Nell'esplosione di carta stampata ad emozionata memoria che ci ha avviluppati tutti sabato 3 luglio 2004 per monumentare con pagine e pagine la morte di un grande invasore d'anime della seconda metà del ventesimo secolo, sono fioccati gli abbinamenti con chi ne poteva essere, per un verso o per l'altro, e beninteso in modo del tutto incompleto, l'affine o l'erede: l'anziano Robert De Niro, il giovane Johnny Depp... Ma forse chi gli abbinamenti giusti l'han meglio intuiti sono stati Roberto e Silvana Silvestri su «Il Manifesto». Con queste rispettive annotazioni: le due icone che hanno spazzato via per sempre dagli schermi il divismo puritano, mischiando drammaticamente entrambe cinema e vita, sono state lui e Marylin Monroe; la causa di riscatto razziale e di risarcimento storico che lui aveva sposata da testardo e provocatorio combattente, quella per gli indiani d'America, si prolunga ancora perché sono gli arabi mussulmani di Palestina e altrove i pellerossa d'oggi.
Il Nebraska, piccolissimo stato USA di boschi e praterie, un tempo terra dei Sioux, ha dato alla storia a distanza fra loro di cent'anni due soli spiccati contributi umani, collocati uno al di là e uno al di qua di questa barriera culturale e fra essi paragonabili solo per notorietà, imparagonabili come sono invece per intrinseca qualità: uno si chiamava Cody, William Frederick, e diventò Buffalo Bill, personaggio-romanzo della frontiera West e poi stella circense in Europa; l'altro si chiamava Brandeau, Bud, e diventò Marlon Brando, polivalente orco meraviglioso del cinema, sex-symbol tragico sia nel pubblico che nel privato. Molto di più che un attore, insomma, anche se unanimemente considerato unico nel sovrastare gli altri per istinto e sapienza d'interprete su qualunque set; anche se per lunghi periodi affogato, per propria noncurante filosofia di vita, nel buttarsi via per soldi in produzioni cinematografiche correnti. (In quasi ciascuna delle quali, comunque, una personalissima unghiata o almeno luccicante impronta la lasciò ugualmente). La sua moralissima immoralità personale era anch'essa una forma di lotta contro l'ingiusto sociale: emanava forza e svelava insieme fragilità, componeva un miscuglio che ha lasciato segno profondo d'attrazione, emotiva e rispettosa insieme, in un paio di generazioni almeno.
Ecco, io non so bene quest'ultimissima generazione di giovani quale concetto abbia esattamente di Brando, anche se certo conosce, e ne è stata emozionata, «Apocalypse now» e «Il padrino», tuttora diffusissimi in cassetta e DVD, e poiché non era ancora nata quando esplosero, negli anni Cinquanta, consecutivamente come una raffica «Un tram che si chiama Desiderio», «Il selvaggio», «Fronte del porto», e le icone storiche di «Viva Zapata» e «Giulio Cesare» (in cui scolpì un Marco Antonio da antologìa di cinema-teatro). E non so quanti di coloro cui è piaciuto l'anno scorso il «The Dreamers» di Bertolucci abbian potuto rendersi conto di come lo stesso regista trent'anni fa, costruendo intorno ai corpi nudi e alle anime nude di Brando e di Maria Schneider «Ultimo tango a Parigi», altro non avesse realizzato che una prima puntata - infinitamente più elevata e tragica perché individuale e non collettiva - dello stesso trasgressivo discorso; tanto nobilitato in essa dalla sua struggente umanità quanto indagante invece sfogo di vendicativa rabbia sociale, innervata però da uno sforzarsi in ricerca di nuovo orizzonte, nella seconda. (Peraltro non sorretta da quell'intensa capacità protagonistica che solo a un genio attoriale può appartenere). Con l'avvertente sottolineatura, attenzione, che quegli aggettivi «prima» e «seconda» vanno intesi in senso meramente cronologico delle rispettive produzioni. Perché «Dreamers» non rappresenta il sequel di «Ultimo tango» bensì al contrario il suo antefatto. I «dreamers» appunto sognavano che la loro sperimentazione intellettuale e corporale di se stessi e dei sodali potesse divenire acquisizione stabilmente inverata, mentre Bertolucci e Brando in «Tango», con anticipata intuizione solo ai grandi artisti appartenibile, espongono lo sfociare in una disperazione al fondo nichilista di questo percorso diventato così soffertamente vano. Così come non so come l'altra sua prestazione per un regista italiano, in «Queimada» di Pontecorvo, di poco precedente e così scarsamente proiettata in seguito, abbia potuto lasciar raggiungere e cogliere da essa - mi riferisco sempre alla gioventù presente - l'attualissimo cinismo politico con cui l'Occidente adopera e gestisce guerra, rivoluzioni e potere economico nel Terzo Mondo.
