Stavolta il titolo della rubrica non è anch'esso frutto di elaborazione mia. Riproduce semplicemente una frase che ho prelevata di peso dal servizio scritto da Giuliana Sgrena sul «Manifesto» per raccontare quel tremendo mese vissuto a partire dal suo rapimento e conclusosi col ferimento suo e di quel maggiore dei carabinieri, e l'uccisione di Calipali. Si tratta di un concetto elementare, quasi ovvio, ma capace di scatenare una serie di considerazioni gravemente, universalmente, ammonenti. Solo pallottole sono state, in assenza d'ogni altro, lo strumento comunicativo adottato da quella pattuglia di giovani e nervosissimi soldati nei confronti degli occupanti di quell'auto, il cui imminente transito era pur stato segnalato ai loro comandi come noleggiata dall'ambasciata italiana e recante a bordo funzionari dei servizi segreti di un Paese alleato.
Non intendo ripetere qui, comunque, cose che sono state dette e ridette in questi giorni sull'assurdità di questo tragico episodio e sulla leggerezza con cui d'abitudine le pattuglie USA sparano a vista, laggiù, anche su civili e amici soltanto perché "non si sa mai...". Anche se proprio in circostanze così fu abbattuto l'aereo di Italo Balbo nel 1940 in Cirenaica. E anche se questa storia in terra iraqena è diventata notizia mondiale unicamente per il «chi è» di quell'uomo ucciso e di quella donna ferita, non condividendo così la sorte anonima di quelle tante altre auto smitragliate quasi quotidianamente avendo per occupanti solo gente del posto. Quel che voglio evidenziare qui adesso, prendendo da ciò occasione è infatti qualcosa di molto ma molto più generale, e che la Sgrena - la quale certo non è un teorico della comunicazione - ha còlto meglio che se lo fosse, condensandolo ora in quella drammatica frase, per esserci stata dentro fino al collo nei suoi anni di reporter dall'Algeria all'Afghanistan e in Mesopotamia da ultimo. Questi nostri tempi sono dominati quasi ossessivamente dalla parola «comunicazione» (se ne riempie la bocca un po' chiunque, in aule solenni oppure in discoteca) come se davvero stessimo tutti comunicando con tutti. Ma su che cosa? Sui contenuti dei milioni di spot dai quali siamo sommersi ogni giorno? Sui fiumi di fotografie che adesso viaggiano per l'etere da cellulare a cellulare? E' davvero questa la comunicazione di cui la nostra più che frastornata società del momento ha bisogno? Non sono ben altre e ben più importanti le cose su cui occorrerebbe più informazione e più scambio?
La guerra, ogni guerra, costituisce sempre, nel flusso interumano di cui la comunità planetaria si alimenta, un fattore interruttivo, sforbiciante. Collassatore di circuiti. E' anche per questo che va odiata, non solo perché ci riporta al bestiale. Non so in quante altre Costituzioni venga usato il così netto termine «ripudio» che luminosamente (anche se evidentemente non abbastanza) campeggia in quella della nostra Repubblica, nei confronti di una tale patologia, sia essa aggressione, sia essa dirimente di controversie fra Stati. Chiudendo così una volta per tutte il famoso e fin troppo osannato libro di quel Niccolò cui certo non va fatto posto come altrettale genius italicus fra Dante, Leonardo e Galileo. In guerra, in ogni guerra, c'è qualcosa che si sostituisce, e non riguardando solo le parti direttamente belligeranti, alla comunicazione. Ed è un qualcosa a due facce: una è il segreto, l'altra la propaganda. Il primo nasconde, la seconda deforma. Insieme aboliscono appunto il communis e invece procurano di scavare divisioni alla fine anche atroci. Il terminare della seconda guerra mondiale non ha portato affatto la pace nel mondo: a parte la «guerra fredda», dopo abbiamo avuto il Vietnam, e le guerre balcaniche degli anni Novanta, abbiamo avuto i tremendi eccidi africani, e poi la Palestina e il Golfo. Vittima in tutte la comunicazione, vincitrice in tutte la disinformazione. E non solo per le popolazioni interessate.
