Ricevendo posta elettronica, una volta me ne stupivo, ma poi è successo che, automaticamente, mi fossi sorpreso a scrivere «cmq» anch'io. Sta per "comunque" e risparmia alle mie dita ben cinque battute. E analogamente «xk» (perché) e «qd» o «qt» (rispettivamente "quando" e "quanto"). «Qlr» per "qualora" è ancora troppo sofisticato, ma date tempo al tempo... Del resto, se «BZ» e «RC» sono «Bolzano» e «Reggio Calabria» nelle targhe delle auto e non solo, e se da tanto tempo diciamo «prof» per non dilungarci in "professore" e analogamente «prot» per "protocollo", c'è da meravigliarsi se adesso anche "risposta", per esempio, è diventata «risp»? Perfino l'ufficiale corrispondenza scritta contempla «Miur» al posto di "Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca" e praticamente ogni "ci-acca" sta diventando, da suono a segno, un più semplice "kappa". Da quando avevo intitolato «La legge del display» la numero 2 di queste mie rubriche settimanali (quella che sto scrivendo è la numero 61) se n'è fatta di strada. Solo che adesso non è più solo per ristrettezza di contenitore, adesso riguarda anche le e-mail, che pure sono d'espansa finestra. Quindi si sigla, si acronima, si abbrevia, si sostituisce non più per angustia di spazio, ma proprio per concisione e fretta. Opporsi, resistere? Impossibile e ad ogni modo vano: l'homo digitalis sta velocemente soggiogando l'homo sapiens senza sentir ragioni. Vano e impossibile oggi, ma - confidiamo - non ineluttabile del tutto. Perché una lingua che perda l'accumulata sua complessa ricchezza finisce con l'inaridire, ma proprio nel senso di anchilosare, sempre più tragicamente anche il pensiero: ce ne accorgeremo, a un certo punto, e ne avremo paura. La lingua dei telegrammi inoltrati un tanto a parola era rimasta comprensibile erga omnes e non ci aveva impedito, tanto il suo uso era sporadico, di continuare a scrivere anche romanzi e poesie, di mettere in carta sottili filosofie e chiara divulgazione scientifica. Se ora il pericolo è maggiore è perché tutti abbiamo un computer davanti e un cellulare abilitato a SMS in saccoccia, e li usiamo quotidianamente e molto. Compresi i bambini, cioe quelli che ancora imparano. E cosa e come impareranno, rispetto ai modi di esprimersi e quindi di pensare? Sapranno genitori e scuola, per la prima volta dopo millenni alle prese con un problema come questo, instradare protettivamente al divenuto indispensabile "doppio binario" della lingua e del linguaggio? E poi non ci sono solo i messaggi di parole, ci sono anche i messaggi che si guardano, che vanno cioè letti con gli occhi. Dedicheremo dunque ora un po' d'attenzione anche a questi.

Il cinema manda messaggi? Eccome se ne manda, e non sono più gli stessi di un tempo perché ne son cambiati la materia prima e i modi, oltre che il contesto ricevente. Ma non è di questo che voglio parlare adesso, bensì di una certa categoria cinematografica soltanto. Gli shorts, i "corti". Cos'è un cortometraggio? Bèh normalmente sta in un rotolino di pellicola o nastro, dieci o dodici minuti. Ma ne ho visti anche di mezz'ora o poco più, ed anche qualcuno che dura una cinquantina di secondi. Pure uno spot tv può essere un "corto", ed ha uno standard di mezzo minuto. Ne hanno fatti Antonioni e Fellini e persino Almodovar e Francis Ford Coppola. Si è svolto la settimana scorsa a Palermo, Cantieri Culturali della Zisa, un festival del "corto", una tre-giorni molto densa organizzata da CineOfficina da cui merita venga ricavato un succo. Cosa fa il film? Racconta una storia, e la racconta con l'imprinting del suo regista e con i lineamenti noti dei suoi attori. E il "corto" non ne racconta, storie? Sì che le racconta, ma ovviamente le condensa, gli attori raramente sono professionisti, di una storia contiene insomma solo l'osso. E poi non sempre: talvolta non corrisponde a quella linea dritta, oppure ondulata, o zigzagante, che una storia è, con un suo inizio e una sua fine; ma invece è un cerchio chiudentesi su se stesso, oppure un'esplosione, oppure un appunto con sorpresa; un esercizio di stile, un'avventura visual sperimentale. Il digitale aiuta a effrangere gli schemi ed a fuggirne. Ci può essere una storia che ha un suo stile, ma ci può essere uno stile che non si applica a una storia ma semplicemente all'occhio che lo guarda e se ne lascia trascinare. E avere una colonna sonora dove ci possono essere parole ma anche no, solo suoni.

