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Categoria: Secolo postmoderno

«Il mondo è degli sconosciuti» (Sellerio) è un libro di Salvo Licata. O meglio fu Salvo Licata, perché questo ragazzo mai invecchiato dentro è morto sessantatreenne qualche anno fa e quel che esso contiene (miniracconti che sono quasi appunti) è stato raccolto nei suoi cassetti da sua figlia che oggi ietta vuci in palcoscenico anche lei ma che quando l'ho conosciuta io era una bambina chiamata Cocò. Io ho appena finito di leggerlo in una città da Palermo lontanissima, dove adesso di nuovo abito, ma penso sia un libro che tutti i palermitani dovrebbero leggere. Non solo loro, magari, ma tutti loro sì.

E' un libro di narrazioni un po' schizzo felice, un po' favola e un po' radiografia, ma sostanzialmente un atto d'amore verso quella Città Nera che l'autore esplora, luoghi e persone, e in cui si vòltola perché e da lì stesso che lui proviene, anche se lavora ed opera, senz'averla però mai perduta, nella Città Bianca. Poeta e teatrante, drammaturgo e giornalista. Scrittore sempre di cose d'anima, anche quando sembrano così materiali. E nelle quali perfino la buffoneria ricopre dramma. Uno da cui si può dire la scrittura sgorghi luccicante, sia nella passione che nell'ironìa. Così come proprio luccicanti sono anche due inchieste sue pubblicate da «L'Ora» negli anni '60: «I ragazzi di Palermo» e «I miei amici ladri» e in questo stesso libro incluse.

 

Io ero il suo capocronista, allora, e la prima volta che l'avevo visto lui era seduto per terra sul palcoscenico di un teatrino di via Emerico Amari, un po' torvo e un po' smarrito, avendo ruolo in un copione che si chiamava «Non gridare, Giuseppe» e l'avevan scritto due giovani palermitani poi diventati importanti l'uno nel giornalismo e l'altro nella critica d'arte, Roberto Ciuni e Vittorio Fagone. Fu da quella porta - «L'Ora» pubblicò quel testo - che attore ed autore entrarono entrambi al giornale, a fare appunto cronaca e inchieste. Non legò con tutti là dentro, Salvo (era anche un po' scorbutico e la sua lingua non aveva neanche un pelo), ma finì col diventare il capofila di molti seguaci, che erano i cronisti più giovani, i biondini venuti dopo di lui. Esercitava su di loro carisma, e qualcuno si divideva sia a stargli dietro in redazione che ad agire sul piccolo proscenio di una cantina-teatro dove metteva in scena cose sue e suonava la chitarra, accompagnandola con versi anche suoi cantati dalla sua bella voce profonda.

 

Faceva coppia praticamente fissa o quasi con un altro neocronista, che del libro di cui sto parlando si può considerare comprimario, dato che una sua sorta di postfazione ne occupa praticamente un terzo. Essa consiste nella descrizione sia dello sfondo redazionale che di quelli esterni sui quali la loro attività quotidiana prima di cronisti e poi di liberi battitori si svolgeva. Quelli di una Palermo liquida e incrostata, golosa e turpe, orgogliosissima e insanguinata, generosa e inaffidabile, tutta odori (qualcuno era zaffata) e colori (ma anche percorsi da venature livide). E quello di una redazione insieme compatta e sgangherata, audace e intellettualmente miscelata, schierata civilmente ma piena di modi di essere diversi, composta di strati generazionali capaci di molte distinzioni, e dove non mancavano personaggi strani e fuori dalle righe per estrazione, verso mentale e paradigmi.

 

Salvo Licata e Mario Genco, bravi di fiuto e bravi di penna (l'uno lo è ancora ma adesso scrive libri), erano una coppia di cronisti che io ammiravo senza darlo a vedere troppo, perché qualche volta invece mi sgomentavano con le loro uscite spesso bizzarre e col loro fare un po' picaresco. E dovevo talvolta tirargli freno, magari sbagliando, ma più sovente difenderli dalle rimostranze di altri colleghi loro contrattualmente superiori in grado. Una volta annunciarono che sarebbero mancati qualche giorno e presero il volo per passare il 1° maggio a Lisbona. Era il 1974 e il regime salazarista era appena stato incredibilmente abbattuto da un moto rivoluzionario in cui le canne dei fucili non fumavano ma facevano sporgere ciascuna un garofano rosso. Era una rivoluzione-festa e i nostri due tornarono pieni di appunti per pubblicare a quattro mani servizi bellissimi su quell'occasione e quel posto dove nessun loro superiore li aveva mandati.

