Stampa
Categoria: Secolo postmoderno

Quella di oggi è quel che si dice una miscellanea. Non la chiamo antologìa perché non è vasta quanto potrebbe e comunque il livello e la nobiltà degli esempi, anche se tutti interessanti o curiosi, non sono alla fine un granché di primissimo piano. Però Web e media "tradizionali" (dobbiamo una buona volta pur chiamare così persino la tv) hanno offerto negli ultimi tempi tanti di quegli spunti al mio taccuino che qualche pagina di esso ora la debbo smaltire. Comincio da cose semplici e abbastanza sul banale. Il fastidio crescente che dà per esempio sentir dire così spesso «nella giornata odierna», in radio per lo più territoriali, invece di «oggi» (tre parole invece di una); oppure«primo cittadino» invece di «sindaco». Due esempi fra i tantissimi che si potrebbero fare. Certo, sono locuzioni in fondo esatte e comprensibili entrambe, ma cosa vuol comunicare con esse agli ascoltatori il giornalista che le pronuncia? Un modo di esprimersi più forbito ed accrescente status intellettuale? Io spero sempre, comunque, che chi ascolta queste cose non le impari anche lui e magari pensi solo - anche se per fortuna ciò rappresenta tutt'altro - che questo è, più che un tic categoriale, proprio una particolarità professionale distintiva di chi gli parla da un giornale radio. E invece è solo oratorietà, diamine. Che appartiene spesso ai politici, ma che ai giornalisti non dovrebbe.

Questa parola «comunicazione» (parola «magica» la definisce Umberto Eco) ammalia molto, e da quando essa ha a disposizione Internet, se ne individuano contagi da ritenere anche, ma solo fino a un certo punto, bizzarri. La pubblicità infatti non si sa più dove metterla, per ficcarla sotto il naso ai suoi potenziali fruitori. E c'è stata un paio d'anni fa una grossa questione, fra personaggi molto austeri e una municipalizzata gestente gli autobus urbani, per aver messo essa le fiancate di qualche proprio mezzo di trasporto collettivo a disposizione di una coloratissima e scenografica pubblicità di un Casinò pochi km oltre una frontiera a portata, appunto, di bus, perché la gente andasse a giocare con le sue roulettes. E' però recentissimo quello che considero proprio il top (finora) di una messa a disposizione di spazi: c'è in rete l'annuncio, con fotografia, di una bella signora o signorina che, col consenso dei propri famigliari, si offre di ospitare slogan, headlines o questo o quel logo pubblicitario nientemeno che sulla delicata pelle del proprio seno (tatuaggio delebile, si precisa). Niente di scandaloso o impudico, intendiamoci, perché un'altra opportuna precisazione di questo annuncio dichiara che verrebbe utilizzata solo «la parte superiore» della coppia di ghiandole in oggetto, quella cioè che si vede normalmente sporgere pure dal reggipettino di un costume da bagno. Il noleggio di questa parte del corpo è definito a tempo determinato e la tariffa sarebbe quella scaturente dal migliore offerente. Offerte ce ne sono state già, ed è dunque possibile che a breve si possa incontrare a passeggio o nel corso di una soirée una bella scollatura che coi decorati gonfiori consentiti dalla decenza inviti a usare quella certa saponetta o a servirsi dell'autonoleggio Taldeitali. Ad majora.

Passiamo alle ferrovie. Sapete con quanto piacere quella poi non tanto ristretta categoria di designers-pirata metropolitani che si armano notturnamente di una serie di bombolette-spray si dà a decorare con monocromatismi o anche con tripudio di colori fiancate di edifici o, più ghiottamente, quelle di vagoni allineati alll'esterno delle stazioni su binari morti incustoditi. Bene, trovo l'altra settimana su un'agenzia online di notizie sulla comunicazione cui sono abbonato, un take sorprendente. Annuncia un'aggressione di hackers a Trenitalia, la società privata cui le Ferrovie dello Stato han ceduto parte della copertura della rete nazionale. Ed è tanto tempestiva, la notizia, che consente di costatare in video il malfatto, scoperto - è detto - solo quattro ore prima. L'assalto telematico è stato portato da abilissimi ignoti al sito Web di Trenitalia con cui si dànno ai viaggiatori notizie di orari, percorsi e prezzi. E siccome quest'agenzia indicava quale fosse la pagina oggetto dell'attentato, l'ho subito cercata e guardata. Nessuno aveva ancora riparato il danno e ben poco si poteva leggere di quel che c'era scritto prima, perchè vi campeggiava sopra, nel detto caratteristico carattere spray, l'enorme scritta nera: «Only Allah can judge me», che ho subito copiato nel taccuino. Opera solo di qualche bello spirito facente parte dell'audace congrega corsara di quei "padroni della tastiera" dotati di mouse incursore, o addirittura di terroristi islamici? A Trenitalia s'è supposta anche questa seconda possibilità. Rimasta peraltro, ora che quella pagina è stata ripulita, nel mistero. Sia per quanto riguarda gli autori che per quanto riguarda il senso del messaggio, affidato comunque a un circuito comunicativo che, direi proprio, è abbastanza vasto.