Ed è per questo che non parlerò qui adesso tanto del famosissimo capofamiglia don Vito Corleone e dell'apparizione nell'altro grande film di Coppola del disertore Kurtz la cui tragedia cosciente e carismatica viene disegnata dall'attore in pochi superbi tratti d'ombra, ma andrò ancora più indietro nello stabilire un'equazione fra un attore e il suo rappresentato, fra la sua capacità di cogliere elementi e restituire personaggi, fra le sue rabbie intime divenute pubblica espressione e la suscitazione calamitante nel pubblico di un'adesione sia intellettuale che emotiva al suo modo di scontrarsi con problemi di società e di convivenza destinati comunque a restare irrisolti anche in presenza di catarsi. E contrassegnati non solo dal proporre dilemma sociopolitico e culturale ma dall'emanare insieme sesso irresistibile in un mix di seduzione e di violenza, di inermità e di fascino serpentino. Che talvolta bruciava in una volta sola e per sempre risorse altrui (la Schneider non ebbe più possibilità future d'altra notorietà filmica, dopo l'«Ultimo tango», indelebilmente connessa come restò a quella sua prima ed unica icona dal cespuglio pubico così pacificamente impudico che sembrava uscito dal fortissimo pennello di Courbet) e talvolta creava prototipi di modelli maschili diffondentisi velocemente a macchia d'olio come la canottiera di Kowalski o la giubba di cuoio nero del cavaliere di motociclette, o il casaccone a scacchi indossato da Terry Malloy, di quand'era ancora poco più che ventenne e l'Actor's Studio da cui era appena uscito non aveva più nulla da insegnargli. Pure l'adozione in massa e dappertutto da parte di ragazzi e ragazze dei blue-jeans e di Ray-ban scurissimi proviene da alcuni di questi suoi personaggi. Gli adulti ne furono contagiati dopo.
Alcune particolarità restano singolari nella sua filmografia, e le elenco. Come abbia dato vita uno dopo l'altro, da giovane attore e senza pratica soluzione di continuità, a tre personaggi assomigliati dall'essere prima a lungo vittoriosi ed alla fine mortalmente sconfitti ma differentissimi per collocazione epocale e territoriale come Emiliano Zapata, Marco Antonio, Napoleone Bonaparte. Di quest'ultimo è rimasta minor traccia perché a lui non era tanto addicevole quella parte di giovane e smanioso generale salottiero su cui fa centro il film, che poi è una storia d'amore, quanto lo sarebbe stata quella successiva di un maturo imperatore guerriero in lotta con i propri impulsi e con la sorte. Il primo gli è più congenialmente epico nell'affiancare rievocandolo quel precedente degli anni Trenta che fu «Viva Villa», sull'altro condottiero della più famosa fra le rivoluzioni messicane, Pancho Villa appunto, il quale ebbe per interprete un attore sanguigno e popolare sì, come Wallace Beery, ma più stereotipato, e non un regista come Elia Kazan. E come abbia percorso vari generi sapendovisi tuttavia adattare: «Bulli e pupe» fu un musical di gran successo, dove c'erano, figuriamoci, anche Frank Sinatra e grandi ballerini di tip-tap, ma lo si ricorda solo perché c'era lui. Dei due «Ammutinamento del "Bounty"», il più famoso resta non il suo ma quello con Clark Gable, invece, solo perché l'antagonista era il grande Charles Laughton di fronte al quale il suo - Trevor Howard - spariva. E infine come sia straordinario che due capolavori come appunto «Ultimo tango a Parigi» e «Il Padrino» siano entrambi del 1972; e non perché appartengano a un suo unico momento di grazia pure incontrovertibile ma proprio per la straordinaria diversità soprattutto fisica dei personaggi da lui in essi con eccezionale versatilità e capacità di trucco (lo faceva da sè, non sopportava mani di truccatori sul proprio viso) interpretati. Che cambiano non solo modi, gestualità e fattezze ma persino età e addirittura voce, posto che al "padrino" ne attribuì estemporaneamente una più fioca e rauca. Brando subì sempre molto, peraltro, in Italia, una menomazione causata dal doppiaggio perché la sua voce naturale era molto "soffiata" e facile a incepparsi, pur ottenendo anche con ciò e proprio per questo un grande effetto, inimitabile per i doppiatori.
