«E' del poeta il fin / la meraviglia». In questi due secenteschi versi di Giovanbattista Marino, napoletano verace e dunque, come tutti i napoletani da Pulcinella a Eduardo, anche filosofo, è la caleidoscopica sintesi di qualcosa che i modi di far politica hanno ai giorni nostri spintonato perché si trasformi in scienza; e, possibilmente, pure in fede. E anche se il Carnevale di Rio è una manifestazione pubblica più democratica di un congresso di Forza Italia credo che il coup-de-théatre che entrambi fondamentalmente cercano di mettere in scena sia appunto la spettacolare quintessenza che quel vero e proprio paradigma del marinismo nei detti due versi contenuto rappresenta e instilla. Ma il politico è un poeta, o può comunque anche esserlo? Bèh, il politico è normalmente un pragmatico, ahimè, e solo nel migliore dei casi un idealista (non siamo molto sicuri che lo fosse neanche Abramo Lincoln), ma come dei poeti possono diventare "politici" (Brecht, Fo), c'è anche un tipo di politico che può farsi poeta. Ed è quando riesce a trasformarsi in Münchausen. Fra un vero statista e un Poeta con la maiuscola nulla può certo porsi di intercambiabile e fra Cavour e Leopardi l'abisso esistente fra il diverso e rispettivo modo d'essere eccellenti appare evidentissimo. Chi è dunque il politico-poeta? Quali caratteristiche ha?

Un tipico esempio di marinismo postmoderno, che non cito per la prima volta, è quello di cambiar nome a un'importante e delicata struttura pubblica come il ministero del Lavoro trasformandolo in ministero del Benessere, con l'aggiunta della botta d'ingegno di proteggere questo termine con espediente linguistico; posto che la targa Welfare lo priva di una mano di ridicolo sovrapponendogli un tono di benevola forbitezza anglosassone. Eufemismi di cui era campione lo Jeeves di P. G. Woodehouse. Siamo appunto di fronte a una prestidigitazione di tipo poetico il cui unico scopo è appunto diversivo e conferente una sorta di ebbrezza interpretativa. E' invece puro münchausismo reboare l'acqua sorgiva del Po chiusa in apposita ampolla come fosse la magica pozione che permette ad Asterix ed Obelix di prendere a sganassoni un'intera legione di Roma Ladrona. Traslare con falsa innocenza concetti e scioccare con suggestive metafore, movimentare e radicare un immaginario servendosi di iperboli, questa è una tecnica mutuata dalla pubblicità, la grande «serva padrona» - per dirla col titolo di un libro di Gianluigi Falabrino, sperimentato docente di Scienze della Comunicazione a Torino - della nostra epoca. Essa infatti ha proprio come assunto basico di tradurre in un'immagine sostitutiva la realtà del prodotto, sovrapponendo alla merce un'icona più suggestiva.

Prendiamo, in materia di comunicazione, lo strumentale accostamento con tanto di celebrazioni su cui si è suonata in questi giorni grancassa fra lo sbarco angloamericano in Normandia del 1944 e l'invasione sotto le stesse due bandiere dell'Iraq l'anno scorso. Tema: come gli eserciti, varcando il mare sia pur fra le lagrime e il sangue che portano con sé, possano alla fin fine essere esportatori di democrazia e di valori liberali. Anche a Valmy nel 1792 pareva ci si battesse patriotticamente per esportare repubblica e invece poco dopo l'Europa divenne la scacchiera su cui ci giocava quel generale còrso presto incoronatosi imperatore. C'è da chiedersi sbigottiti come si fa ad accostare la guerra contro il nazifascismo e per restituire libertà politica all'Europa, a una guerra unilateralmente intrapresa violando il diritto internazionale, sputando sull'ONU, accampando prove di possesso di super-armi a disposizione del Raìs di Baghdad poi rivelatesi una neanche furba e oggi sventata menzogna della CIA, e coprendo di stelle e striscie un grande, primario e goloso miraggio petrolifero.

