McLuhan - senza togliergli merito precursorio alcuno, naturalmente - ne sbagliò tante e altre ne equivocò, come certificano diversi filosofi e semiologhi (Eco, Giorello, Calabrese...), ma qui voglio citare, mettendone in risalto la data, due sue profezie lucidissime. La prima, del 1930: "Tra mezzo secolo queste tecniche (quelle pubblicitarie - N.d.R.) condizioneranno l'intera vita sociale e politica, contribuiranno a costruire consenso e a rafforzare pregiudizi". La seconda, del 1971: "La televisione è un fattore inquinante molto più virulento di qualsiasi altra cosa in precedenza identificata dagli ecologisti".
Quella del '30 non ha più bisogno di corollari dimostrativi, è vero? Già solo dopo una ventina d'anni Einsenhower, per essere rieletto, si affidò a uno staff mediatico geniale che coniò una scansione vocalica perfetta come "Àilàikàik" dove quel I like Ike (Acciaio, il suo nomignolo di guerra) oltretutto capovolgeva in modo suggestionante una prassi ritenuta sempiterna: non più cioè "Votatemi" detto agli elettori, bensì "Mi piaci" fatto dire da questi a lui. Trovata davvero top! Quanto all'altra, basta la costatazione che ogni emittente si sente ormai in dovere di restare attiva ventiquattr'ore su ventiquattro, occupandole tutte a costo di mettere in onda, oltre a una certa dose di cose serie, anche una quantità di programmi futilmente ottundenti e una gran barca di scemenze assolute. Il tutto per decine e decine di migliaia di canali. Come l'effetto serra smaglia la fascia d'ozono questo smaglia e depriva i cervelli. Inquinamento è dunque la parola giusta che descrive tale massificante, omologante, tempesta.
Ma torniamo alla profezia di settant'anni fa. Alle tecniche pubblicitarie non si sfugge e naturalmente non siamo qui per dirne male, essendo anche diventate un pilastro dell'economia e un allevamento di talenti figurativi capaci di far scuola pure in altri campi (in molti casi e per ora solo timidamente torna perfino il disegno a sostituire la fotografia e via via che il digitale costruirà personaggi virtuali sempre più perfetti anche i testimonials in carne ed ossa deperiranno). Quel che ci interessa ora è solo registrare: le diagnosi seguiranno l'accumulo di materiali. Intanto, le tecniche pubblicitarie sono diventate disciplina universitaria, recentemente promossa da diploma a laurea. E l'università non solo le insegna ma se ne avvale: ho sott'occhio un dépliant dell'ateneo udinese, per esempio, che ricalca i modelli d'un supermercato o di un'agenzia di viaggi o di qualche marca automobilistica. Veicolato anch'esso nella cellofanatura/marsupio dei magazines, grida in copertina "Laurearsi a Udine" e allinea una serie di headlines di pagina così: "Solo tre anni (sottolineato - N.d.R.) per laurearsi", "Corsi rari e caratterizzanti", "Posta elettronica e accesso a Internet per ogni studente", "Opportunità di studio all'estero", e così via.
Sbagliato? Banalizzante? Svilente? Provinciale? Kitsch? Certo che no, anzi: con neanche centomila abitanti Udine iscrive oggi 14.000 studenti. Università giovanissima e già dotata di tutte le Facoltà meno Architettura e Farmacia e di una quantità di diplomi e corsi di laurea attualissimi, è a soli 63 chilometri da un'altra (Trieste, caso unico in Italia dove perfino edicole e tabaccai hanno l'obbligo di un tot di rispettosa distanza funzionale l'un dall'altro), e dunque è chiaro che sbaglierebbe a non fare così. Ma poi arriva una settimana fa il rapporto annuale del CENSIS insieme a quello del Comitato ministeriale per la valutazione del sistema universitario e ci si accorge subito che sono stati scritti con le mani nei capelli. Si laurea meno del 40% di chi s'era iscritto matricola e in seno a questo dato c'è un 90% che ci arriva da fuoricorso, mettendoci da due a quattro anni in più del corso di studi previsto. E dice il prof. De Rita, presidente del CENSIS, che oggi "i giovani sono migliori esploratori mediatici degli adulti ma anche più superficiali".
La recente riforma universitaria chiamata Zecchino ha escogitato, per tentare d'arginare ciò, di accorciare i corsi di laurea (tranne medicina, meno male) e di aumentare le specializzazioni. Per calamitare così maggiore interesse giovanile includendo nei corsi di studi non solo professioni di cui c'è bisogno (accoglienza, cooperazione, sviluppo, assistenza all'immigrazione) ma anche "mestieri che piace fare". Così si può diventare pure dott. in Stilismo di moda o in Cinematografia e il complesso delle discipline accademiche ora si chiama, più commercialmente, "offerta didattica". A Gorizia p. es. è appena iniziato un corso, varato dall'Università di Trieste, per Investigatori privati; frequentatissimo da ogni parte della penisola. Non va disapprovato, per carità, che gli Atenei assumano abito, adottino comportamenti, caratterizzino i propri scaffali e le proprie vetrine come quelli di un ipermercato culturale. L'attualità lo rende, infatti, almeno in certa misura necessario. Chi diceva "Hic Rodium, hic saltus"?
Ma c'è una cosa che è necessaria in parallelo, e che se non c'è (le statistiche più su citate la rimarcano pericolosamente carente e non all'altezza) fa rischiare delusioni studentesche e naufragi strutturali: attrezzare a ciò le Facoltà con varietà e sofisticazione di strumenti tecnologici, risorse finanziarie, sventagliato arricchimento specialistico delle docenze, ampliamento degli ambienti di studio e di lavoro. A Palermo, Scienze della Formazione ci sta provando, altre Facoltà anche. Non sarà cosa veloce, non sarà cosa facile. Le ambiguità e le contraddizioni da evitare sono tante e occorrerà una consapevolezza testarda che però - almeno questa - non si vede fortunatamente mancare.
Anche per le Università è l'ora dei conti col mercato
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- Scritto da Etrio Fidora
- Categoria: Secolo postmoderno