C'è sempre un'ultima volta ancora in cui personaggi che avevano intensamente per anni "fatto titolo" sui giornali e poi erano a lungo scomparsi dalla ribalta titolo lo fanno di nuovo; ed è quando lasciano anche la vita. E' successo una settimana fa per Vito Ciancimino, e anche in questo caso il titolo cominciava «E' morto...»: semplicemente una notizia. E poi il dove e in quali condizioni. Nella sua casa che affacciava sulla scalinata di Trinità dei Monti, Piazza di Spagna, uno dei luoghi più suggestivi e prestigiosi di Roma. Età e condizioni di salute gli avevano concesso di vivere lì i suoi ultimi anni (arresti domiciliari) invece che nel carcere di Rebibbia, nel quale aveva iniziato a scontare la lunga pena detentiva con la quale pagava il debito contratto con Palermo, la città in cui era stato potente esponente dc, prima assessore ai Lavori Pubblici e poi Sindaco, costantemente ambiguo mediatore di lucri, e nella quale il suo nome era stato di continuo connesso alla parola mafia.
Perché torna oggi detto personaggio anche in una rubrica come questa? Ma perché egli aveva dato, per lungo tempo addietro, gran daffare a giornali e giornalisti e perché giovani che quell'epoca non hanno vissuto possano operare confronti con le titolazioni su analoghe materie che compaiono sulla stampa adesso. Tangenti, corruzioni, concussioni, interessi privati in atti pubblici sono tornati ad essere correnti, da «Mani pulite» in poi, come quando in precedenza lo erano stati per altri scandali politico-finanziari nostrani (banane, tabacchi, Federconsorzi, Italcasse, costruzione dell'aeroporto di Fiumicino e chi più ne ha più ne metta). Quando Ciancimino negli anni Ottanta fu arrestato per la prima volta, gli furono sequestrate un paio di cassette di sicurezza che contenevano, contanti, più di sette miliardi a valore di allora, parte in lire e parte in valute diverse. Un paio d'anni dopo, nelle more del suo processo, sussurrò a un giornalista che non lo scrisse subito ma dopo la sua condanna: «Solo un pelo sono riusciti a prendermi!». Tutte somme di provenienza ingiustificata, e in quell'occasione egli fu anche storico precursore, con un'altra sua dello stesso tenore, di analoga verbalizzata dichiarazione fatta di recente dall'on. Cesare Previti nel processo in corso in cui gli è coimputato Silvio Berlusconi: «Potete accusarmi solo di evasione fiscale; per tutto il resto non avete prove» (fulgido esempio di teoria della società postmoderna da parte di un parlamentare ed ex ministro di questa repubblica che, dopo ciò, non si capisce coma possa ancora sedere a Montecitorio; o si può solo spiegare col fatto di un intero paese al momento sotto anestesia). Per Ciancimino comunque dell'altro venne sanzionatamente fuori. Come il fatto che sotto la sua gestione grandissima parte delle licenze edilizie rilasciate a Palermo fossero intestate a quattro soli prestanome. Dei quali, cadendo dalle nuvole, affermava neanche sapere che esistessero.
Di Ciancimino qui riferirò solo tre cose, tutte estratte dalla mia memoria personale, poiché un suo generale retrospettivo excursus biografico già è comparso un po' su tutti i quotidiani nei giorni scorsi. Sono più che altro dei quadretti, che penso peraltro significativi di tre momenti fra loro lontani della sua, chiamiamola così, carriera.
