La comunicazione, come dato da tempo acquisito, può essere verbale o non verbale e, se verbale, fonetica o scritta e, se scritta, configurata in segni alfabetici o figurativi. Quella fonetica, che può però anche essere non verbale (musica o altre sonorità), e quella alfabetica possono essere a loro volta espresse in migliaia di lingue e decine di migliaia di dialetti. I segni figurativi (icone e loghi, immagini rappresentative d'ogni tipo ottenute manualmente o con procedimenti fotomeccanici) possono pure essere di significanza immediata non verbale, pur restando anche verbalmente traducibili, ed essere altresì rappresentati mediante simbolismi e metafore motorie (mimiche, gestuali, costituenti scena, danzate). Fin qui ci siamo facilmente, no? Possiamo dire «Pronto» o «Hallo», ma in ogni caso significa «Eccomi. Chi sei? Che vuoi?». Trombe, sirene, campane e campanelli impartiscono inviti e ottengono risposte. Le religioni e il galateo abbondano di convenzioni identificanti od espressive non verbali e la mafia, quando si lascia dietro un cadavere, lo dota di messaggio specifico a seconda che sia incaprettato o abbia in bocca un sasso, una moneta o i propri genitali recisi. Dal segno di croce, dal dischetto rosso dipinto fra i sopraccigl, dal tatuaggio rituale, come dai distinti significati degli omaggi floreali e dall'avere per saluto un agitare di palmo e dita o una stretta di mano o il portarla a spatola verso la fronte o l'indice e il medio poggiati sulle labbra e poi lanciati avanti, escono variazioni di qualità universalmente note. E' un campo comunque nel quale continuamente qualcosa interferisce e qualcosa evolve. Sia in versione diretta che mediatica, sia per canale semplicemente interpersonale sia circolare. Qualcosa, anche, costituisce vero e proprio intoppo. Momentaneo, pro tempore o permanente. Quindi problema da risolvere. Ed è questo l'argomento che vi propongo per questa settimana.

A parte le vere e proprie barriere idiomatiche e/o culturali sempre esistenti, e superabili mica sempre dal linguaggio dei segni e comunque con vari livelli di difficoltà a seconda si tratti di descrivere oggetti, sentimenti, concetti o pensieri complessi, i problemi sono anche d'altra natura. Ci sono parole che mutano valenza a seconda di chi e in che sede le pronunci o scriva. Ci sono segni onnivalenti ai quali il camminare dei tempi consiglia significativi adeguamenti grafici. Se «verità» lo dicono un filosofo o un magistrato non intendono esattamente la stessa cosa, e neanche se lo dicono un prete, uno scienziato od un poeta. La variazione non è lessicale, ma di accezione concettuale sì. «Laicità» può riferirsi a un personale status, a un comportamento, a qualcosa di carattere istituzionale, o essere semplicemente il contrario di «dogmatismo». Passando ai segni, è notizia radiofonica di stamattina, domenica 26 giugno 2005 (e lo spunto a questo «Secolo Postmoderno» n.° 161 viene proprio da qui, anche se poi il ragionamento si allarga), un'innovazione di autentica svolta che riguarda appunto un segno internazionalente noto e diffusissimo. Tutti sanno cosa significhi una croce dalle quattro braccia uguali per distinguerla da quella cristiana e di colore rosso. E' il logo di una stuttura mondialmente articolata con specifici compiti di assistenza sanitaria e soccorso in tempi sia di pace che di guerra (nacque un secolo e mezzo fa durante quella di Crimea, madrina Florence Nightingale, e rapidamente si diffuse ovunque). E ora gli organi dirigenti della International Red Cross - lo scrivo, proprio per sottolinearne il senso, in inglese, lingua trasversalmente usata, come la più parlata del mondo prima dello spagnolo, e ormai non solo nel campo della scienza e delle tecniche - hanno deciso che questo simbolo sarà d'ora in avanti iscritto in un rombo dello stesso colore. Perché? Per un motivo cui va attribuito un valore straordinario. Specie nei tempi correnti. Perché possano cioè essere paritariamente iscritti, in quella cornice identica per tutti, i loghi sia della Croce Rossa che della Mezzaluna Rossa, la corrispondente istituzione dei Paesi islamici, sia della Stella Rossa (non quella campìta piena dell'ex URSS ma quella israeliana di Davide formata dall'incrocio di due triangoli equilateri), ed ogni altro analogo nel significato. Con esplicita valenza linguistica di simbologìa assolutamente unitaria. Con sfumo del distinguo di provenienza. Con assimilazione scambievole di scopi. Fatto in sé non solo vocazionale ma anche politico. A papa Ratzinger non so ma a papa Woytjla questo sarebbe piaciuto certamente moltissimo.