Quella del Vietnam, che avrebbe potuto, con la palesità dei suoi orrori (il napalm, le tante Mai-lay ) insegnare a non più ricaderci, fu invece proprio quella che insegnò a tenere a bada i giornalisti. Fu infatti l'ultima volta che essi furono liberamente in grado di divulgare verità dal fronte, e queste verità costrinsero a sconfitta, prima ed unica volta, la più grande potenza militare mai stata sulla terra. Imparata dagli alti comandi la lezione, questi reporter, questi "inviati speciali", non poterono poi farlo mai più. Anzi, i governi serbo e croato proprio ad esperti di "scienze della comunicazione" d'oltre Atlantico si rivolsero anni dopo entrambi per procurarsi i più sapienti e scafati curatori d'immagine che, mentre loro facevano reciproco scannatoio per acquisire pezzi di Bosnia-Erzegovina, sostituissero la funzione giornalistica presso l'opinione pubblica mondiale. Da quel momento in poi, se riesci ad apprendere in un teatro guerreggiato magari somalo ma implicante occulti interessi occidentali quel che sapere non dovresti, muori (Ilaria Alpi). E non saltando casualmente su una mina come Robert Capa in Indocina, ma per una pistolettata nella testa. No communications, please. Sì, ci sono ancora, e anche troppi, i giornalisti inviati di guerra morti nel mondo per incidenti o "fuoco amico" fortuito, ma sono giornalisti morti mentre non sapevano niente dell'essenziale perché l'accesso alle notizie gli veniva intercettato. Vuoi scrivere? Te lo dico io che cosa: vieni alla conferenza stampa del quartier generale e prendi appunti. Senza farmi domande alle quali non risponderei. Per il resto del tempo non andare in giro, resta in albergo, ché caso mai ti chiamiamo noi. (Ma le granate, come abbiamo costatato, qualche volta entrano anche nelle stanze d'albergo, se vai sul terrazzino con una telecamera che i riflessi del sole possono far scambiare per un bazooka agli occhi di un carrista impaurito).
Attenzione, però: le guerre non si fanno mai soltanto con le portaerei e i carri armati. Ce ne sono - quelle per la conquista e il governo di risorse economiche, dal petrolio anzitutto ai giacimenti minerari pregiati alle piantagioni legate alle catene alimentari - per le quali anche senza uniformi e senza eserciti ogni multinazionale ha il suo comando strategico e i suoi appoggi statuali ed ogni mafia ha i suoi generali e le sue centrali finanziarie. Le loro mappe economico-affaristiche coprono il pianeta dall'America latina al Centroafrica al Medio ed Estremo Oriente passando oggi anche per la Russia da quella di Ièltzin in poi. Esse possono dare mortalità diffusa attraverso un golpe finanziato, ma anche morti singole quando occorre. Ambrosoli? Basta un killer professionista. Mattei? Basta un cacciavite nel motore di un aereo. Magistrati fastidiosi? Cosa ci vuole a fabbricare (sono state inventate in Sicilia, la prima a Ciaculli nel '63, e non adesso dai kamikaze islamici) un'autobomba? Al resto pensano gli staff di "teste d'uovo", i pi-erre, la pubblicità stessa: quanto ci volle di battaglie legali e d'opinione per levar via dalle campagne e dalle case il micidiale DDT che fruttava tanti soldi a spese della nostra salute?
La guerra uccide la comunicazione, dunque, sia quando usa effettivamente la polvere da sparo, sia quando al suo posto appaiano formalmente etichette di "pace". A coprire movimento d'interessi, sopraffazioni economiche, sostituzione di "cartelli" monopolistici alla concorrenza, stupro delle libertà. Guerra anche questa, soltanto meno appariscente perché priva di una colonna sonora di bombardamenti e cannonate. E capace però di un tipo di disastri di genere assolutamente analogo a quelli che mostrano anche il sangue. A parte il fatto che talvolta anche di questi ultimi essi stessi ne possono produrre. Una volta, anni Ottanta, quand'ero vicesegretario nazionale della Federazione della Stampa, il sindacato autonomo di tutti i giornalisti italiani, organizzammo all'Hotel Ergife di Roma un convegno di giornalisti di vari Paesi arabi e di giornalisti di vari Paesi europei. Ed io ebbi il compito, come si dice, di "moderarlo". Con lo scopo, difficilissimo, di riuscire a concluderlo con un documento comune. Perché mai tanta difficoltà? Ma perché mentre i colleghi europei accusavano quelli dell'altro lato del Mediterraneo di integralismi e nazionalismi vari, i colleghi arabi invece rispondevano più o meno come segue. Noi subiamo da parte vostra una continua espropriazione, che va ormai verso i limiti dell'intollerabile. Voi ci espropriate non solo dei nostri interessi, che sono quelli di popoli interi, ma anche della nostra cultura e delle sue radici profonde. Le vostre agenzie di stampa infatti coprono il mondo con le notizie che importano solo a voi, e le nostre, che pure esistono e sono portatrici anch'esse di notizie riferite ad aree vastissime, restano di continuo emarginate, "fuori", non entrano nei vostri circuiti diffondenti informazione; e dunque una gran parte delle verità di un mondo che ci dovrebbe essere comune e consentire confronto, all'opinione pubblica mondiale non riescono a pervenire. Questo dicevano le due parti, e sfòrzati dunque tu di cucire, se sei bravo, un divario così, che pareva ad ogni momento dover diventare scontro.