Primo quadretto / Ruspe contro il liberty - C'è un bellissimo librone illustrato, di Adriana Chirco e Mario Di Liberto, che si chiama «Via Libertà com'era e com'è» e documenta con testi, date, fotografie, disegni, mappe, come in una drammatica autopsia, la distruzione con avallo pubblico di uno dei più bei viali urbani d'Europa, negli anni Cinquanta, e la terrificante sostituzione di una sequenza di invidiati palazzi e villini liberty, sui due lati alberati della strada, con altrettanti maxicondominii anche decapiano di vari colori. La legge urbanistica dell'epoca prescriveva che la salvaguardia degli edifici tutelati scadesse dopo cinquant'anni dalla rispettiva costruzione. Per Villa Deliella a Piazza delle Croci, che interrompe Via Libertà dopo il primo chilometro, splendida dimora edificata all'alba del secolo dalla famiglia di Delia Withaker su progetto di Enrico Basile, l'architetto autore del Teatro Massimo, del castelletto Florio, di Villa Igiea, questa scadenza piombava sulla mezzanotte fra un sabato e una domenica. E dopo un minuto un movimentatissimo esercito di picconi popolò il suo piano alto, a scendere, illuminato da una piccola batteria di fotoelettriche, verso le ruspe in attesa del loro turno allineate nel giardino lungo i muri del pianoterra. All'alba del lunedì tutto era finito. Tale superveloce operazione, scaltramente compiuta a turni di lavoro fra due notti e un giorno festivo, aveva impedito alla Sovrintendenza qualsiasi possibile intervento che interponesse un anche provvisorio nuovo vincolo. Cosa fatta capo ha! Il progetto prevedeva l'erezione al suo posto di otto/nove piani di cemento armato vendibili, data l'ubicazione, a peso d'oro.
La licenza di demolizione era stata firmata da Ciancimino sul tamburo e al capo allora della famiglia Lanza (uno dei ceppi nobiliari più antichi della Sicilia, di vastissima ripartizione territoriale per feudi, articolati come si sa fra i di Trabìa, i di Scordìa, i di Scalèa, per citare solo i più famosi) era costata venti milioni dell'epoca. Quel distintissimo principe restò dall'alto del suo sangue blu assai infastidito, disse poi a un suo autorevole conoscente che una volta me lo raccontò con divertito sogghigno, dal fatto che lo svelto assessore non si portò via solo le banconote ma molto ineducatamente anche la valigetta di coccodrillo che era servita per prelevarle dalla banca, e cui egli teneva moltissimo.
L'indomani scrissi su «L'Ora», su questo scempio, il mio primo, credo, paginone intero di giovane cronista di «bianca». Fu uno scandalo enorme. Ma ormai un altro pregevole pezzo della bella Palermo colta e cosmopolita a cavallo dei due secoli era perduto per sempre, lasciando una montagna di pietre sbriciolate lungo un lato della piazza, che camion asportavano per scaricarle a mare ad Acqua dei Corsari, e anche una melanconica serie di fotografie che esaltano ancora la sua nitida eleganza che fu. Su quell'area comunque, per la campagna alimentata dal giornale, non fu più permesso di edificare alcunché, e quindi il tutto risultò alla fine mero vandalismo infruttifero. Ancora oggi essa è un vasto piano asfaltato adibito a parcheggio di autovetture, un memorando facsimile, se un tale sproporzionato paragone è permesso, di minimalissimo Ground Zero.
Secondo quadretto / Una formula che fa differenza - Circa quindici anni anni dopo questo episodio, Ciancimino è in Tribunale come offesissima parte lesa e l'imputato sono io, con altri colleghi. Il processo si svolge a Genova, in altro distretto giudiziario, perché vi erano coinvolti come attori anche gli eredi di un magistrato palermitano. Il giornale aveva pubblicato un disegno del pittore Bruno Caruso che, mischiando intenzionalmente immagini mafiose e politiche, accostava il volto di Ciancimino a quello di Luciano Liggio; di Corleone entrambi, quel boss allora per la seconda volta latitante, quel dc allora in fumus d'essere nella capitale isolana una longa manus delle "famiglie" corleonesi appunto (o di essere da queste "tenuto in pugno", il che non cambia molto). In quell'occasione a difesa del giornale era venuto a testimoniare anche l'allora colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa, che in seguito la mafia avrebbe trucidato assieme alla giovane moglie. Sentenza: assoluzione! E - senza precedenti - questa assoluzione era stata condivisa perfino dal pubblico ministero, che pur rappresentava l'accusa. Qual era la clamorosa differenza contenuta nel dispositivo della sentenza? Che, mentre per «Fidora ed altri» essa era motivata con «l'insussistenza del fatto» in riferimento agli altri querelanti, era invece per Ciancimino motivata così: «il fatto non costituisce reato». Come a dire, in soldoni, che mentre verso gli altri non c'era dolo alcuno, accostare Ciancimino alla mafia bugìa proprio non era, anzi. Che colpo di spada! L'inizio della sua fine.