Béh, penso che anche glottologhi, linguisti, semiologhi, nella sottigliezza con cui distinguono fra loro le rispettive discipline potrebbero formare uno scientifico vertice consorziale per stabilire dei codici lemmatici utili a un'interpretazione valoriale comune di una serie di termini. Noi italiani non possediamo per esempio un nesso linguistico sintetizzante il possesso di una specifica abilità/capacità e dobbiamo di volta in volta ricorrere o all'inglese «know-how» o al «savoir faire» francese. Che pur nella pratica identità letterale hanno, invece, significanze completamente diverse, nozionistica l'una e comportamentale l'altra; e c'é dunque chi in confusione viene indotto. Ho solo fatto un esempio ma potrei anche dire che «pubblicità», «advertising» e «réclame» hanno valenze significative completamente diverse, anche se italiani, anglosassoni e franco/tedeschi (questi ultimi con la “k“) la usano per indicare la stessa attività nel campo commerciale/promozionale. Sarà eufemistico Maurizio Costanzo a chiamare gli spot tv «consigli per gli acquisti» ma è certo che i primi fogli propagandistici a stampa si chiamavano dappertutto e in varie lingue «avvisi» o «affissi». E che il nome «pubblicità» da noi mutuato da un ben diverso intento semantico latino («publicum facere») è etimologicamente il più improprio di tutti. Mentre «to advert» è realisticamente indurre attenzione e «reklamieren» è suonarci scopertamente il tamburo sopra. Diciamo che l'uso di tutte e tre i termini ha alla fine sopraffatto Paese per Paese l'ètimo, praticamente omologando il senso dei rispettivi vocaboli, ma rendersene conto così in radiografia direi che non è del tutto inutile. E', sempre ad esempio, incongruo che con lo stesso nome («traffico», «traffic») s'intendano sia quello stradale, ferroviario, aereo, sia l'accezione deteriore in cui si esercita un commercio. Oddìo, le parole dal doppio, o persino triplo, significato non sono poche in nessuna lingua, ma non è un motivo per non cercare di fare un po' d'ordine. Almeno periodicamente, come si fa in casa per Pasqua, anche se fatalmente non per sempre.

Torno a tre di esse che ho citato all'inizio: «verità», «dogma», «laicità», le quali possono coincidere o divergere nel loro senso a seconda da chi e in quale àmbito sono usate. Esperienza mi ha convinto della necessità si possieda, o si cerchi, un codice d'uso comune. A somiglianza di quello della strada, infatti, a non osservarlo si rischia l'esatto equivalente di tamponamenti e scontri e anche un dialogo può capottare. Specialmente per le parole che, mutandone con ciò livello e quindi significazione, possono con frequenza essere ingallonate da iniziale maiuscola.