Dopo le Ferrovie, il Monopolio Tabacchi. Ma questo gli schiaffi se li dà da solo. Ha cambiato package al suo prodotto più diffuso, le sigarette MS, rendendolo più elegante ed attrattivo con una gamma di tinte corrispondenti a diversi aromi. E per comunicarlo ai fumatori con un bel cartoncino invitante in cui si decantano la «tradizionale qualità» e il «gusto unico» ha scelto, da buon comunicatore ma anche un poco stupidamente contraddittorio, di inserirlo in ciascuna confezione da venti sul cui stesso esterno è scritto, in lugubri caratteri più vistosi della stessa marca «Il fumo uccide» ed altri perentori messaggi sul cancro che esso causa e sul fumo passivo inflitto ai bambini; il più tenue dei quali è rivolto sadicamente alle signore: «Il fumo fa male alla pelle». (Ce n'è anche un altro, nel repertorio europeo, e cioè «Il fumo rende impotenti», ma in Italia non è entrato perché toccherebbe un tabù peraltro fragilissimo dell'orgoglio nazionale). Che dire? Cadono le braccia, credo, sia ai fumatori che ai non fumatori, di fronte a questa incredibile propaganda statale che afferma sia una cosa sia il suo esatto contrario col contemporaneo - e attraverso il medesimo contestuale vettore - "rilanciare" il prodotto e scoraggiare dal farne uso. Non sarebbe solo da buontemponi, a questo punto, e sarebbe anzi cosa serissima, ipotizzare una scritta obbligatoria sui cofani di tutte quelle auto per le quali valanghe di spot invitano a provare l'orgasmo di guidarle. Scritta che semplicemente informi come camminare per un certo numero di ore nel traffico di un qualsiasi centro urbano anche da parte di un astemio da tabacco equivalga, per l'eccesso di gas di scarico derivante dalla motorizzazione, al fumarsi tranquillamente una dozzina di sigarette. Sia tenuto a mente.

Cose di arredo urbano, ora: anche queste costituiscono comunicazione. Dopo la statua in bronzo del triestino onorario James Joyce seduta da anni in una delle prime file del Teatro Miela, in questa città da lui amata ne è comparsa da poco un'altra invece in strada; in pieno centro, zona pedonale. E' fermo lì, ma in atto di camminare, stretto nel suo cappottino, un altro bronzo a figura intera, quella del "suo" poeta, Umberto Saba. Il messaggio culturale e affettivo che quest'opera comunica, là immersa nel viavai, è molto chiaro. Meno chiaro invece quello, neanche goliardico ma proprio vandalico, che sta nell'essere stato lui ripetutamente privato, smozzandogliela dalle labbra, della pipa che questa statua serrava fra i denti. Forse per pentimento, un giorno era stata ritrovata fra l'erbetta di un'aiuola vicina. Ma, riattaccatagli per fusione metallica, poco tempo dopo è stata nuovamente stroncata e stavolta senza che fosse ritrovata più. Nessuno aveva mai visto Saba, da vivo, senza la sua pipetta in bocca. Solo il suo monumento lo rappresenta incongruamente senza. Ministro della Salute Sirchia, lo faccia per piacere un comunicato per dire che non è stato Lei. Anche se con questa brutta cosa è molto facile che Lei indottamente c'entri, dato che pure i cinematografari sono stati pregati di non far vedere più tutte queste sigarettacce in bocca agli attori e alle attrici, nei loro film. Le tette e i culi, per questi censori, sono molto meglio. Ah, la comunicazione.

