Fatta eccezione, direi, per Stanley Kubrick («Spartacus», «Barry Lyndon»), il quale è però, ahinoi, scomparso, è meglio che i registi americani girino alla larga dal proporsi di metter mano ad ambientazioni filmiche di loro conio nell'Europa dei secoli addietro. E' che ogni tanto, magari non troppo di rado, mi ricordo di avere iniziato, tantissimi anni fa, questo mestiere facendo il critico cinematografico, e allora anche in questa rubrica mi capita di inserire delle osservazioni riguardanti tecniche, linguaggio e sostanza relative a un film che ho appena visto. Anche il cinema è un medium di massa.
Stavolta è toccato ad «Aleksander» di Oliver Stone, un autore che finora non m'aveva deluso mai, né col film-inchiesta, vado citando, sull'assassinio di John Kennedy nè con quello sulla cruda macelleria della spietata guerra asiatica in cui s'affrontarono marines e vietcong finchè i primi dovettero tornarsene a casa sconfitti («JFK» e «Platoon»). I cineasti americani, così bravi nel western, che affonda radici nell'epopea di nascita della loro nazione, sanno brillantemente esportare oltreoceano quello stile in chiave d'avventura anche quando i loro eroi di celluloide vestono la corazza di Ivanhoe o imbracciano l'arco di Robin Hood. Ma quello è un leggero misurarsi con leggende, mentre questo ambiva ad essere un solido film storico e non soltanto un kolossal spettacolare. Mancando comunque - se non per una diecina di minuti su tre ore: la cromaticamente e sfocatamente allucinata battaglia con gli elefanti - anche quest'ultimo obiettivo detto.
Il primo sobbalzo sulla poltrona l'ho fatto quando Aristotele spiega al giovane Alessandro - non ancora Magno ed affidatogli dal re suo padre perché provasse a maturargli la mente - un po' di geografia. C'è una grande mappa (non cartacea, è ovvio, ma musivamente composta come un pavimento) che include un mare circondato da Grecia, Persia, Egitto e in cui si insinua quello stivale terragno che adesso abitiamo noi. Ci sono i nomi, scritti su quelle aree, pure essi a mosaico, e Aristotele li mostra all'allievo con la sua bacchetta. Sono sì in caratteri alfabetici greci, ma - e questo è incredibile in modo addirittura agghiacciante - in lingua inglese!!!
Com'è possibile che tu non sobbalzi, insomma, quando davanti ai tuoi occhi il Mediterraneo ti si spara chiamato «Middle Sea» in quel contesto lì? Si può dirlo, in un film in cui gli attori parlano giustamente inglese ad un pubblico anglofono. Ma mostrarlo scritto così, sberleffando di fatto quegli stessi caratteri greci antichi, e da chi? Da un artigiano macèdone ovviamente, vissuto 400 anni prima di Cristo... Quando cioè i Britanni, lassù in quella loro isola sconosciuta alle civiltà del momento, profferivano ancora tra foreste e brughiere chissà quali linguaggi solo orali perché gli mancava circa un secolo per inventare i primi segni di quello che sarà poi l'alfabeto loro, il runico. Questa non è solo mancanza di cultura: è, desolantemente, pure mancanza di intelligenza. Non ho idea di come Stone ci possa essere incorso e mi piacerebbe molto pensare sia stata tutta colpa dei suoi sceneggiatori e dei suoi scenografi, e che magari lui stesso si fosse incazzato scoprendolo a cose fatte e ormai irreparabili. E rassegnandosi poi supponibilmente al più che verosimile fatto che tanto, in America, di questa madornalità non si sarebbe accorto nessuno. Solo che essendo un film da esportazione, adesso è arrivato anche qui.
