Non è, insomma, che una conferma. Il ritorno così alla grande di Arbore in televisione, e con un risultato monstre sia di share che in cifra assoluta di spettatori (notturni, per giunta) rappresenta proprio una gran lezione per tutti i banalizzatori pasticcioni di intrattenimento e show che affollano le "prime serate" di Rai e Mediaset.
Vogliamo affermare, infatti e una volta per tutte, cosa è fare televisione? Fare televisione (stiamo parlando naturalmente di spettacolo televisivo) è stabilire un contatto a distanza immagini-parole-suoni con i requisiti dell'estemporaneità. E in uno spazio d'ampiezza esplorabile da più telecamere e magari, come nella fattispecie, anche pluriambientato. Se no è cinema, oppure teatro, oppure informazione. Teletramessi fin che si vuole ma accessibili a fruizione anche con media diversi. Occorre cioè che siano cancellati i copioni e che si ritorni ai canovacci della Commedia dell'Arte, maschere - se serve - comprese. Con in più, naturalmente, le risorse odierne della tecnologìa. Solo in questo modo permangono tutte le impressioni della "diretta" anche quando diretta in realtà non è. Perché è chiaro che una diretta da mezzanotte alle tre non è proprio fattibile (vogliamo solo fare il calcolo delle paghe in straordinario notturno di un battaglione di tecnici e specialisti?) e che dev'essere registrata prima. Ma in questo caso è proprio l'estemporaneità di chi vi agisce a stabilire il connotato essenziale della diretta. E' cosa ormai notoria che Arbore non fa prove e assume o affida solo temi su cui poi giocare improvvisando. Jouer in francese, to play in inglese, spielen in tedesco vogliono contemporaneamente dire anche «recitare». E' un improvvido peccato che questa coincidenza, essendo essa basilarmente significativa, non sia posseduta pure dalla lingua italiana.
E poi c'è un elemento aggiunto a questo recitare ludico - o, meglio che aggiunto, integrato - in Arbore, di cui gli altri programmi nostrani di spettacolo televisivo non includono genoma, o non sanno usarlo così: la musica. E intendo proprio musica, non canzoni, anche se pure lui le canzoni non le disdegna, e anzi gli piace pure scriverle e dar loro suono strumentale e la propria voce. Perché gli altri ospitano magari a josa grandi cantanti (e se femmine preferibilmente di cattivanti decolletées), mentre lui, che è anche un grande fiutatore di talenti, porta in studio novità: band di strada o giovani cantautari con una marcia in più, cioè anche capaci di costituirsi come satireggianti fac-simile di tabù famosi; ed eccezionali brani da lui stesso repertoriati o di grande epocalità ma sconosciuti al nostro pubblico di oggi. Che dire di quest'eccezionsle Ray Charles che in uno strapieno Madison Square Garden arrangia al piano «'O sole mio» per l'Orchestra Italiana di Arbore stesso, accompagnato (lui!) da tre mandolini? O dello straordinario velocissimo boogie-woogie, un afrodisiaco per i timpani, acrobaticamente danzato da un gruppo di abilissime coppie forsennate in «Helzapoppin'»? Un bianco-e-nero girato da Henry Potter nel 1941 che fu il prototipo rimasto lo stesso inimitabile dei film "demenziali" trovanti poi culmine, decenni dopo, nei Blue Brothers. E senza la fulminante ispirazione del quale, lo confessa Arbore stesso, mai sarebbe riuscito a movimentare rivoluzionariamente la radiofonìa nazionale con le cose che mise in onda quarant'anni fa e poi tanto a lungo e sotto differenti sigle con Gianni Boncompagni.
E' tutto, e anche molto scopertamente, autoreferenziale, questo «Speciale per me» che andrà in onda ogni sabato sera. Ma è talmente garbato nell'esporsi, l'autore-protagonista, che non se ne fa assolutamente rimproverare. Adora la radio al punto che riesce a portare in scena la canuta ma ancora vispa figlia di Marconi Elettra (e il figlio di questa, Gugliemo anche lui) che gli si dichiara sua gioiosa fan da sempre. E ce la fa a rimettere in ballo anche la propria stessa vita privata duettando - conversazione e musica - con la sua antica compagna Mariangela Melato, sia dal vivo che in brillantissimi brani di filmati (e lei, a sua volta in gamba e sempre sulla breccia come non avesse età, si mette al microfono e canta sommessamente per lui una canzone, «Sola me ne vo per la città / pensando a te, cercando te, perduto amor...» proprio da intensa testimonial di un periodo relativamente lontano ma che nessuno dei due si sente di dimenticare).
Sono state tre ore gremite di gag, nonsense e tormentoni come ne sa inventare solo lui (al conduttore che lo supplisce: «Allora, ci diamo del tu, del lei, del voi o del noi?»), mettendo in scena suoi antichi collaboratori poi negli anni lanciatisi in altri programmi come l'ingrassatella Marisa Laurito attrezzata per cucinare spaghetti con le vongole che distribuisce a tutti, o Michele Mirabella travestito da un proprio ipotetico fratello che non lo sopporta e parla sempre male di lui, ossìa di se stesso. Non sto facendo una recensione, badate, sto solo descrivendo un fenomeno, quello dell'intelligenza che si mischia al divertimento. Ce n'è altre, sì, da noi in televisione, risorse capaci di performances personali così catturanti (Sabina Guzzanti, persino Fiorello; eppure la prima non la vogliono più perché giustamente troppo cattiva col duo Berlusconi-D'Alema), ma si tratta appunto di personalità singole, che vanno in scena da sole, anche se capaci di tenere tre ore pure loro. Arbore invece è il conduttore di un circo, il regista di un'équipe di gustosissimi squinternati, l'anima di un collettivo di cecchini dei giochi di parole (stavo per digitare, in corsivo, calembours, ma chi lo conosce più questo termine così nel sangue di una scuola di umoristi italiani come Giovanni Mosca, Carletto Manzoni, Marcello Marchesi?). E non sovrasta la sua squadra ma vi sta immerso continuamente dentro fino al collo e dando spazio a tutti, come si addice ad ogni buon condottiero.
Che bello se la RAI ricominciasse ad imparare da qui qualcosa, che bello se gli spettatori reimparassero a saper scegliere. Siamo sommersi diuturnamente da tanta di quella non-televisione vogliosa di intrattenerci, e per giunta troppo spesso stupida e pertanto in molti modi dannosa, che sprazzi di speranza come quelli smossi da questo "ritorno" direi che ce li meritiamo proprio. Non mi viene neanche di chiedere scusa per questo mio entusiasmo perché lo affermo contemporaneamente come un diritto. Vogliamo comunicare o no, al livello giusto? Vedete, quando diciamo cult, che non è neanche più neologismo, intendiamo cucire qualcosa che sia culturale e popolare insieme. Sarà popolare «L'Isola dei Famosi», ma non riesco a capire cosa possa insegnare al di là (peggio per chi ne ha bisogno) d'un pacchetto di imbecillità. Arbore insegna gusto e humour, e fornisce contemporaneamente a chi ne è stato dalla vigente macchina spettacolare deprivato un benefico know-how retrospettivo di un mondo d'artisti che, non è diminuente dirlo, ci sapevano fare. Così almeno siamo in grado di porci dei confronti. Gliela diamo allora, questa laurea honoris causa, a uno che per ragioni musicali - e non si dica che lì non se ne intendono - è già cittadino onorario di New Orléans con tanto di diploma ufficiale?