Gli "anni forti", ciclonici, di Marlon Brando - e questa è un'altra caratteristica singolare - sono i Cinquanta e i Settanta, quelli della sua giovinezza e quelli della sua maturità; il decennio mediano e i due successivi e finali (l'80 è praticamente vuoto) contengono tutti film di rilievo grandemente minore o addirittura scarso: era strapagato (i quattro miliardi di dollari per tre minuti nel primo «Superman» costituiscono un Guiness) e accettava di tutto, prime parti come cammei, perché i soldi gli finivano subito; e non tanto per il villone-castello di Hollywood e per l'isola che si comprò in Polinesia (vestiva sciatto e non frequentava luoghi mondani: gli piaceva leggere e ascoltar musica da solo) bensì per pagare avvocati che lo difendessero da ex-mogli ed amanti in cause che poi comunque perdeva in modo economicamente rovinoso, e per mantenere un battaglione di figli, legittimi e no o magari solo presunti. Nei "decenni morti" spicca solo qualche titolo dotato di originalità di personaggio ma non di appassionata interpretazione, pur se sempre personalmente siglata e stilisticamente perfetta: come il suo ufficiale nazista in crisi di «I giovani leoni»; o la raffigurazione dello scienziato pazzo dell'«Isola del dottor Moreau»; o l'operettistico duetto con la Loren quando accettò di farsi dirigere da Chaplin in «La contessa di Hong Kong»; o il cinico produttore di porno estremi di «Brave»; o il vecchio psichiatra chiamato in salvezza di Johnny Depp travestito da don Juan con tanto di maschera e spada in uno dei suoi ultimi film, «Maestro d'amore».
Ma il grande Brando, quale è più giusto rievocare adesso perché meno presente all'ultima generazione mentre scosse fortemente i vent'anni della mia, è proprio quello delle origini, quello che in più d'un film seppe configurarsi come paradigma sessuale e come ribelle: ribellione alle convenzioni correnti, ribellione ad oppressioni di potere, ribellione ai "cattivi" se erano sfruttatori ma ribellione anche ai "buoni" se rappresentavano perbenismo borghese. La ribellione così affermata, insomma, era un valore in sè, anche a costo di diventare prepotenza. Eravamo lontani dal '68 ancora di molto ma già se ne avvertivano in qualche modo baluginìi; che erano fatti appunto di trasgressione e di spregiudicatezza, di calpestamento di valori e della loro sostituzione con altri, di una visione del mondo che era ad ogni modo alternativa a quella imparata a scuola. E del resto già aveva allora intitolato capitolo nuovo nella storia del cinema il neorealismo italiano. Ed era attraverso i personaggi di Brando, peraltro assuntori di attributi in certo modo eroici e non pregnati d'ordinarietà, che esso si infiltrava a Hollywood. «Fronte del porto» e «Zapata» diventavano manifesto e ci spingevano in politica, «Un tram...» e «Il selvaggio» turbavano, creando trasporto, il pubblico femminile.
