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Categoria: Secolo postmoderno

 

Come ormai tutti sanno, una cosa è essenziale nel campo della comunicazione: perché un messaggio abbia evidenza di significato e possa essere letto trasmettendo chiaramente e facendo acquisire in modo inequivocabile al ricevente sia il suo senso letterale che l'intenzione di chi lo ha inviato, occorre che sia mittente che destinatario possiedano lo stesso codice interpretativo del linguaggio che è stato usato. Se io non so decodificare punto linea punto è inutile che tu mi scriva in Morse. Se io non conosco l'alfabeto delle bandierine navali chissà in che modo strampalato risponderò al messaggio per me che tu hai appeso al pennone. Può succedere persino se si parlano fra di loro due politici di parte avversa o, per dire, uno scultore e un matematico o un cronista e un filosofo. C'è però una sorta di esperanto linguistico di comprensione universale. Se di sera a un angolo di strada una mi fa l'occhietto alzandosi la sottana sopra l'anca, la sua domanda è senza dubbio «Vuoi?». Se uno entra nel mio negozio puntandomi contro la pistola, il gesto è tanto eloquente in sé che non occorre anche mi dica a voce «Fuori i soldi». E quando gli Stati Uniti fecero piovere due atomiche su Hiroshima e Nagasaki uccidendo in un attimo centinaia di migliaia di civili quale altro messaggio conteneva tale loro iniziativa se non semplicemente questo: «Arrendetevi o vi distruggeremo»?. Il Giappone non ebbe nessuna difficoltà a capire e si arrese il giorno stesso. Non era un'antifona: il messaggio era scritto in chiaro. Tanto in chiaro che più chiaro non si poteva.



Adesso che in Medio Oriente da tempo non passa giorno senza uno o più kamikaze si facciano saltare in aria trascinando nell'aldilà con sé soldati americani, dirigenti e poliziotti iraqeni nonché civili e tanti bambini, e che anche New York, Madrid e Londra hanno conosciuto analoghe sanguinose stragi improvvise nel proprio cuore metropolitano, è altrettanto chiaro quale sia il messaggio che il tritolo, non l'uranio come allora, esplodendo mostra, e i media tradizionali poi fra tutti noi veicolano? La sensazione, anche se lo dico a mio titolo personale, è di no. La mancanza di un codice comune fra mittenti e destinatari lascia diverse fra i primi e i secondi le valenze del messaggio. E non basta il vecchio e discusso assioma di McLuhan («Il mezzo è il messaggio») a far ponte fra la motivazione di questo recar morte e lo sgomento chiedersene perché là dove la si riceve. La condanna è istintiva e spontanea, ma costituisce una legittima reazione e non una risposta.

Mettiamo una guerra tradizionale, con gli assalti alla baionetta, le cariche di cavalleria, le battaglie navali, i duelli aerei. Non occorre mica poi andare molto indietro nella storia, si può restare benissimo anche nel solo Novecento. Potevano cambiare i colori delle uniformi e la foggia degli elmetti, potevano essere diversi i rapporti numerici, ma gli armamenti offensivi e le tecniche di battaglia erano più o meno uguali per tutti i contendenti. E così l'animus di chi combatteva, nei suoi risvolti di coraggio e in quelli di paura, nel rispettivo considerare in cosa consistesse vittoria e in cosa sconfitta, le cui conseguenze erano soprattutto e in entrambi i casi territoriali. Ma poi questo tipo di guerra è diventato impossibile. L'equilibrio nucleare ha impedito quelle frontali, in quanto alla fine sarebbe stato olocausto fra le macerie radioattive per tutte quante le parti in lizza. E in quelle non frontali e dunque non più mondiali - a parte le guerre-strage verificatesi in Africa e in Balcania e le due trascinanti «lunghe marce» di Mao attraverso la Cina e di Castro a Cuba - gli eserciti anche superarmati sono risultati impotenti di fronte alla guerriglia. Si sono avuti sì statunitensi colpi di mano diretti o mediati in America latina e anche l'ultima battaglia navale della storia, quella fra Gran Bretagna e Argentina per decidere se quell'arcipelago antartico continuava (e finì appunto così) a chiamarsi The Falklands o dovesse tornare al nome di Las Malvines. Ma è stata per due volte una grande penisola asiatica a dimostrare quel tipo detto d'impotenza. Con i francesi quando si chiamava Indocina e poco dopo con gli USA quando con l'indipendenza si chiamò Vietnam. Guerra irregolare, guerra di agguati ed imboscate, guerra però irresistibile. Guerra fatalmente persa da chi era in apparenza il più potente. E lo stesso per la Palestina. Una guerra fra un esercito e una popolazione non è più una guerra ad armi pari, e chi non ha né cacciabombardieri né carri armati deve per forza, se vuole sopravvivere e mantenere speranza, inventarsi altri modi di uccidere. Non sto facendo né discorsi cinici nè discorsi moralisti, sto solo facendo oggettiva analisi dell'accaduto. E di quel che continua ad accadere.