Tralascio tutto il resto di quest'opera così inconsapevole del proprio oggetto (personaggi e situazioni) e tanto infelice persino nella scelta della protagonista femminile, un'Angioline Jolie così fuori dai panni che a lei toccano; e talvolta fino al ridicolo, con tutti questi serpenti di cui si incollana di continuo... Quel che principalmente in questa sede mi interessa infatti, come è logico sia, è l'aspetto della comunicazione. L'aspetto cioè del rapporto fra chi emette segnali e chi li recepisce. La natura insomma dei codici nei quali un messaggio viene espresso. Nessun serio regista europeo potrebbe dare per ignorato o irrilevante il dover collocare ciò che mostra nei suoi contesti epocali. E questo scivolone di cui stiamo parlando può trovar riscontro solo nella famosa gaffe anni Trenta del mussoliniano «Scipione l'Africano» in cui uno dei legionari mostra sullo scenario della battaglia di Zama di avere un orologio al polso. Però, andiamo, lì si trattava solo di una comparsa distratta e di un operatore disattento all'escluderla dall'inquadratura. Anche se ne rise, allora, tutta l'Italia.
Il fatto è che, unica fra le grandi nazioni del teatro mondiale asssieme al Canada e alle altre figlie dell'ex Commonwealth inglese, che però non hanno vivaddìo le sue pretese, gli Stati Uniti hanno alle loro spalle solo duecento circa anni di storia, e non uno zaino plurimillenario. I monumenti più antichi di questa loro storia sono quelli costruiti in tronchi d'albero dai primi coloni per abitarli. Essendo state nomadi le autoctone popolazioni pellerossa che li avevano preceduti e che sono state da loro sterminate, non annoverano nel loro passato neanche le splendide monumentalità lasciate dagli Aztechi e dai Maya ai messicani, e ai peruviani dagli Incas: se c'è un monumento nazionale d'epoca è Fort Alamo, Texas, ma lo costruirono gli spagnoli. E devo dire che sto adesso sottolineando questo soprattutto per un'altra ragione, che non c'entra a questo punto più con il macèdone Alessandro, il quale pure lui ebbe peraltro reggia a Babilonia. L'antica favolosa città di cui sto per parlare.
Sono di questi giorni le notizie di una sollevazione mondiale di archeologhi che al governo degli Stati Uniti chiedono conto, con spiegazioni e ogni tipo di risarcimento possibile, per qualcosa di non riparabile compiuto dai loro organismi militari in Iraq, lungo quelle rive dell'Eufrate dove appunto un tempo Babilonia sorgeva. Le sue residue rovine, intese come patrimonio dell'intera umanità, hanno subìto ampio, distruttivo e irrecuperabile oltraggio da ruspe e bulldozer per costruire proprio lì una base di reparti corazzati dell'esercito occupante. Cosa che si aggiunge al bombardamento e conseguente devastazione e saccheggio del preziosissimo Museo di Baghdad. Anche i turisti americani si portano a casa fotografie del Partenone e del Colosseo scattate con loro davanti in canotta e bermuda, ma non passa loro in assoluto per la mente che è non molto più in là, e cioè in quella Mesopotamia oggi immersa nel sangue per ragioni di una risorsa del sottosuolo agli Assiri sconosciuta, e cioè il petrolio, che proprio la civiltà occidentale ebbe prima vita. Espandendosi poi verso l'Egitto e l'Ellade e da lì passando a Roma per oltrepassare, ma dopo tantissimo altro tempo, infine anche le Alpi. La civiltà che appunto inventò la scrittura e di cui siamo figli tutti. Pure il melting-pot etnico che forma il popolo Usa - anche se ormai giustamente frammisto ai discendenti degli schiavi neri rapiti a suo tempo dalle coste africane perché costituissero mano d'opera gratuita - ne fa dunque in qualche modo parte. Solo che non la "sente", perché sono i miti della sua sette/ottocentesca Frontiera che gli dànno Penati i quali sono, in fondo alternativi. E accantonanti gli altri.
Che peccato il presidente Bush pensi (e dica) che l'Europa è «vecchia», e che il turno egemonico tocca adesso a loro in termini di economia e cultura. Ma quale cultura? La noncuranza per il passato produce anche noncuranza per il resto del mondo e per gli altri che sono uomini. In fondo, quel «Middle Sea» inserito in un film simboleggia, come vedete, tante altre cose. E ad esse riconduce.