Molti film sono tratti da fumetti famosi. Ma non li rispecchiano perché i loro autori sono altri da chi li aveva disegnati e si limitano a esaltare cinematograficamente, e spesso deformandone per ragioni spettacolari i contesti, il loro personaggio (vedi Superman, Batman, Spiderman). Oppure perché si tratta di un cartone animato e i suoi disegnatori possono al massimo imitare lo stile dell'autore originario, lasciando evidente la differenza (ce n'è uno su Corto Maltese, ma senza la matita di Hugo Pratt; inammissibile). Eccoci però in questi giorni di fronte a una novità straordinaria, di produzione francese. Si chiama «Gli immortali». Dietro a questo film un grande fumetto di circa vent'anni fa, di un grande disegnatore come lo slavo Enki Bilal, ma il particolare che segna entusiasmante eccezione è che il regista del film è Enki Bilal stesso e che il suo tratto, le sue invenzioni scenografiche, le sue atmosfere, l'espressione dei suoi personaggi, sono proprio quelle, le sue, come sua è la storia fedelmente riprodotta. E fra i protagonisti, non tutti umani, c'è - anche lei “bilalizzata“ - una meravigliosa Charlotte Rampling.
Siamo in una New York come le tecnologìe velocemente procedenti potrebbero averla trasformata fra un certo numero di decenni, crescendole addosso e muovendo fra i suoi grattacieli macchine e congegni in parte già ammaccati e con segni di ruggine. Le persone vivono più a lungo in quanto più "riparabili" (molte hanno in viso inserti dermatici o d'altri materiali), vi sono pure mischiati un po' di mutanti. E, soprattutto, incombono, se vogliono invisibili, e immedesimabili nell'essere umano che scegliessero, loro: gli immortali appunto. Cioè i corpi nudi e possenti, con le teste di falco, di gatto e di sciacallo delle divinità dell'antico Egitto, Horus, Osiris, Anubi. I quali abitano una gigantesca piramide levitante nel cielo della città; dove, impassibili e determinando conseguenze, giocano a Monopoli. Quanto basta per una sarabanda di situazioni limpide e cupe insieme, ed una dose ibridata di immagini, da tenere avvinto lo spettatore di sorpresa in sorpresa.
Che non consistono solo nello svolgersi della storia, ma nel come essa è realizzata. Si passa cioè dal realismo cinematografico degli ambienti e dei personaggi in carne ed ossa, al muoversi fra loro di personaggi virtuali frutto di mobile design elettronico. In realtà dei cartoons, ma non più piattamente campìti bensì tridimensionali, del tipo «Schreck» o «The Monsters», che restano esseri corporeamente umani e con umani vestimenti e però consentono insieme l'essere un po' caricaturati (un paio di mostri comunque ci sono). E qualche volta il passaggio dal naturale al virtuale è sul momento impercettibile e te ne accorgi solo dopo. E tuttavia non è un'opera comica, è anzi essenzialmente drammatica. E simbolica. Si concede, qua è là, solo qualche graffietto ironico.
Non intendo comunque raccontarne niente, anche se è invidiabile che un disegnatore sia stato capace di impugnare una macchina da presa e riprodurre esattamente il suo lavoro grafico in altro linguaggio, che ne mantiene perfettamente lo stile ma lo scioglie e lo smobilizza in fotogrammi, traformando il precedente fumetto in un semplice ma completissimo story-board. Ciò che intendo evidenziare è assolutamente altro. Ed è che il cinema sta imboccando una svolta ulteriore: quella che mixa procedure. L'avevamo sì già visto, e da molto tempo, miscelare riprese reali e cartoni animati. Basti ricordare il vecchio «Mary Poppins», dove però si alternavano. E poi anche farli interagire con le persone vere («Chi ha incastrato Roger Rabbit?»). E infine tridimensionare il disegno con sfumature cromatiche e chiaroscuri ammorbidenti e scolpenti, trattando le figure non più come disegni ma come veri e propri oggetti in rilievo. Prima si poteva solo con i film di pupazzi.
Il nuovo che si fa avanti adesso, buttafuori Enki Bilal, è di genere tutto diverso. Quando le scene e gli ambienti possono essere natura, o costruzioni realizzate in studio, o traduzione digitale di disegni, e indistinguibilente mescolate. Quando i personaggi possono essere impersonati da attori veri o da entità virtuali sorgenti da tastiera con connotati di similrealtà praticamente perfetti e possono con naturalezza interframmettersi. Quando tuttociò diventa realtà fattibile e senza che lasci più incrinature o sbavi, il cinema come fin qui conosciuto cambia tutto perché diventa un medium che concede all'artista più libertà di quanta ne abbia mai posseduta per far vedere ciò che ha immaginato. E anche rispetto ai cosiddetti “effetti speciali“.
Non ci saranno più film con attori e locations affidate a scenografi ed architetti come da sempre? Non ci saranno più cartoni animati che sian tali dall'inizio alla fine? Ma sì che ci saranno, andiamo, e saranno anche sempre i più numerosi. Ma accanto ad essi si collocheranno anche prodotti di new art come questo, che richiederà doti creative prima forse pensate ma non potute attuare. E che solo da che esiste il digitale sono realizzabili, e anche a costo più basso di un kolossal alla De Mille (il quale per raddoppiare numericamente una carica di pellerossa senza spendere il doppio per le comparse aveva dovuto escogitare un maxispecchio duplicante) e persino con minori problemi di traduzione della fantasia in prodotto finito.
Com'è lontana la luna di cartapesta su cui sbarcavano gli attori muti di Georges Méliès...