Brando non le sdilinquiva, le donne, come aveva fatto Rodolfo Valentino, Brando tutto era meno che romantico; Brando aveva occhi accigliati, mobilità di muscoli sottopelle, labbra gonfie e sinuose, mani afferranti. Brando era uno scaldasangue. Non era un sogno su cui esalar sospiri sofferenti, ma la materialità del proibito da cui farsi prendere. Non evocava amore ma orgasmi, nelle mie compagne d'Università come nelle addette alle copisterie ed ai bar che frequentavamo. La sua fama bisessuale era ancora da venire (Bertolucci ha confessato d'essersi innamorato di lui, mentre a Parigi giravano il «Tango») però la sua ambiguità era già evidente: era un macho pieno di venature femminee, e questo emozionava anche senza se ne percepisse l'intimo perché. Giunse poi il film in cui mischiò con la Schneider nudità, sentimenti e nevrotiche rabbie perché ne fosse finalmente e con fatica ma liberatoriamente sprigionato, maièuta Bertolucci, il versante più nascosto e disperato di un'anima che ha l'erotismo come linguaggio atto ad esprimere anche altro: di sinceramente profondo, di ineluttabile, d'autolesionista magari, e di sopraffattivo, ma anche di riscattante e d'angelico insieme. Oggi vige su questo pubblica autocritica, ma ci sarà stato pure un motivo, e una grande paura - paura proprio di quel nichilismo finale che ho più su indicato - se questo è stato l'unico film al mondo per il quale la censura decretò la distruzione di tutte le copie col fuoco, che non ne restasse cioé intatto neppure un fotogramma. Per fortuna, o per intelligenza di qualcuno, un paio comunque se ne salvò e ad anatema scaduto se ne potettero ricavare ristampe.
Brando è stato dunque messaggio, e messaggio polivalente. La sua vita non è stata da meno dei suoi film. E del resto lui ve la rovesciava dentro e da essi ne usciva qualche volta a pezzi per l'intensità posta nel viverne le riprese. «Psicologicamente distrutto» si disse lui stesso dopo «Ultimo tango» in cui permise e si permise venisse violentato, in nome della verità umana, ogni suo più intimo segreto. Parallelamente alla sua vita d'attore esercitò una vera e propria milizia antirazzista a tutela dei superstiti delle popolazioni americane native, anche finanziando una serie di iniziative apposite. Non per niente uno dà nome Cheyenne alla sua prima e prediletta figlia. Rifiutò di presentarsi alla consegna del suo secondo Oscar mandando al suo posto una sua amica Sioux a fare un'arringa su come siano oggi costretti a vivere gli originari legittimi padroni di quella terra. Voleva fare con Martin Scorsese un film che poi non si potè realizzare sul massacro di Woundneed Knee. Alla fine lo assalì la sfiducia nella possibilità di pervenire a cambiamenti in una società che ha ormai assuefatto l'uomo a disumanizzarsi, e si lasciò andare a diventare il peggiore dei misantropi, assumendo nevroticamente quantità assurde di cibo, giungendo a pesare 160 chili e ad essere obbligato a dormire con un respiratore ad ossigeno nel letto. Se n'è andato per una crisi respiratoria pochi giorni prima di quel che sarebbe stato il suo ottantesimo compleanno. Marlon il bellissimo era diventato inguardabile.
Ma è stato l'uomo che ha insegnato un modo nuovo di essere attore, un uomo che i più autorevoli registi del momento dicono aver diviso in due la storia del cinema, pre e post Brando, un uomo che dagli schermi ha parlato da uomo e non su copione, un uomo che ha avuto il coraggio di denudare pubblicamente la propria anima senza nulla nascondere e molto, moltissimo, donando. Dalla vita ha ricevuto colpi tremendi, dovendo difendere fra le lagrime davanti ai giudici un figlio accusato d'omicidio e per questo condannato, dovendo subire l'insopportabile suicidio di Cheyenne il cui uomo era stato appunto dal suo fratellastro ucciso. Ed è morto in solitario disordine e precaria indigenza. Recitando (ma non credo sia proprio la parola giusta, per lui) in panni sempre analoghi e sempre diversi davanti alle cinepresa, ha mostrato quale fosse davvero il midollo di quest'arte e ci ha dato stimoli fortissimi e spesso anche crudeli a guardarci dentro sino in fondo e senza esitanti pudori, esponendosi a pagare per questo un prezzo altissimo: quello della propria personale infelicità.