Vediamo «verità», per prima, e lo facciamo cercando questa voce in un dizionario filosofico (quelli che vanno per la maggiore sono il Garzanti, a più mani secondo la specialità, e un altro, monoautore, curato questo da Nicola Abbagnano). Non ci vuol molto a capire come quella ricercata da Platone o da San Tommaso d'Acquino non sia affatto la stessa, per qualità e livello, che cercano il tenente Colombo, un'équipe di biologi o una commissione d'inchiesta parlamentare o demoscopica. E c'è perfino chi nega, per quanto ciò appaia ai più sconcertante, la verità possa esistere in assoluto e afferma che le verità, anche allo stesso identico proposito, sono invece tante quante le ottiche da cui son guardabili. Noi con la parola verità ci giochiamo molto, ammettiamolo, specie in politica dove fin troppo spesso se ne affrontano due contrapposte e rispettivamente accampate come unica valida. Sfogliamo le pagine dedicate a questa voce e troveremo alcune cose interessanti. Prima fra tutte sorge una domanda: va inteso come VERO ciò che corrisponde a delle regole, o princìpi, statuibili per ricerca teoretica, o ciò che corrisponde a una realtà con i nostri mezzi (i cinque sensi) costatabile? Obbedendo la prima a processi ferreamente logici ed essendo fallibili i secondi, maggior sicurezza vorrebbe che ci si affidasse a tutti e due i metodi (lo stesso Aristotele, qui leggo, li ammetteva, a seconda, entrambi) eppure la storia stessa della filosofia ce li consegna come processi alternativi. La verità è, secondo i tempi e le scuole, raggiungibile per via metafisica, illusorio tutto il resto; oppure usando controlli empirici e considerandola inattingibile per altra via.

Non sono un filosofo, ma ricevo frequente contributo intellettuale da una collaboratrice che invece appassionatamente lo è, anche se talvolta la collimanza è imperfetta e la dialettica s'infuoca non foss'altro che per la mia brutalità di cronista/analista di fatti timoroso d'ogni astrazione e trascendenza. E allora son portato a cercare una dirimente possibile, la quale tenga conto di due livelli accettandoli entrambi. Esistono due ordini di verità. Uno esterno all'uomo e consistente in qualcosa di immutabile e la cui conoscenza può avvenire solo per gradi: le leggi che presiedono - da prima che la razza umana esistesse e anche dopo che essa si sarà estinta - alla vita dell'universo (fisico-chimiche, termodinamiche, elettromagnetiche, balistico-gravitazionali) e alle quali si può solo obbedire. Ed una interna, che tocca a lui uomo di raggiungere lungo un percorso che mischia ricerca e libero arbitrio, dato che sono insopprimibili sia la sua spinta a sapere che la sua libertà di coscienza. E allora abbiamo una verità superiore e promanante che ci è parametro concettuale non derogabile e che potremmo raffigurare in un prisma le cui facce articolano il vero nelle coincidenti derivazioni di buono, giusto, bello, libero, che appunto aspirazione umana sono. E una serie di verità invece concrete alle quali sta alla sua coscienza, che è anche inevitabilmente arbitrio, di stabilire la commisurabilità ai canoni detti; nell'immane e doveroso sforzo di distinguere ciò che è il contrario speculare (falso, cattivo, ingiusto, brutto) di essi. Spesso sbaglierà, naturalmente, se no il mondo in cui viviamo non sarebbe quel che è. Ma questo è un concetto di «vero» che presuntuosamente spero soddisfi sia l'altovolante Aquinate che quell'onesto poliziotto dall'impermeabile scafazzato. Ognuno per quelli che sono gli obiettivi suoi. Utili e necessari a noi sia quelli che questi. E naturalmente anche il giornalista che racconta quel che accade e ci spara sopra i suoi titoloni deve essere ben avvertito di tuttociò. Se poi altri pensatori investiganti (c'è stata la corrente esistenzialista da Sartre a Heidegger, c'è attualmente quella del cosiddetto «pensiero debole» di Vàttimo e Rovatti) mostrano invece scetticismo su una svelabilità esaustiva e finale del vero in quanto entità molto più larga delle nostre possibilità di conoscenza, e pongono così accento sulla più accessibile acquisizione di una serie di verità parziali, io prenderei atto della disputa senza disperarmi poi troppo. Perché comunque anche il connettere una catena di verità più piccole e solo terrene può, poco alla volta, portare a un tessuto di verità generale sempre più largo.