Eppure c'ero quasi arrivato, alla fine, e non chiedetemi con quanta fatica, a trovare una via d'uscita diplomatica anche se purtroppo rimasta molto astratta, per mettere nero su bianco qualcosa che potesse essere sottoscritto da tutti. Come per esempio la progettualità di una creanda sede istituzionale dove poter proseguire un dialogo che, per acceso si fosse sin dall'inizio rivelato, qualcosa forse avrebbe potuto, mettendoci buona volontà, costruire. Ma proprio l'ultima mattina un giornalista arabo irruppe nel salone sventolando un dispaccio ANSA appena staccato dalla telescrivente. Annunciava l'uccisione del presidente egiziano Sadat da parte di un suo soldato durante una pubblica cerimonia. Egli era ritenuto dalla maggioranza del mondo arabo un traditore, un rinunciatario, un servitore degli americani, e non m'importa se considerarlo così fosse sbagliato o no. Io so soltanto che quasi tutti i giornalisti arabi si misero a ballare, salirono sui tavoli e ordinarono champagne. In un tripudio in cui si mischiavano ragioni d'Islam con ragioni di petrolio, torti subiti e torti da vendicare. Preso dalla disperazione del compito fallito per un tale evento piovuto improvvisamente su quel consesso, il quale non rendeva più recuperabile nulla, raccolsi le mie carte, abbandonai il tavolo della presidenza, andai nella hall, mi feci chiamare un taxi e rinunciando anche a pronunciare la chiusura di un convegno che s'era già chiuso da sé, me ne corsi a casa piangendo di rabbia.
In questi casi - ma è accaduto anche con le foibe e con le Twin Towers - è tanto spontaneamente razionale quanto del tutto vano chiedersi «Chi è che ha cominciato? Chi è che ha reagito?» La spirale include tutti, la comunicazione diventa impossibile, muore. Perché anche ogni germe iniziale pur riconoscibile provoca automatismi di rimozione. Ed è assolutamente incongruo fare politica o rintracciare motivazioni storiche servendosi di Freud. Ci si limita pertanto in genere a trar giudizio solo dagli eventi avvenuti per ultimi. Eppure si dovrebbe averlo, sforzo di capacità di inanellare tutte le maglie che hanno portato a questo. Perché è l'unico barlume di possibilità che potremmo darci per capire davvero, e per davvero tentare con qualche chance il perseguimento che la comunicazione si ristabilisca; e che sia autentica e non artificiale.
E c'è anche un'altra considerazione legata a questo tipo di circostanze ultime che voglio proporre, come finale, perchè ci sono forme di comunicazione che neanche le rappresentanze parlamentari di quello sterminato numero di italiani che sono contro la guerra hanno avuto l'intelligente sapienza di attivare. Si votava al Senato se rifinanziare o no la missione italiana (missione militare ma dichiarata "di pace") in Iraq. La maggioranza governativa ha detto sì, l'opposizione no, anche se una sua parte avrebbe preferito astenersi. Ma se anche l'opposizione avesse - e potrebbe ancora farlo alla Camera - votato sì, però sulla base di una mozione propria che raccogliesse le ferme dichiarazioni delle due Simone rapite e poi liberate prima della Sgrena («Il popolo iraqeno non vuole occupanti, vuole presenze che facciano il lavoro che facevamo noi nel loro interesse, dunque l'Italia ritiri le sue truppe»), dichiarazioni che nonostante il partecipe entusiasmo della gente e la popolarità da queste due donne raggiunta le aveva di colpo fatte espungere dal controllatissimo, dall'alto, medium televisivo, un circuito comunicativo largo non si sarebbe potuto ristabilire invece d'essere macinato fra le incongruenze? Pensate, ecco, se a Palazzo Madama fosse stato dal centrosinistra affermato: «Missione di pace, voi dite? Ok, rifinanziamola allora, e anzi proponiamo di aumentare, e di molto, questo finanziamento; purché per coerenza non si tratti più di contingenti armati ma di una anche quadruplicata nostra presenza lì costituita da strutture della Croce Rossa e basta». Bèh, la maggioranza avrebbe respinto anche questa mozione, certo, però quale forza coinvolgentemente comunicativa, andiamo, avrebbe invece sviluppato un'iniziativa come questa al posto di quell'inamidato «no» secco?
A quel no è stato replicato: «Lo vedete che siete antiamericani? Vergogna!» Bene, a questo proposito non so come la pensino altri, qui, ma io, proprio personalmente, come faccio a potermi considerare antiamericano (e appunto non lo sono) se le recenti elezioni presidenziali USA hanno clamorosamente dimostrato che su 'sta folle guerraccia seminante danni internazionali tremendi intrapresa da Bush ben metà degli americani la pensa proprio come me? E anche questa, su cui non si punta mai abbastanza attenzione,la dò come dimostrazione di come la guerra, alzando altissimi sipari sui backstages, la comunicazione proprio la uccida. Parola di Giuliana e non solo.