La comunicazione per immagini va a gonfie vele. Ma anche la parola resiste. Specie quando la parola è essa stessa immagine, non importa se virtuale. Le parole qualche volta si inventano, qualche volta anche resuscitano. E' stato chiamando «velivolo» l'aereoplano che Gabriele D'Annunzio rese affascinante a tanti questo mezzo. E quando Alberto Arbasino tira fuori dal suo cappello a cilindro «smandrappato» riesce a var vedere quanto sia malconcio, deteriorato, e magari lacero e maculato nei vestimenti l'individuo cui tale neo-aggettivo si applica. Walter Chiari basò una sua famosissima macchietta sull'invenzione del «sarchiapone», animale strano e morsicante il quale stava in una valigia che non era prudente aprire in treno. Abbiamo per ora un premier che fa campagna elettorale contro «i comunisti», usando questo termine così si rotea una sciabola contro i babàu, e come se l'Italia ne fosse ancora affollata mentre invece occorre andarli a cercare con lanternino e lente d'ingrandimento e qualche ex è finito anche sotto le sottane sue. Per il partito che egli guida, comunisti sarebbero perfino i magistrati che chiedono o applicano condanne verso uomini pubblici incorsi in appropriazione, corruttela o paramafiosità, quindi è molto lata l'applicazione di questo termine da quella parte. Ma per uno che le ossa se le è fatte nel campo pubblicitario è principio vitale usare l'iperbole e la solleticazione dell'immaginario. Scorteccia il comunista e ci trovi il bolscevico, fa capir lui, cioè il Male e la morte; che anche mangi i bambini resta solo un metaforico sottinteso. Dire e ridire una cosa in televisione in orario di audience, e non importa se essa sia reale, a questo insomma pare si sia ridotto il "far politica".

Perché le parole si riducono molto spesso, e diventando così - inavvertitamente o calcolatamente - altro, al loro suono. Tantissimi anni fa uno mi chiese, a Palermo e non ricordo a che proposito, come si dicesse in triestino «vespasiano», inteso come «latrina». E io risposi a tappo, articolo e sostantivo, «el pisadòr», “s“ dura, come se fosse doppia. E uno che era lì vicino e non sapeva di che cosa stavamo parlando lo equivocò, scambiandolo per assonanza, come il nome di chissà che sontuoso locale notturno e intervenne, fra le nostre risate, calando giù dall'alto questa citazione: «Sì, sì, "El Pisadòr" l'avevo sentito; ce n'era anche uno dove andavo una volta in Spagna, che si chiamava "El Mogadòr"; avevano tutti nomi così, di derivazione arabo-marocchina, quei deliziosi localini». Un esempio di immaginario delle parole anche questo.

Qualche volta invece le parole vivono da sole. Di un loro "tuttodentro" che non tollera accostamenti e non può essere metaforizzato. Se comunichi con quelle c'è qualcosa a cui non le puoi applicare neanche quando lo consentirebbe il loro intimo significato. Perché resta una questione di peculiarità del loro suono. Un finissimo prestidigitatore della parola (vedi «pinzellàcchere») è stato Totò, così come un gran giocoliere di parole, che lui trasforma in gag e tormentoni, è, si sa, Renzo Arbore. Nel suo ultimo show televisivo fa dei gustosi duetti linguistici con Michele Mirabella, presentato come docente di «semeiotica scritta e orale», il quale applica veteroterminologie letterarie a fenomeni o eventi attuali con esiti esilaranti. Un esempio solo. Parlando di certa musica e di ciò che trasmette non solo di formale ma anche di concettuale, garantendosi così autentica nell'ispirazione, usa il vocabolo «mallevadora», gestualmente accompagnato come se sollevasse una forchettata di pasta colante sugo. E provocando con ciò stesso un'ilarità di tipo sottile. Perché anche se davvero s'intende riferirsi a forza garante, un termine così intriso di commercialità e notariato e aulicamente declinato al femminile, con la parola «musica» proprio non ci sta. E lo sottolinea il suo interlocutore con l'ironica affabilità che gli è solita: «Com'è, com'é, la musica? Mal-le-va-do-ra?», facendoglielo sadicamente ripetere in gran stridore semantico. E che concettualmente in fondo ciò fili non basta, con grande evidenza, a consentire l'accostamento. Il contatto comunicativo non consente singulti e la comunicazione in questo caso si stabilisce a un livello diverso: quello dello humour che ha istituito questo paradosso. C'è un altro caso che pesco, ora, di parola/immagine e questo è magari personalissimo e dunque vado a capo.