Ci restavano «laicità» e «dogma». Uno sguardo va dato anche a queste due parole qui, che sono le due facce opposte di quella stessa medaglia che è la ricerca del vero. L'abbiamo appena finita di esaminare come dovere del filosofo, sceveriamola ora un poco come dovere del giornalista. La lingua cammina e accompagna l'evoluzione del pensiero: nel dizionario italiano del Bognolo, stampato nel 1839, laico significa «secolare, contrario di ecclesiastico», e basta; un secolo e mezzo dopo, quello del De Mauro ci informa che laico ha assunto qualche valore in più: significa anche «chi intende essere consapevolmente indipendente da scelte aprioristiche e da dogmi religiosi, etici, ideologici, ecc.». Ma anche e persino la Comunità delle Chiese Evangeliche (che comprende pure valdesi e battisti) ha proprio in questi giorni proclamato «a nome di centodieci milioni di nostri battezzati la necessità di difendere la laicità dello Stato». Facendo fischiare le orecchie a Benedetto XVI per i suoi recenti interventi oltre Tevere. Mi pare evidente che la deontologìa giornalistica debba essere, a questa luce, appunto laicamente regolata e che l'accezione corretta del termine, quando di società si parla e non di religione, sia quella appena citata. Quanto a dogma, è parola che nel greco classico significa «decreto» e in sede religiosa le s'intende aggiunto «inappellabile» per espressa inconfutabilità. E' che a un certo punto era avvenuto un scambio di binario. L'originario termine lògos indicava sia «pensiero», nell'accezione di «ragionamento» (ne viene «logica», no?) che «parola», poi qualcuno, profittando di ciò, l'ha tradotta Verbo facendolo appunto sinonimo di verità. Ed esso ha cominciato a cadere, divinamente blindato, dall'alto. Può uno di pensiero laico essere dogmatico? Evidentemente no e, per sillogismo, dogmi non ne può avere neanche il giornalista, anche lui ricercatore, e per giunta professionale, di verità.

Certo, ogni tanto succede qualcosa che sconvolge i tran tran. Viviamo tempi convulsi in vari campi. Abbiamo difficoltà a discernere lucidamente il bene dal male, in materia di giustizia assistiamo al suo montarci di sopra da parte del potere politico, perfino la parola «libertà» è un po' drogata e febbricitante e diventa fonte d'equivoci perché viene soprattutto intesa («Casa delle...») come libertà d'impresa, e magari sporchina. Diceva Dante (Purgatorio) «Libertà va cercando, così cara / come sa chi per lei vita rifiuta» ma non sembra davvero trattarsi di questa, quanto piuttosto di quella di far soldi. E quanto al bello, non l'hanno certo insidiato - nonostante così personalizzatamente fuori dalle righe - né Mondrian né Mirò e neanche Pollock e i Pop, ma poi spunta il pittore americano Basquiat e mette in crisi l'estetica figurativa come all'epoca degli impressionisti. Bene, succede, perché dovrebbero imporre dogmi anche le Muse? Diamoci dunque un'aggiustatina. Lui a me personalmente non piace per niente ma questo non conta: mi guarderò dal considerarlo uno scomunicando e ci ponzerò un po' sopra a testa libera.

E' stata una galoppata concettual-linguistica forse troppo veloce, questa fin qui, ma abbiamo fatto, credo, un po' di non futile, e neanche inutile, ginnastica mentale. Comunicare sarà qualche volta solo automatismo inerziale ma noi dobbiamo avere per fermo che è una cosa mooolto seria. In cui queste “o“ prese dal linguaggio SMS (che per la generazione precedente è ancora sanscrito) non sono mai troppe.