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Categoria: Secolo postmoderno

 

E' primavera, fioriscono gli ombelichi. Una volta era alle primule che si attribuiva questa stagionale valenza segnaletica. E forse ancora in campagna sì, ma il postmoderno metropolitano ha ormai connotati molto diversi e il nudo residuale fra un top (canotte, t-shirt, magliette di vario genere) e un back ( braghettine, jeans, minigonne) viaggia oramai fra la diecina e la ventina di centimetri. Si sta parlando al femminile, naturalmente. Nelle vetrine d'abbigliamento giovane vigono oggi i manichini, quelli fino al ginocchio e che possono anche non avere la testa, rotanti su un perno. Sì che si possa vedere cosa c'è scritto sia sul petto che sulla schiena delle magliette e cosa copra il davanti e scopra il dietro delle mutandine. Messaggistica di massa adesso anche questa. L'ombelico entra trionfalmente in semiotica. Oggetto serio di sociologìa comunicazionale e di psicoanalisi.



Facciamogli una radiografia linguistica e un po' culturale. Sul «Grande dizionario della lingua italiana» in 24 volumi di Salvatore Battaglia occupa da solo quasi due pagine (cinque fitte colonne abbondanti, di corpo piccolo), e ci vogliono pazienza e occhiali per leggere tutto. Sono invece solo 9 righe di colonna nel Dardàno e 23 nel Devoto-Oli. Passando per converso alle enciclopedie ne troviamo appena 6 (la Garzanti in 5 vol.). Tito Livio, poiché viene dal latino umbilicus, lo chiama, come qui tradotto, «coppa torniata che mai ha bisogno di nappi», in quanto è l'unico orifizio del corpo unano che nulla secerne. Quasi attribuendogli dunque, emblematicamente, un valore simbolico di rimando. D'Annunzio definisce, dal suo canto, «un piccolo ombelico circonflesso...» essere «...un suggello di grazia». E per il sommo Dante quello di Lucifero coincide, laggiù negli Inferi dove sta assiso, con il centro del mondo. E noi infatti lo usiamo spesso, da sempre e comunemente, nell'accezione di qualcosa di centrale: «Ritenersi l'ombelico del mondo», no? Lo pensava Mussolini per la sua Roma littoria (per Savonarola invece era Firenze «l'umbilico d'Italia»). Ma ombelico è anche l'infisso segnalatore di un orologio solare o il perno di una bilancia manuale. E un termine botanico che contraddistingue alcune piante per un loro vezzo. O araldico per la sua figurativa posizione equidistante dai limiti dello scudo. Era anche il bastoncino su cui si arrotolavano papiri e palinsesti. E ha costantemente costituito una grande metafora, se di Ulisse morto oltre le Colonne d'Ercole Giovanni Pascoli scrive che raggiungeva la sua dea, «nasconditrice solitaria nell'ombelico dell'eterno mare» e Leopardi, riferendosi all'oracolo di Delfi, ricordava il concetto antico di ombelico come «il mezzo di qualunque cosa».

Non credo comunque sia tuttociò quello a cui pensano nel far bandiera del proprio le segnalatrici di primavera di cui al mio incipit. Credo invece si tratti di qualcosa che, a volerlo collegare, andrebbe invece messo in relazione con aspetti comportamentali parecchio più generali. E' balnearmente che l'ombelico si affaccia in primis e da molto tempo (se escludiamo quella che era solo una particolarità di tipo etnico come la famosa e oggi aereobicamente in auge - ah, fitness - anche da noi "danza del ventre", caratterizzante come intrattenimento erotico, all'origine, un'area che andava dal mondo Ottomano al Sudan), e non però sin da quando al mare nasce il "due pezzi". Perchè il bikini anni Quaranta di Betty Grable era ancora una mutanda che arrivava sino alla vita; solo in una seconda fase essa rimpicciolisce: quando cioè a frontiera del lecitamente visibile viene assunto l'inguine, secondo il modello del varietà di rivista ed avanspettacolo in cui l'indumento più meridionale del corpo femminile si chiamava «il puntino». Ma è in palestra e in discoteca che l'ombelico femminile prende cittadinanza, e questo per un motivo molto semplice: la necessità di torsione del corpo fra busto e fianchi, che rende più comoda l'assenza di ingombri tessili su quell'area.