I messaggi che manda il "corto" sono meno complessi e più diretti e si capisce subito se l'autore è uno in corsa per diventarlo poi di lungometraggi o se invece è uno che ritiene quello autosufficiente e conchiuso al punto da fare genere distinto, e lo stesso "alto", da sè, nel proprio breve recinto di minuti e senza bisogno di espandersene. Un "corto" può essere una serie di immagini danzate, o un apologo, o solo un aforisma, o del tutto astratto, fatto di forme, colori, movimento e suoni; oppure sì raccontare, ma un dramma o una commedia di pochissime sequenze, un paradosso, una metafora, un gag. Scioccarti con l'insolito, divertirti, puntarti semplicemente una responsabilizzante pistola fra i due occhi, spararti un punto interrogativo alla cui risposta non avevi mai pensato, o troppo poco. Se il film può essere poema, questo è un semplice dolce o drammatico sonetto o un epigramma (carezza o pugno nello stomaco che sia). Anche solo "gioia di fare", spesso però: ludere con l'obiettivo, ludere col montaggio, ma diventarti interlocutore cui neanche in questo caso si sfugge. Il corto è messaggero icastico di problemi, di ritratti, di fantasia. E anche quando è gioco di specchi non lo è certo più di quanto gioco di specchi sappia essere la stessa realtà.

Una volta il "corto" si chiamava «documentario», cioè descriveva e informava, e la sua proiezione era obbligatoria fra uno spettacolo e l'altro delle sale cinematografiche. Ora non più: è riservato a serate specializzate e ha moltiplicato la propria possibile natura, di contenuti e d'abito, ambendo sovente ad essere anche o solo new art, ma chi ha dubbi che la sua destinazione più propria e imminente è trovare ricetto normale in televisione, nel web, nel CD d'edicola? Per questi media appare fatalmente fatto, non più per le sale a maxischermo. C'è in crescita tutta una leva di giovani e giovanissimi che non scriverà romanzi, non comporrà sinfonie, non affrescherà navate, non girerà colossal, ma vi bombarderà o vi commuoverà o anche solo vi stuzzicherà con una miriade di messaggi proiettati su schermo o video capaci di blandire le vostre sensibilità o di trapassarvi come frecce aguzze. Ad parva majora.

Siamo partiti da parole passate allo spremilimoni per diventare da gonfio frutto suo sugo essenziale, a rulloni di pellicola che diventano rullini condensanti una sostanza senza più digressioni. Sarà saltare di palo in frasca se ora parliamo un attimo di erotismo, o meglio di un suo particolare aspetto? Non credo. Anzi restiamo in pieno nella corrente messaggistica che ci ha per target, non è di un tipo solo e tende a plasmarci secondo leggi di mercato; trasformando cioè l'offerta in imposizione. Allora prima diciamo il fatto, poi ne tenteremo la decodificazione. I due maggior magazines italiani sono in concorrenza usciti, questo week-end e all'unisono, con due "prodotti aggiunti" nuovi. Dopo essersi a lungo affiancati nell'offrirci carte stradali, enciclopedie fascicolate da rilegare, libri e CD, ora con parallelo rullo di tamburi pubblicitario ci daranno settimanalmente, cellofanate insieme alla testata, brochures di nudi femminili. Non bastano dunque più né copertine né calendari. «L'Espresso» la butta sul culturale: quindici fascicoli da cento pagine di fotografi famosi dedicati al "nudo d'autore". «Panorama» ne farà altrettanti dedicati invece a quelle "nudo-star" più alla ribalta, o dentro ad essa ancora solo con un piede, di un mondo voyeur. Catalogate per nazionalità: nel primo numero, chi per una pagina chi per più, le italiane.

E ancora una volta non si capisce, data la perfetta contemporaneità tematica, se si tratta di un reciproco spionaggio aziendale che permette all'altro di non spiazzarsi di fronte all'iniziativa dell'uno; ovvero di un patto di reciproco rispetto non solo temporale ma anche appunto tematico che permetta loro un cammino di conserva. Restando concorrenti sulla qualità ma non belligeranti al punto di cogliersi, una volta l'uno e una l'altro, di sorpresa. Ma prima di analizzare il messaggio c'è un altro comparto che va messo in parallelo, e vede invece protagonisti gli stilisti del prét-à-porter. Che accentuano di anno in anno la caratteristica d'essere opinion leaders di un movimento che persegue, diciamola brusca, la «liberazione delle tette». Ne esca del tutto dagli abiti una sola o in coppia, o sia la trasparenza a mostrare il busto intero, il messaggio è inquivocabile: disinibitevi, signore. Passando magari per le vie mediane di scolli o sbottonature verticali che ne espongano, come dire, in abbinamento le loro smosse fiancate, o di spacchi o nudità schienali aggiranti che diano vista al loro laterale sbordo subascellare, o di ondeggianti top che lascino ineditamente scoperta, rispetto alla scollatura classica, la parte inversa di esse, cioè quella inferioremente appoggiata. E viene anche integrativamente introdotto l'abbassamento della frontiera retrostante fino a dove la parte resa così visibile non si chiama già più reni ma popò. Poi magari questi abiti così sforbiciati non li vediamo ancora più che tanto ai cocktail o nei foyeurs, ma sono chiara sollecitazione a incardinare per intanto un trend. Molto più artificiale e ipocrita, per la verità, di quel piccolo solitario triangolino cui si stan riducendo i costumi balneari, dove lo scoprirsi il più possibile è almeno funzionale al nuoto ed all'abbronzatura.

