E va bene, occorre arrendersi: nessuno più dice, parla, espone, esprime, notifica, mostra; tutti solo ed esclusivamente comunicano (o presumono di farlo). E' la parola epocale, il sostantivo re, il verbo più corrente, e non gliene frega proprio quasi a nessuno se così è andato negligentemente perso il suo significato concettuale e fondante (vedi il numero della settimana scorsa di questa rubrica) ed è diventato perlopiù onanistico blablà, pingpong delle orecchie, reticolato di ripetitività incrociate, poltiglia di omologanti banalità. Nei cellulari, nelle chat-lines, sulle spiagge e al bar? Magari fosse solo lì, ma è molto più largo l'orizzonte cui mi riferisco, dato che ci son dentro, con la medesima acquisita presunzione, sia la politica (pressocché per intero) che la televisione (quasi tutta). E se a medio livello il pericolo è solo quello di un diffuso incretinimento che perde di vista quali sono le cose davvero determinanti della nostra vita, a livello di mass-media e di ambienti che gestiscono potere si creano correnti trasportanti e valichi d'ingresso verso strati sociali e strati anagrafici perché recepiscano come fosse comunicazione ciò che invece è solo tampinamento.

In quest'agosto vacanziero penso che una temporaneamente indotta maggior leggerezza anche di stile scrittorio possa consentire pure accenni privi d'ufficialità al fatto che da qualche responsabilità degenerativa in materia non sia esente del tutto neppure l'Università, cioè un'istituzione squisitamente deputata ad essere garante scientifica di tutto quel che tocca. Proviamo dunque ad esplorare cautamente il terreno alla ricerca delle ragioni connotanti di questo dilagante deterioramento qualitativo dei messaggi un po' in ogni campo (rimando sempre a «Secolo Postmoderno» n° 120, di cui questa 121 è la continuazione).

E cominciamo da qui: la Comunicazione è una scienza? No. E' ben altra cosa: è un istinto individuale. Non è una scienza come non lo è l'Informazione, non lo è il Consumo, non lo è il Benessere, non lo è la Giustizia, non lo è la Libertà (potremmo continuare). Quelli che ho indicato sono dei concetti, o dei dati, o dei valori; in altre parole: delle categorie della mente. Da cui possono provenire, beninteso, e venire ispirati, degli stati di società, o di pezzi di società, anche variamente organizzabili. Quando noi però usiamo l'espressione «Scienze della Comunicazione», allora sì che ci siamo. Perché si tratta in questo caso proprio di strumenti di sapere convergenti su qualcosa e sul com'essa è utilizzata ed utilizzabile, ed essi di necessità escono da genericismi filosofici, morali ed artistici e riguardano specificamente invece àmbiti, funzioni, modalità e scopi settorialmente concreti; e specifici supporti mediatici, quindi tecnologìe, e anche psicologìa e diritto. Non c'è ormai praticamente Ateneo italiano privo di un corso di laurea in Scienze della Comunicazione, o che non se ne stia dotando. Ma la suggestione del termine «Comunicazione» (Umberto Eco definisce, ahi ahi, «magica» questa parola) finisce col pervenire a conseguenze a doppio taglio.

Perché tanta è la forza espansiva in breve tempo attribuita a questo investimento culturale che «Scienze della Comunicazione» diventa presto da corso di laurea classe di lauree, e brulica subito di corsi di laurea suoi figli. Esempi: Comunicazione Sociale, Comunicazione Pubblica, Comunicazione Istituzionale, Comunicazione Internazionale, Comunicazione d'Impresa, Comunicazione Multimediale, persino Discipline della Comunicazione (che vuol dire tutto e niente). Ciascuno dei quali figlia a sua volta singole materie che formano poi lussureggiante intreccio con quelle sociologiche (Sociologìa della Comunicazione è il punto intersettivo). All'Università di Trieste dall'anno scorso mi è stato attribuito l'insegnamento di Teoria e Tecniche della Comunicazione di Massa, che è il contenitore più vasto di tutti in quest'area, il quale mi consente di inserire quegli elementi di Storia della Comunicazione che a sua volta potrebbe essere materia a sè - ma non c'è, ed è ahimé significativo, da quasi nessuna parte - molto più utile di tutta questa frammentazione così ricca di sostanziali doppioni nei rispettivi piani di studi spesso appena appena differenziati fra loro. Vediamo allora qual è il "doppio taglio" di cui parlavo più su.