In appello questa sentenza fu per quanto riguarda Ciancimino due anni dopo confermata e la Cassazione mise poi a suo tempo il proprio definitivo sigillo al tutto.
Ora, può essere imbarazzante citare un testo in cui si parla proprio del citante, ma mi sento di farlo proprio e solo perché certe cose è meglio leggerle da una penna diversa da quella dell'interessato. Nel suo libro «Accadeva in Sicilia / Gli anni ruggenti de «L'Ora» di Palermo» scrive Vittorio Nisticò, che prima di me fu direttore di questo quotidiano per vent'anni e dal quale ho imparato tutto quel che professionalmente so: «Con le sentenze di Genova si chiudeva per "L'Ora" l'ultimo atto di quella sorta di selvaggio western giudiziario in cui mafiosi e potentati politici ci avevano trascinati per anni a forza di querele usate come fucili e uomini di legge e di toga usati con ruolo di fucilieri. Era stato Etrio Fidora ad assumersi fino all'ultimo l'onere della resistenza sul campo, difendendo da un tribunale all'altro con la forza della sua intelligenza e la sua proverbiale cocciutaggine, il ruolo del giornale e il diritto di libera critica politica dei suoi giornalisti. Provato e vincente, il carsico Etrio se ne tornava ora dall'ultima prova. Più o meno negli stessi giorni in cui il giornale pubblicava un disegno di Caruso "Caduta di un pilastro" raffigurante la fine politica di Ciancimino: prima delle sentenze giudiziarie lo aveva travolto, con le elezioni di giugno, la campagna delle sinistre - "L'Ora" e Sciascia in testa - contro il malgoverno».
Terzo quadretto / Sui gradini della caserma - Un'altra quindicina d'anni è trascorsa e Ciancimino è passato di processo in processo, parecchio carcere se l'è già fatto e in quel momento è al confino di polizia, divieto di rientrare in Sicilia, in attesa del prossimo, quello più grosso e definitivo. La sua sede obbligata è un borgo contadino di qualche migliaio di abitanti, nel Molise, si chiama Rotello, provincia di Campobasso. Proprio a due passi da quel San Giuliano in cui il recente terremoto ha fatto strage di bambini, sepolti fra le macerie della propria scuola. Decido di andarlo a trovare, vorrei pubblicare, dopo tanti anni duellati, un'intervista con lui. All'aereoporto di Napoli affitto un'auto e punto verso Benevento per arrivare all'altro versante dell'Appennino, dov'è Campobasso, lungo un percorso di minore altura, ore e ore comunque. In quel capoluogo mi informo e poi cammino tortuoso per saliscendi di boschi d'alberi spogli: è inverno e fa un freddo cane, chiazze nevose qua e là. Natura grigia e triste, neppure incrocio altre macchine. Rotello mi si para davanti dopo una curva, quand'era ancora inaspettato. Casette, spiazzi sterrati, fabbricati disadorni, la piazza, la chiesa, un baretto. Metto poco a sapere dove sta: in paese sanno tutti del "siciliano". Mi accompagnano all'imbocco di una corta strada dritta al fondo della quale ce n'è un'altra che la sbarra a T . Su questa, in linea davanti a me, un portone scuro, di ferro. Ed è la piccola casa a due piani che s'è affittato e dove vive da solo. Ogni tanto viene per un po' sua moglie, o uno dei figli, ma al momento non c'è nessuno. E' sera già molto scura e le finestre sono buie e sprangate. Ma lui è in casa, mi dicono, perché quella lì accanto al portone è la sua auto, una grossa Mercedes nera. Vado all'unico albergo, che è un po' fuori, e ci mangio. Cosa gli dirò? E cosa gli chiederò?