In quest'inverno ho ricevuto un regalo nel quale mi crogiolo come un gatto nel suo giaciglio tiepido. E' un indumento, un capo di vestiario che da tempo immemorabile avevo sognato di possedere anche se oggi desueto, coccolando con esso il mio immaginario, e che pure nel nome e nella sua gamma di evocanze ostenta unicità inconfondibile di confezione e di design, nonché epocale e romantica. Lo conoscevo da immagini e libri ma non ne avevo ancora mai visti e toccati. Si chiama TABARRO. Il tabarro - che risonante e complice parola - non è un semplice mantello, è qualcosa di diverso e di più. Si porta ancora, ma limitatamente, in Romagna e nella Bassa ferrarese e lombarda. E' qualcosa di antico, di sopravvissuto, ma insieme di stracomodo e di invernalmente molto protettivo. E l'ho in questi mesi sostituito con entusiasmo ai giacconi di pelle ed ai "piumini" imbottiti. Non abbisogna neanche di sciarpa perché ha un colletto alto e rinforzato e poi se ne gira intorno al corpo un lembo avvolgente e rovesciato all'indietro, ben poggiato sulla spalla sinistra. E' un sovrabito che ha origini ed uso contemporaneamente contadini e nobiliari, civili e militari. Sono simili al tabarro, ma nulla di nulla vi hanno a che fare, mantelli con la pellegrina dalle spalle alla vita come quelli dei postiglioni d'un tempo, oppure i pastrani con gli spacchi laterali per le braccia, oppure col cappuccio come nelle zome siciliane di montagna, oppure quelli foderati di scarlatto dell'uniforme di parata degli alti ufficiali dei carabinieri. Ma ho detto "simili", e basta; non c'è paragone.

C'è ancora una sola fabbrica di tabarri in Italia, sta a Venezia e li vende carissimi perché per farne uno ci vuole un sacco di tempo, e scienza artigiana particolarissima; dato che consiste in un gran cerchio perfetto di panno pesante e insieme morbido, assoggettato a cottura per impermeabilizzarlo, e con gli orli tagliati al vivo e privi di impunture. Il mio, risulta dall'etichetta, è l'ottomilacentododicesimo da essa manufatto. Se ne incontra qualcuno indossato con tricorno, baùtta e spada durante il famoso Carnevale di San Marco. Arriva poco sopra le caviglie, aperto solo davanti e allacciato al collo con fermaglio a borchie e catenella. Il mio è nero con una fodera azzurro-cielo carico che quand'è girato con risvolto sulla spalla fa un effetto sciarpa bellissimo. Lo porto con un colbacco di pelo morbido se c'è vento e se no con un feltro nero a tese larghe. «Tabàrro», risentitelo questo suono massiccio di consonanti che le vocali alleggeriscono perché possa anche svolazzare; viene (tabar) dalla Francia del XIII secolo, dove ha avuto epocalmente nascita. E spero molto si ridiffonda, perché in fondo non ha età e non è neanche solo un capo per anziani. Le mani guantate escono facilmente dai due lati creando pieghe fluenti, come nei ponchos, che per giunta sono però chiusi anche davanti, e colorati. Un tabarro può essere al massimo blu-notte o grigio-fumo di carbone. Esiste, insomma, la wear-communication, ci ho già scritto una di queste rubriche una volta. E io cosa comunico, abbigliato così? Bèh, che sono un poco fuori dalle righe, ed è bene saperlo. Sull'altro fronte c'è chi si tinge i capelli di verde o si fa preziosi ghirigori di barba sulle guance con il microrasoio.