 

A me facevano un po' l'impressione, anche se è abbastanza stravagante e ingenuo un riferimento così, di coppia alla Cino e Franco dei miei fumetti d'adolescenza, per l'avventurosità, o di Starsky e Hutch del serial televisivo, per la loro scanzonatezza. E per loro ho fatto per un certo tempo una cosa che non è, ritengo, appartenuta mai al repertorio comportamentale di un normale capocronista (è che io non ero molto normale e probabilmente non lo sono neanche ora). Tiratardi com'erano entrambi, la loro puntualità era difficile la mattina presto in redazione e io di quelle due scrivanie ancora non occupate nella grande stanza in cui stavo a capotavola soffrivo spesso abbastanza, nell'imminenza delle prime uscite per servizio. E così scendevo da casa mezz'ora prima per sostare a suonare il claxon sotto le loro finestre e portare al lavoro con me in auto questi due pedoni. Qualche volta dovevo aspettare (si affacciava Mirella per dire: «Salvo sta finendo di bere il caffè e arriva») e una volta che ero fermo sotto casa di Mario poco dopo l'alba, strada deserta, e per un paio di giorni non avevo avuto tempo di farmi la barba, sale uno con la faccia dura e mi si siede accanto in macchina con una mano in tasca e lo sguardo su di me sospettoso. Mario arriva in quella, anche lui non limpido in faccia ed anzi ancora assonnatamente bieco, a metter mano all'altra maniglia e lo sconosciuto emette finalmente voce e mi fa, sibillino: «Chi è?», ammiccando con un cenno del capo. «E' un cronista de "L'Ora" e io sono il capocronista» rispondo. E allora quello si fa confuso in faccia, ridacchia, si qualifica come brigadiere di polizia, saluta, esce e se ne va mentre Mario ed io ridiamo a labbra strette con l'aria che ne esce a sbuffo. Quello zelante di ronda, del resto, faceva il suo mestiere.

 

Quando la radio della polizia su cui eravamo illegalmente sintonizzati gracchiava di colpo nel camerone un messaggio d'allarme, una richiesta di rinforzo, l'annuncio d'aver trovato un morto, io facevo la cosa più svelta: pigliavo dal tavolo le chiavi della mia auto e le lanciavo verso i loro (o anche qualche altro, pedoni erano quella volta tutti). Venivano acchiappate a volo, e via verso la porta. Tutto senza una parola. E' stato così che il mio millecento di allora è durato meno anni del dovuto (certo avevamo anche due auto di servizio e se c'erano ok, ma metti che erano già fuori, o una era andata a prendere o lasciare chissacchì e l'altra a ritirare le rese dal distributore) ma non me ne sono lamentato mai. Era così che bisognava fare.

 

Di Mario ho fra tanti un altro ricordo, che ho divertitamente incluso anche in una teleintervista fattami di recente, oltre a quello - che nel libro lui cita - di un mio bigliettino ghignante su un suo titolo balzano. Non penso neanche più quale fosse l'argomento del diverbio d'un giorno fra noi due, ma la scena era che io avanzavo verso di lui vociando ed agitando dei fogli e lui retrocedeva finchè si trovò con le spalle appoggiate ad un armadio a muro che faceva da parete alla stanza. E di colpo si girò, aprì l'armadio e vi si chiuse dentro mentre io restavo lì a sbraitare davanti a quello strato di legno come un salame, fra le risate dei colleghi che finirono col trascinare a riso pure me. Fu lui ad appiccicarmi il nomignolo di Fidorìk. Béh, «L'Ora» era pure questo, andiamo, oltre che quel giornale investigatore e guerriero e d'alta nobiltà professionale, e sempre spasmodicamente attento alle viscere della politica ma, quando occorreva, anche al rosa, che in quel periodo costantemente fu.

 

Sono stato spettatore di platea di tutte le cose palermitanissime che Salvo portava in palcoscenico da autore e regista (almeno un paio dei suoi primi giovani sodali di scena sono poi diventati affermati attori di cinema) ma è suo allievo anche uno dei maggiori inviati su cose siciliane di una grande testata nazionale. L'ultima volta che l'avevo incontrato era stato nelle more di un convegno dov'era venuto a cercare qualcuno e abbiamo parlato quasi per nulla di un passato che lui non amava ricordare (il suo esodo da «L'Ora» non era stato felice, quando avvenne, viziato come fu anche da forme di ingrata incomprensione, da lui restituite). Abbiamo parlato solo di problemi di salute, quella del suo molto cresciuto corpaccione e di un trapianto di cuore prescrittogli come necessario ma da lui istintivamente rifiutato nell'intimo. Nel giorno, quando poi fu, del suo funerale io ero stato molto riluttante a traversare la troppa emozione di pronunciare «il discorso», come chiestomi da quello che fu direttore di noi due e di tutti gli altri colleghi presenti, ma per fortuna era un giorno di tal vento rumorosamente squassante gli alberi, in quel cimitero così inclinato sul mare, che l'impresa diventava proprio acusticamente impossibile. La generale e fraterna emozione del commiato si toccava con mano lo stesso.

Non è da tutti i giornalisti essere così comunicatori di sensazioni, non solo di notizie. E dunque va letto, insisto, e riletto anche, questo libro dove Salvo, ma anche Mario, riescono a fissare e tirar fuori (l'osso d'ogni realtà, facciamoci attenzione, è costituito sempre anche da tutto un impasto di cose apparentemente minori) tutte queste palpitanti fisionomie di una immutabile Palermo che c'è ancora, e di un giornale che non c'è più.