Tutto questo sostanzialmente studiare know-how mediatico, sia interpersonale che di strutture, non è mica un male, intendiamoci, in questo mondo sempre più rimpicciolito dalla globalizzazione economica e dai new media; anzi. Il punto è quello della chiave in cui lo si fa, delle prospettive che gli si dànno. Il sempre maggiore numero di studenti che si iscrive a questo tipo di lauree non è tanto interessato dai meccanismi comunicativi a livello di fenomeno individuale o sociale quanto dal voler essi stessi imparare come si lanciano i messaggi e come ci si colloca lavorativamente in quest'area. Più di tre quarti di essi (nel mio corso di quest'anno ce n'erano 232) infatti vorrebbe diventare giornalista o inserirsirsi nel mondo delle relazioni pubbliche ovvero tout court della pubblicità; o lavorare nel Web. Ed è qui che si crea il dato di confusione, perché il giornalista non lancia messaggi personali ma dispensa informazione, non deve persuadere nessuno ma solo mantenerlo oggettivamente aggiornato e rivelargli cose che non sa e che è bene sappia. E perché, al contrario, istituzioni e imprese intendono la comunicazione - e l'informazione che vi è contenuta - come supporto dei loro indirizzi e dei loro progetti e vorrebbero più frequentati gli scaffali dei manuali e meno quelli della saggistica, la quale non sempre (e giustamente) li tratta troppo bene. Loro sì che pensano in termini di «messaggio». Tutto può essere messaggio, no?, sia le news che la pubblicità, i messaggi possono essere sia conoscitivi che persuasivi, sia logici che emotivi, ma insomma non è che lanciare un messaggio, sia pure a regola d'arte, sia di per se stesso comunicare e del resto - nonostante essa si stia per ora sobbarcando magari anche di questo - non credo proprio che per imparare a redigere un comunicato-stampa o una rassegna-stampa occorra addirittura l'Università.

Il senso delle parole cambia e si sposta, anche se i concetti per fortuna restano; quella stessa pratica, per esempio, che oggi e non si sa ancora per quanto chiamiamo «masterizzazione» un tempo non molto fa, quando i dischi erano di pasta nera indurita e abbisognavano d'una puntina e un piatto girevole, si chiamava «fonotipìa» (e infatti nix ancora immagini). Allo stesso modo, ciò che sino a di recente universitariamente si chiamava «quadro degli insegnamenti» oggi si chiama «offerta didattica»: fateci attentamente caso e non potrete non percepire - il lessico è sempre rivelatore infallibile - di quanto sia cambiato lo spirito, l'indirizzo, l'ottica mentale, il senso del ruolo di un'Universitas Studiorum anch'essa ormai convertita alle Leggi del Mercato (come suona simile oggi dire «3 + 2» alla Zecchino o «3 x 2» alla Supermarket...). Una volta bastava dire «comunicazione» e ne era chiara la bidirezionalità ma ora lo specifico termine usato negli uffici di relazione è «contatto»: sostituito stavolta insieme alla parola pure il concetto, e sempre tuttavia allo stesso modo applicata. Si tratta però di un'altra cosa, cavolo! Mica immorale, mica illegale, mica furba e basta, ma ad ogni modo assolutamente un'altra cosa. Comunicazione è scambio, contatto si può avere anche solo con una siringa. Passo la vita a parlare di queste cose con i miei studenti, ad analizzare le loro rispettive vocazioni nel tentativo di farle coincidere il più possibile con l'interesse sociale e l'effettiva strutturazione e modo di funzionare dei meccanismi professionali nei quali perseguono il proprio inserimento. Do' loro stimoli, ne spengo parecchie illusioni, ne ricevo, anche, gratificazione, ma scopro insieme sempre più quale grosso equivoco sia quel che alimenta 'sta presente, universalizzata, Big Communication. Si tratti di violino, piffero o tamburo.

Comunicazione è ormai tutto - torno al concetto da cui ero partito e al titolo stesso di questa rubrica - e può essere correntemente etichettata come C. Visuale, C. Persuasiva, C. Pedagogica, C. Ludica, C. Sanitaria, C. Economica, C. Politica, il cesto da cui poter continuare a estrarre aggettivi è di dimensioni spaventosamente grandi. Ma attenzione: cambia, e diventa strumentale, il modo di usare la parola, non il suo concetto, che è immutabile. Non fa comunicazione una sbandierata conferenza stampa, neanche con illustri presenze incravattate a pallini, neanche con hostesses, dépliants e rinfreschino. Fanno comunicazione, se proprio volete aver conferma di cosa comunicazione sia, con sacrosanta bidirezionalità e non per una generazione sola, Simon, Garfunkel ed i seicentomila che erano l'altra sera ai Fori Imperiali di Roma insieme a loro. E quando non è così cambiamole nome, per piacere. Andrebbe meglio Rapporti. Più gelido, ma più pertinente.