarà, risolto. La disumanizzazione dell'uomo è proprio dal suo pensiero che è iniziata e non dalle biotecnologìe ortopediche ed organiche, abbandonando via via le consequenzialità analogiche per mutuare dai computer le procedure sì/no del metodo digitale, paradossalmente capaci di dar luogo a fortuità di assemblaggi mentali. E' vero che già quattro secoli prima di Cristo la logica platonica ed aristotelica si basava su una metodologìa sostanzialmente binaria fatta di «accetta» ed «escludi», ma essa era talmente irta di sillogistiche verifiche da non correre i pericoli che il nostro verso mentale e la nostra miscela culturale corrono adesso, con bene e male divisi ormai solo da un sottilissimo filo di rasoio sempre più incerto. E' proprio il nostro stesso mondo, e non più ipotizzabili mondi esterni, che arreca per ora a se medesimo colpi mortali. E le configurazioni aliene sino a un certo punto rimaste solo fantasiose sono invece state trasferite a un'interiore pseudorealtà concettuale alla quale s'è freudianamente adattato il termine psicopatologico di «alienazione», avente prima solo la valenza esclusivamente giuridica di «privarsi di...». E tutto questo dovrebb'essere qualcosa di odiernamente meritevole del massimo della nostra meditazione, riflessione, elaborazione; e indotti progetti di riparo.

Ultima, per ora, tappa spielberghiana è la rielaborazione della «Guerra dei mondi» di H.G. Wells, da pochissimo uscita sugli schermi e ancora in proiezione nelle nostre sale. Ma lo precede quel «Minority Report» che sembra uno sforzo di far collimare prevenzione del male e metodi per reprimerlo del tutto irreali, basati sulla capacità di prevedere intenzioni criminali e poliziescamente intercettarle in modo prepotentemente spietato. Per ottenere ciò si è ricorso non a qualcosa di sia pur visionariamente scientifico ma escogitando uno staff che unifichi, cadendo in trance, una serie di capacità paranormali. Con uno stress psichico degno casomai di un altro autore, sadomasochistico invece questo, che è David Cronenberg («Scanners», «La mosca», «Crash», e una profluvie di eccetera). E' questo il punto di debolezza dell'ingegneria del film, che colloca così «Minority Report» fra le opere imperfette di Spielberg - qualcuna ce n'è - e quindi non mi ci soffermo oltre; anche se un avvertimento sensibilissimo contiene anch'essa, ma lo dirò più avanti facendo esso tutt'uno con altri due successivi. «The World War» invece ripropone gli extraterrestri, stavolta perfidi mostricciattoli dotati di macchine da guerra lanciaraggi mortali, e caracollanti su lunghissime gambe snodate (simili alle già viste nei primi episodi di «Guerre stellari»; ma di molte idee spielberghiane s'è avvalso il suo allievo Lucas, oltre che di suoi apporti come produttore), come invasori del pianeta Terra sia dall'aria che dal sottosuolo. Le metropoli dei vari continenti vengono attaccate e semidistrutte contemporaneamente, senza che intere armate blindate aereoterrestri possano farci niente se non restar dissolte anch'esse, e la razza umana intera stessa rischia d'essere spazzata via o di trasformarsi, succhiata, in cibo per gli alieni. E cos'è che la salverà, dopo quest'uragano di tragedia? Un'altra schiatta di viventi, che su questo pianeta ci aveva preceduto ma esiste ancora: i microrganismi, i battèri, cui noi ci siamo adattati ma sono incompatibili con la vita di questi alieni. I quali, ammalandosi, perdono via via facoltà, invasi a loro volta da essi, e ne muoiono. Saranno cioè i microbi e non l'uomo, da questi così preservato, a vincere questa guerra. Vittoria che ci riporta all'inizio stesso di questa filmografia, e cioè a quello «Squalo» in cui però vittorioso non era stato - attenzione - un agente esterno ma proprio ed esclusivamente l'uomo con la sua tenacia ed intelligenza. E c'è un'altra parabola, comunque, che questa "guerra dei mondi" visibilmente contiene: che quando un invasore sicuro di sé è tuttavia sprovveduto sulle diversità materiali e ambientali in cui può da occupante imbattersi, e dei conseguenti micidiali imprevisti possibili, assai mal gliene può incorrere. Al Paese in cui Spielberg abita e vive è già accaduto due volte, una in estremo e l'altra in medio Oriente, ed anche questa superficiale improvvidità abbastanza sciagurata è sintomo raccolto e segnale lanciato. E, per affinità di messaggio, è qui che meglio vien d'inserire l'aggancio che avevo prima annunciato con la preoccupata analisi previsionale contenuta in «Minority Report». Che è stato girato subito dopo l'attacco alle Twin Towers di New York e già mette in qualche ben percepibile modo in guardia dagli effetti negativi e ingiusti di una legislazione di repressione preventiva fatalmente tutt'altro che a prova d'errore e quindi vessante e negatrice di diritti. Parabola molto simile riappare, anche se sotto forma di paradosso, nel successivo e penultimo film dello stesso autore, che era «Terminal». E' dunque l'intera terna più recente delle sue opere a trar materia anche dalle pericolosità di carattere politico che son per ora spada di Damocle su tutti noi. Aspetto civile, questo, neanch'esso da sottovalutare.