Il Medio Oriente. Non è questione, come si vorrebbe sconsideratamente farla tornare senza valutarne errore culturale e pericolo materiale, di Islam e di Occidente Cristiano. Se l'Occidente ha qualcosa a che fare col Medio Oriente, a parte il fatto che è nata proprio lì, tra l'Eufrate e il Tigri, quella che fu poi la civiltà europea, questo rapporto riguarda soltanto l'enorme riserva che esso è di idrocarburi liquidi e gassosi, intesi come fonte di energìa per l'industria mondiale e di alimento sempre mondiale per la motorizzazione ed i trasporti. E' una storia molto lunga, e per il suo percorso caratteristica anch'essa del Novecento. L'Islam c'entra non come ideologìa teologica ma solo (basta sentir bene i suoi slogan) con ruolo incentivo, come dire, nazionalpatriottico e di reazione in modi anche xenofobi a forme di sfruttamento. E produce, come ingrediente necessario e questo sì religioso, quel fanatismo tremendo e micidiale che, caricato a odio, permette di disporre di un numero immenso di disposti a sacrificare uno dopo l'altro in fitta schiera la propria vita per usare contro il nemico occupante l'arma del terrore. Quotidianamente, e non solo sul luogo ma portandolo anche nel cuore dell'America e nel cuore dell'Europa.

Ma insomma, Saddam Hussein non c'è più, è un vinto ormai fuori gioco, un prigioniero in attesa di processo, e questa sconsiderata guerra a suo tempo mossa contro di lui, con motivi dichiarati ormai documentati come pretestuosi, spazzandone via senza difficoltà il regime (più impervio e di balordo e scricchiolante esito si è rivelato il sostituirvi qualcos'altro), si è trasformata in una guerra invece difficilissima contro un insieme diverso e molto più vasto. Di cui Al-Qaeda, come si sta dimostrando, è solo uno dei molti pezzi e Osama Bin Laden solo uno dei molti personaggi. Una guerra in cui USA ed alleati sono costretti ad agire ormai in difensiva contro attacchi che possono venire in ogni momento, da ogni parte, e con imprevedibilità di obiettivi. Bombardare città (Belgrado, Kabul, Baghdad, Falluja, senza badare a chi ci restava incolpevolmente spiaccicato) era molto, molto più facile che coprire, come si è costretti adesso a fare da entrambi i lati dell'Atlantico con costosissime reti a maglie strette di misure preventive antiterrorismo, ogni agglomerato urbano E senza neanche sapere fin dove esse saranno efficaci, poiché la protezione totale è impossibile.

Detto tutto questo, ma se no non avremmo avuto il quadro entro il quale proseguire il discorso, torniamo al messaggio. Perché gli attentati, come s'è sottolineato, non sono solo terrorismo ma anche appunto messaggio. Esattamente come le due bombe atomiche sul Giappone del 1945. Messaggi terroristici, appunto, poiché è essenzialmente stimolo di terrore che si vuole con essi (e vanno inclusi rapimenti e sequestri per procurarsi ostaggi, qualcuno da uccidere, qualcuno da usare per pressioni psicologiche culminanti in rilascio) suscitare, e a raggio il più vasto possibile. Solo che quando, come dicevo all'inizio, manca la decodifica letterale di una messaggistica così, si rischia anche di non trovare per essa le risposte risolventi. La lettura che, come a me pare di cogliere, comunemente se ne dà, è infatti una lettura («Sono IL MALE, sono criminali che ci odiano, tutto qui») basata sulla rimozione. Rimozione delle fasi storiche precedenti. Che sono la pluridecennale politica-business (colonialismo economico) delle Sette Sorelle del cartello petrolifero mondiale in quell'area. L'uccisione di Enrico Mattei il quale ne aveva compromesso il monopolio facendo fare all'ENI, più convenientemente, accordi fifty-fifty con le controparti arabe per il greggio. L'incredibile ruolo degli USA che - muovendosi in zona da veri e propri maldestrissimi apprendisti stregoni - si trovarono di fatto a provocare, e a far subire a tutti, l'ascendente ayatollesco di un Khomeini e poi a spingere, sostenendolo, Saddam, a guerra con l'Iran, in una tragica catena di contraccolpi dannosi e di rafforzamento dei peggiori. Salvo poi a chiedersi, cadendo dalle nuvole, come mai qualcuno attraversava l'Oceano per, con atto/segnale di barbarica atrocità, buttargli giù due grattacieli e un pezzo di Pentagono.

Il codice per leggere i messaggi del terrorismo non è né segreto né irraggiungibile. Appare anzi anche molto semplice, se si riesce a sbarazzarsi di qualche fetta di salame dagli occhi. Perchè questi sanguinosi messaggi che non smettono, e anzi si intensificano senza che ci sia prospettiva di pervenire a fermarli, contengono soltanto una frase molto breve: «Andatevene da qui». E non ci vuol molto a capire che, se lo si facesse, e anche se il mondo arabo resterebbe inquieto in casa come è sempre stato, dopo noi potremmo invece vivere più tranquilli e comprare senza panico il biglietto per salire sui vagoni delle nostre metropolitane. I sondaggi demoscopici dicono che lo sta pian piano comprendendo, se non il loro governo, perfino la maggioranza dei cittadini americani. Se non lo si fa soltanto «per non dargliela vinta» (ma nessuno dice si debba anche smettere di ricercare e perseguire gli autori di queste efferatezze), dovremmo fra l'altro anche rassegnarci a non veder tornar normale, e anzi crescere ancora, il prezzo del petrolio, di cui appunto questi apprendisti stregoni hanno ottenuto il bel risultato di vederlo quasi raddoppiato nel giro di neanche due anni. Con grave danno - in arricchimento ulteriore di pochi già ricchi, quelli che lo vendono - per i bilanci delle industrie, per l'economia generale, e giù giù fino al singolo automobilista. Senza parlare delle altre e più gravi reazioni a catena coinvolgenti, e fa tremare il solo prospettarsele, un'area che va dalla Turchia all'ex URSS le quali resterebbero peggiorativamente innescate. Si sarà capaci di un po' di fin qui insperabile saggezza?