Quella della discoteca è ad ogni modo da riconoscere come un'abitudine successiva e distinta, perché la ginnastica la fai per te, e imprimendoti movimenti singoli o di squadra impartiti secondo regole e dettàmi di funzionalità muscolare; e invece in discoteca oscilli e ti scuoti in modo personalizzato: ti riveli, provi emozioni suscitate dal ritmo della musica, assecondi movimenti altrui o li provochi, lanci insomma messaggi come se, talvolta liberatoriamente, talvolta da succube, parlassi proprio un preciso alfabeto muto. Ed è circostanza anche questa in cui l'abbigliamento ci si accorge via via occorra accompagni l'uso specifico del corpo, lasciando cioè senza costrizioni motorie fatte di stoffa la parte (quella delle reni e ventrale) soggetta a torsione e sussulto (stesso motivo per cui, ai fini dei contestuali moti clavicolo-ascellari, è meglio una canotta che una camicia). E dunque anche qui, oplà e per logica, l'ombelico vien fuori centralmente scoperto. E adesso lo è pure quando si passeggia, o si va a prendere una bibita o un gelato. Prolungandone ormai inerziale abitudine scevra di contestazione fin, per esempio, nelle aule universitarie.

Ma il titolo di questa rubrica non era sulle magliette? Certo, perché è una questione di contesti. L'ombelico, che sia semplice o decorato da anellino, barretta, smaltino colorato o anche piumetta, se non addirittura da minitatuaggio, non cammina da solo. E se lui, oblungo o tondo, infossatissimo o con cèrcine sporto in fuori, lì è collocato e lì tranquillo rimane, è l'indumento che gli sta sopra, per lo più maglietta, quello che si sta per ora evolvendo, con i disegni e le scritte, soprattutto queste, che gli compaion su. E cosa sono quelle scritte se non slogan, e in quanto slogan, messaggi? Io stesso ce ne ho due su una delle quali c'è il profilo arcuato della Patagonia con sotto appostavi la sgomentata domanda «Ma io che ci faccio qui?» e fra parentesi il nome dell'autore della battuta, che è George Chatwin.; mentre l'altra reca l'immagine incazzatissima di Paperino e la scritta «Cattivi si diventa» (ma sulla schiena c'è stampato «Buoni si nasce»). Però io non faccio "caso" di costume, sono solo uno che ogni tanto si diverte a sfottere.

Sono invece molto osservatore, in questo ed altri campi, dei campionari umani e fattuali che mi si dispiegano intorno, in questa nostra comunità così epocalmente soggetta alle più varie mutazioni. Prima le hippies, poi le pon-pon, poi le raves e le groupies, hai voglia di stereotitpi che si sono succeduti, sul piano della spregiudicatezza e dirompenza gestuale e vestimentale, e prima ancora mentale. Le femmine hanno anche in questo - si parla sempre in generale - più fantasia e più sguardo in avanti dei maschi, proiettati invece, ma probabilmente per reazione, più verso l'indietro: skin dai crani rapati o punk dalle criniere mohicane, svastiche sui giacconi e braccia ipertatuate, o addirittura corna issate sui caschi da motociclista. C'è una mia laureanda che si sta proficuamente esercitando, per ora, sul tema della comunicazione attraverso il vestiario. E ci sarà ovviamente anche un capitolo sulla seduzione per via di abbigliamento. Cos'è la seduzione, in questo campo, se non comunicazione sessuale? Così dalle sue ricerche attingo notizie anch'io. E scopro come stia invalendo avere una farfalla, un cuoricino o addirittura una freccetta vòlta in giù ricamata sul triangolo dello slip. E in quanto alle magliette, una quantità di allusioni erotiche: cos'è una banana con alla sua base di qua una mela e di là un'arancia? O una mazza da base-ball con sotto da una parte un pallone da calcio e dall'altro lato uno da pallavolo? O un cactus texano con il tronco centrale più drittamente elevato di quelli bassi e tòrti che lo fiancheggiano? Vengono in mente i Flyng Pines (Birilli volanti) di Claes Oldenburg, uno dei grandi, con Warhol e Lichtenstein, di quella Pop-Art affermatasi oltre quarant'anni fa, le cui gigantesche installazioni di arredo urbano compongono, appunto con birilli e bocce, la medesima allusione. Priapismi che passando dalle erme esposte nei templi e nelle piazze dei nostri progenitori latini alle t-shirt perdono sacertà e acquistano disnvoltura.