C'è in tutto questo una ricavabile filosofia marchiata Steven Spielberg, ed essa ha negli anni intelleggibile percorso, a ben osservarlo. E' quella che mette sotto microscopio l'Uomo facendo prevalere prima le sue qualità e poi, però i suoi difetti. Troppe cose involventi i suoi atteggiamenti e la sua cultura sono accadute dagli ultimi decenni del millennio precedente a quello in cui siamo solo da un lustro entrati. E non c'è contesto che giustifichi più molto nè il combattivo ottimismo di Indiana Jones né la volontà di sentimenti intatti di Peter Pan. E neanche confidare che il mare possa ora esser rimasto sbarazzato dal riemergere di quella pinna scura, o riandare simbolicamente indietro fino al Quaternario per rintracciare il male incontrollato. Uno spirito creativo dotato di capacità riflessive come quello dell'avventuroso e poliedrico cineasta di cui ci stiamo a ragion veduta occupando in questa rubrica di oggi, non poteva non accorgersene né dare di conseguenza inclinazione diversa alla propria cinepresa. Quanto possa cogliere del complesso di questi ragionati messaggi la gran massa degli spettatori al di là e al di qua dell'Atlantico con capacità di farsene tesoro, io non lo so assolutamente, interessata com'è soprattutto allo "spettacolare". Ma che ci sia, affacciato agli schermi che affollatamente frequentiamo, un così gran suscitatore di inquietudini apparentemente solo in connessione con invenzioni ultraterrene o con avventure fantasiose in Terra (da cui possono tuttavia anche affacciarsi i fantasmi dell'Arca Perduta o quelli che uccidono usando addirittura il Graal), ma in realtà tutte affondate nel nostro interiore anche quando hanno l'apparenza di un giuoco, bene, questa è una cosa di cui dovremmo sentire bisogno anche maggiore.

Pensiamo poco, ragazzi, e ci stiamo abituando a vivere troppo, come si dice, alla giornata. E, invece d'essere prevalentemente deriva inerziale e indurne feticci così allontananti dal recupero di valori etici, il postmoderno dovrebbe, e a maggior ragione in quanto così spinoso, costituire invito, e anche pressante, a pensare di più. Non è che se un messaggio viene dal cinema invece che da altre più solenni cattedre sia da considerare meno serio, perché tutto si tiene, tuttavia, e tutto ha una ragione. Comprese le storie che ci vengono raccontate pagando un biglietto.