Da noi i cittadini scesero in piazza festanti per abbracciare i soldati americani liberatori e non occupanti, là invece continuano a sparargli addosso dalle finestre e dagli angoli delle strade anche dopo che ufficialmente la guerra è finita da un pezzo. Se c'è casomai da individuare un dato parallelo fra queste due «scese in campo» degli USA è nell'analogìa della molla innescante. Che si è chiamata Twin Towers adesso e si chiamò Pearl Harbour nel '41. La distruzione delle torri gemelle di New York fu buon pretesto per Afghanistan ed Iraq anche se Bin Laden è saudita e Saddam non c'entrava, così come fino all'aggressione giapponese alle Haway l'America non aveva programma d'entrare a fianco di Gran Bretagna e Francia nella guerra scatenata da Hitler in Europa due anni prima. Ci sono sempre dei "motivi precedenti" per cui le cose accadono, ed è male non rifletterci: al Giappone non piaceva che la bandiera americana fosse arrivata all'altro estremo del Pacifico sino a esserne rasentato e aveva costituito il cosiddetto Patto Tripartito con Germania e Italia; e l'arabismo islamico accumulava da un secolo odio per i "signori del petrolio", per i califfi che li assecondavano in uno sfruttamento che lasciava povere anche vaste regioni del mondo potenzialmente ricche, e per i protettori del duramente espropriante tallone d'Israele sulla Palestina. Ma un Paese che neanche tanto tempo prima aveva fatto con le nazioni pellerossa lo stesso di Tel Aviv non era poi tanto in grado di accorgersi delle ragioni di un odio montante da Gaza all'Eufrate al Caspio.

Ora, non è che queste cose le sappiano solo studiosi, viaggiatori, frequentatori di libri. Lo sanno anche le varie Cancellerie (che gusto di madeleines proustiane in questo ottocentesco vocabolo che sta ogni tanto ancora adesso per Governi...) occidentali. Ma ecco, questo è appunto un altro "atto poetico" della politica, la quale per autoassolversi di qualcosa trova od inventa l'"accostamento" che le serve, per cui andare a morire a Cherbourg e sulle spiagge normanne ieri e lungo le rive del Tigri oggi sarebbe da vedersi come esattamente la stessa cosa e dalle stesse ragioni motivate. Anche Cavour aveva mandato i bersaglieri in Crimea un secolo e mezzo fa con lo stesso movente che il governo italiano di adesso i carabinieri in Mesopotamia: cioè di un investimento, da spendere poi pattiziamente sul banco di Potenze più forti. Al primo questo fruttò l'aiuto franco-inglese nella futura indipendenza italiana, all'attuale per ora non si sa; anche perché la sta rispezzettando in un progetto federalista che non somiglia a quello di Gioberti, nè a quello tedesco, nè a quello americano ma piuttosto a uno scorporo del Sud dal Nord quasi pregaribaldino in quanto basato sull'ognun per sè.

Studiamola bene, dunque, la materia «comunicazione». Perché c'è la comunicazione che passa attraverso l'omologazione e il trascinamento inerziale dei media, e c'è la comunicazione che passa per canali culturali. La prima può creare acriticamente grossi abbagli, la seconda non ha nulla di virtuale perché mette a nudo gli ingranaggi che da indietro nel tempo collegano secondo logica quanto accade oggi, ed è in grado di ispezionare anche il backstage dei fatti. E allora, così come stiamo attenti a non farci ipnotizzare nel ritenere il Mulino Bianco la casa-tipo degli italiani e a mantenere nozione precisa che una birra vale l'altra ed è solo questione di varietà di gusti, cerchiamo anche, allo stesso modo, di non cadere nei tranelli giocosi del cavalier Marino che tenta di meravigliarci con la prospettazione un'Italia che non c'è nascondendoci intanto quella che sta cercando di costruire; e nelle trovate da circo del barone di Münchausen. Il quale potrebbe anche attraversare lo Stretto di Messina a cavallo di una sferica palla di cannone o rialzare il PIL proprio come aveva fatto per disimpegnare il proprio cavallo dal fondo melmoso di un guado: afferrando cioè se stesso per i capelli e tirando in su mentre, in sella, stringeva l'animale fra le ginocchia. Anche questi sono accostamenti.

La vita è un'altra cosa, però, molto più semplice di quanto sembra, e il modo migliore di usarla è amarla: per noi e per gli altri. E non la si ama travisandola, e sovrapponendo strane "spiegazioni" al nostro sentire e al nostro volere. Mi domando spesso che cosa sappia davvero della vita e di cosa desiderare da essa chi non abbia mai letto una poesia di Prévert.