Comunicazione con le immagini, comunicazione con i suoni. Comunicazione anche con un look. Concludo con due riferimenti erotici. Rispettivamente riguardanti un grande fotografo artista e una serie televisiva di successo. Edward Weston occupa uno dei posti maggiori, nella storia dell'estetica fotografica. Fu il maestro di Tina Modotti, friulana trapiantata in Messico, un'altra "eccellente" dell'obiettivo e dei nitrati d'argento, famosa sia per la sua intensa illustrazione del mondo dei peones sia per i prorompenti nudi, nitidi ed arcuati, scattatile da lui. Ricordata anche come modella dei murales epici di Diego Rivera e attivista rivoluzionaria. Weston, come del resto tutti i grandi della fotografia, scattava solo in bianco e nero, e una personale valenza del suo stile era di tramettere sensualità non solo quando fissava in immobili stilemi armonici dei corpi di donna (sfogliare un suo libro di immagini fa incontrare molte nude anche per altro verso note). Ma lui poteva fotografare anche un peperone o una conchiglia, l'ha fatto, e i loro lisci rilievi. le loro volumetrie, rimandano - un torso, un insieme di volute e pieghe - a corpi femminili o a loro parti anch'essi. Con una capacità di messaggio che rende comunicanti altro pure questi soggetti immoti, che in origine erano, si dice così, nature morte.

Andiamo alla tv adesso, infine. Il mercato dei DVD è un grande circuito comunicativo, oggi. Bene, sapete quali sono i titoli in testa quest'anno alle classifiche di vendita? Classifiche in cui il primo dei cult d'autore («C'era una volta in America» di Sergio Leone) sta solo al nono posto? Bene, al primo e terzo (ma rasentando il secondo) posto son saldamente collocati rispettivamente due dischi contenenti le puntate del primo e del secondo ciclo di un serial americano che aveva sfondato il video anche da noi: «Sex and City», protagoniste fisse quattro amiche che si raccontano le loro storie di letto e su di esse abbondano di commenti e di scambievoli consigli. Sono dunque messaggi solo parlati, poiché fra essi si cercherebbero invano scene osées, ma anche la parola sa essere altrettanto esplicita. Non ne so abbastanza per essere in grado di dirne in sede di analisi compiuta, di queste storie. Una volta sola infatti vi ero capitato brevemente sopra per zapping e dunque ne ho un solo e minuscolo ricordo, anche se esemplificante in modo forse sufficiente. Che una di loro, rimproverata dalle amiche perché affermante di far sesso solo in silenzio, perdendo dunque così un aspetto importante della socializzazione sessuale col partner del momento, rispondeva più o meno in questo modo: «Mah, io non so inventare frasi di coccolamento o d'esternazione di richieste; l'unica cosa che mi vien da dire è sul piano dell'informazione, ma solo perché è un dato effettivamente vero e in quel momento lì sono molto emozionata, ed è: "Sto venendo, sto venendo"» (in inglese, va notato, «I'm còmin', I'm còmin'», senza tutte quelle “e“, ha una cadenza fonetica più galoppante e profonda). E così, la volta successiva, dato che con lei le amiche hanno, ad una voce, molto altruisticamente insistito, quando è a letto con quel "lui" - ma sono inquadrati solo i visi in primo piano - si percepisce dalle sue smorfie che sta freneticamente strizzandosi il cervello per trovare una cosa da dire e poi punta di colpo gli occhi in giù fuori campo e le esce un fioco «Hehè, ce l'hai bello grosso». Tentativo compassionevole ma effetto di ilarità generale. Ecco, per far capire, si tratta dunque di questo. E, se le statistiche hanno un senso, dobbiamo convincerci che ciò che tira, sul mercato della comunicazione televisiva ed elettronica di massa, sono queste cose qui. E che questa fenomenologìa può anche produrre giusto rabbrividimento, vista sotto le specie di una cultura di massa in avanzata affermazione, ma va studiata prima di essere sic et simpliciter espulsa. Poiché è sicuramente qualcosa di più, cioè pane per i sociologhi, che divertimento superficiale pure esistente.

Miscellanea, avevo detto all'inizio. Bene, ne ho scaricata una dose abbondante e variegata. Credo che dovreste stare anche voi un po' tutti con le antenne fuori ed il taccuino pronto, dato che è questo il mondo, questa la società, nella quale stiamo per adesso nuotando. Le scienze della comunicazione non possono lasciar fuori nulla, nel bene e nel male, di ciò che vien comunicato. Poiché nulla è superfluo e tutto ha un motivo. E si comunica sia con un'opera in dodici tomi e sette appendici sia con un paio di piercing appositamente collocati su di sé.