Decodifichiamo, allora? Decodifichiamo. Sarebbe imperfetto asserire che c'è, come si dice, una "domanda" (di mercato, s'intende), se non quella che soprattutto viene dagli occhi maschili, i quali restano, per questo aspetto, abbastanza bambini anche in età adulta e compensano inibizioni proprie. Nè si tratta di una "pressione" sul mercato, che non avrebbe senso ove non ci fossero alcune forme, diciamo, di corrispondenza. Una è banalmente quella, ormai divenuta anche assioma femminile, e avente per trampolino il cinema e il teatro (non la pittura e la scultura, le quali sono simboliche), che di fronte alla bellezza o alle necessità espressive il pudore diventa stupido. Parliamo piuttosto di uovo e di gallina e di una circolarità che li caratterizza e sospinge. Il seno della donna è sempre stato strumento di messaggi, come il piumaggio non remigante dei volatili. Dalla Madonna allattante fino allo strip-tease, con tappe che l'abbigliamento storicizza e la storia dell'arte documenta. Oggi la pubblicità insegna come l'esibizione della zona mammaria non serva solo a impor prodotti come reggiseni, cosmetici o vasche da bagno, ma faccia premio per qualunque comparto merceologico ove sia accortamente applicata. E il messaggio erotico, commercializzato, è quanto più serve, ai tempi nostri, a distrarre da una vita sempre più soggetta ad altre pressanze non felici, determinate da una società sempre più egoista e feroce; nelle sue strutture, stiamo attenti, non nell'anima della gente. «Guardate le tette e non la crisi dell'economia mondiale e dell'ecosistema» - che si può logicamente leggere anche «Mostràtele», poiché si tratta di un'equazione - è l'esatto contrario di «Fate l'amore e non la guerra» che invece è un proclama sano. Credo che posso fermarmi qui perché il concetto generale è a questo punto già abbastanza chiaro.

 Ancora un'altra tipologia di messaggio scelgo di aggiungere, ad ogni modo e per variarla, in questa piccolissima e solo esemplificativa rassegna di linguaggi: quello del design. Ma non del design "importante", come quello delle carrozzerie degli autoveicoli o della gioielleria orologiaia, per dire. Vorrei mettere in luce quello più modesto, anche se spesso elegante e spesso furbamente giocherellone, che ha destinazione casalinga. Guardiamo un po' negli sportelli e nei cassetti di cucina in cui forse l'assuefazione ci impedisce di cogliere qualcosa che in effetti può essere subliminale. Ci troveremo spremiagrumi o cavatappi che, pur restando strettamente funzionali, assumono però forme che sottendono il rendercene l'uso più piacevole; il primo può assomigliare a una casetta rotonda e il secondo a un animale stilizzato; i manici della posateria giocano sui materiali e perfino la classica Moka deve cessare di sembrar di metallo ed è adesso anche arancione o celeste. Bicchieri fantasy nella foggia e nel colore del vetro, e macinacaffè che potrebbero stare su una scrivania. Il messaggio è ludico stavolta: stai preparando il pranzo ma non hai in mano utensili bensì giocattoli. Mettiti insomma in casa tua un po' d'allegria in più: se la brocca, il candeliere, il portasapone hanno un che di ironico e se la sveglia non trilla ma ti bercia «Sono le sette, sono le sette» con buffa voce elettronica, non fanno che sconfinare verso quel mondo di bambolotti e di trenini dal quale sei ormai molto lontano e non è male che in queste occasioni ti riconduca. Bèh, magari uno si innervosirà e preferirà che una grattugia continui a restar grattugia senza sdoppiarsi anche in orsacchiotto dalla pancia ruvida e bucherellata. Però, dài, anche i "creativi" che inventano queste cose non fanno che distrarci dal troglodita prossimo venturo che ci aspetta dietro l'angolo.