Comunque su questi capi sono più esplicite le scritte. Che vanno da «V. m. 18» a «Sadomaso» a «Luxury» a «Luna Park» con sotto una freccia indicatrice della zona pubica. L'altro giorno ho pranzato in un posto all'aperto avendo al tavolo accanto due ragazze in maglietta. Una aveva scritto in grande sul petto «Manicomio Sexual» e l'altra «De puta madre» sulla schiena. Penso naturalmente che tuttociò sia più humour che biglietto da visita, ma l'area in cui esso si esercita resta comunque significativa. Ed è comunque sintomo evidente di progressiva disinibizione. Avevo già notato in una vetrina di una nostra città piccola ma molto turistica, segnalandolo in una rubrica precedente come esempio di una vera e propria avanzata militare, due paia di quelle scarpine giovanili appuntitissime tanto da dover quasi comportare possesso di porto d'armi, sulle quali, una parola per scarpa, c'era sfidantemente scritto «Kiss me» su un paio e sull'altro, come un forte passo più avanti, «Fuck me». Altro che la beat generation degli anni Sessanta. Sartre ne avrebbe di capitoli successivi da aggiungere ai suoi saggi del secondo dopoguerra mondiale scoprenti l'esistenzialismo. Questi non sono segni rivelatori di stati d'animo che hanno dietro di sè, come allora, l'angoscia bensì proprio invece la coscienza d'essere dei, magari un pochettino instabili, dominatori. Poiché anche l'instabilità fa diventare aggressivi.

Dalle scritte alle fogge, maniche corte o solo spalline, scollature rotonde o quadrate, un dato comune esse hanno comunque: leggerezza e attillatezza in quanto è sempre il seno a doverla fare da padrone. E a questo proposito scorgo dei trend progettuali i quali minimizzano la classicità dei top, facendo sì che lo scollo si sposti a sud scavalcando il centro, talché potremmo anche presto doverci abituare, in certe circostanze inizialmente, diciamo, più eleganti, (poi magari l'uso s'estenderà), all'emergere d'una striscia di quelle due globosità che sono estranee al torace dei maschi non più dal margine superiore dell'indumento bensì da quello inferiore. Indumento, insomma, ultraccorciato dal giù. La portabilità di questa moda non sarà magari da tutte, ma la proposta già esiste e vien mostrata. Così come, anche se non compaiono ancora nelle defilées nostrane, fanno capolino linee di capi succinti che si chiamano, in marchio, «The Bitch Groupies» o «69» (in cui il riferimento non è a una data, o al nome di una band, ma è proprio posizionale), e negli USA è sul mercato anche un marchio che si chiama tostamente «Porn». Non farò il moralista, mi limito a segnalare che c'è dunque in corso un generazionale travolgimento d'argini. Che però non ha caratteristiche, come dire, porcellinesche, bensì, e anche con una certa spavalda innocenza, trasgressive proprio sul piano ideologico. Dove giri lo sguardo, l'éra dei bacchettoni infatti non riesci proprio a vederla più, ed è anche naturale che da quel varco passino pure, dopo il topless o relative trasparenze o spacchi fino allo sterno o progressiva posteriore inesistenza dimensionale nei tanga, altre affermazioni libertariamente cosiddette emancipative. Resta un solo limite, pare a me, che ci sentiamo di dover mantenere e ribadire: quello del buon gusto. Ma potrà mai questo, ehm, diventare una qualità di massa?

Chi è stato, d'altro canto, a dire che la comunicazione di massa la fanno solo grandi media, governi, partiti, istituzioni e imprese? Ma finiamola! Lo sono anche i manifesti e gli spot, e lo è stato fino a poco fa anche l'Angelus quotidiano di quell'ammirevole e rivoluzionario uomo di nome Karol Wojtyla dalla sua finestra vaticana, finito sulle magliette anche lui. E come non lo fosse, poi, anche questa fonte stessa, la wearcommnication, di cui ci stiamo oggi appunto occupando in questa rubrica che ha il numero 150 da quando settimanalmente la scrivo online qui e che oggi pertanto issa un'altra cifra tonda. Magliette dunque, compagne e amiche di mister Ombelico. Non mi ricordo più in quale romanzo inglese sbucava a un certo punto la per la verità melensa frase (confido solo nella mia memoria) «What my great desire, to sink in your so sweet navel». Cosa impossibile, peraltro, essendo esso una concavità occlusa, e cioè una semplice cicatrice che tutti/tutte ci portiamo dalla nascita fino alla morte senza che cambi, come invece altre parti di noi, nè aspetto nè dimensione.