Prima di trovare quella casa aveva alloggiato lì anche lui e così so qualcosa in più. Fa vita molto ritirata, tanto dai limiti del territorio comunale non gli è consentito uscire. Ogni tanto va a giocare a carte in casa di un vicino (eh, sì, quello poi andrò a trovarlo) ma di sè e della Sicilia non parla mai. C'è un uomo con lui, un altro siciliano. Rigoverna la casa, fa la spesa, cucina, gli fa da autista per brevi giri. Uno così un guardaspalle ce l'ha sempre. Mi dicono che è inutile bussare da lui: non riceve nessuno, nessuno che non sia l'idraulico per riparare un lavandino è mai entrato lì. Figuriamoci io. Ho un solo modo per incontrarlo: ogni sera alle dieci deve presentarsi alla stazione dei carabinieri e mettere la firma su un registro. E allora che faccio? Passeggio tutto il giorno fra quei quattro gatti cercando di capire la sua vita e così la sera lui certamente sa da prima di vedermi che c'è qualcuno "nuovo" in giro che chiede cose su di lui? Macché: mi metto in auto e vado a vedere mondo. Filo lungo tutto il corso del Biferno per arrivare all'Adriatico, mangerò pesce a Termoli e tornerò solo in serata.
Alle dieci meno venti, non si sa mai, sono di nuovo a Rotello, nello slargo dov'è la stazione dei carabinieri, una specie di casermetta con dei gradini davanti e una ringhiera. Due lampioni fiochissimi, freddo, nessuna presenza umana. Dalla città, dopo un po' di ricerche, m'ero portato un fotografo, un ragazzotto con Nikon e flash. Dieci in punto, la Mercedes scura gira silenziosamente l'angolo, ferma alla ringhiera, lui scende, suona, entra. Anche senza buona luce, quale differenza fra il guascone sbracato dei nostri primi scontri, viso magro e baffetti, sorriso strafottente, serate in smoking malportato, e quell'infagottato curvo con la barba bianca e un cappelluccio a tesa corta calcato sulle orecchie.
Quando esce, dopo pochissimi minuti, trova me davanti alla porta, che si chiude alle spalle, e mi riconosce subito. Fa un cenno e una smorfia all'autista che aveva di colpo aperto la portiera e si appoggia alla ringhiera. Non è contento. Il dialogo, brevissimo, è stato il seguente.
«Buonasera». «Buonasera». «Sono venuto a parlare con lei». «S'è fatto un bel viaggetto». «La cosa la meritava». «Cosa vuole da me?». «Solo chiacchierare, sentire sue opinioni sul mondo. Deciderà lei cosa dirmi, se vuole». «Vuol sapere come mi trovo qui?». «Non mi sogno neanche, non sarebbe cortese». «Lei non mi ha mai trattato bene». «Neanche lei, per questo: i suoi avvocati avevano a lungo chiesto il carcere per me, per quel scrivevo». «Non ho voglia di parlare con lei. Ci devo pensare». «Quanto?». (Spallucce. Io intanto mi sono seduto sui gradini ma lui non mostra di volermi scostare). «Andiamo in un luogo chiuso, qui si gela». «Non se ne fa niente. Un'altra volta. Forse». «Vuole che ritorni? Le dò il mio numero di telefono?». «Me lo dia». (Lo intasca). «Sa, una cosa che potrebbe dirmi è con quali argomenti prima Gioia e poi Lima l'hanno scaricata offrendo lei alla giustizia come capro espiatorio». «Se volessi parlare con un giornalista, è con lei che sarebbe più logico. Ma io non voglio parlare con nessun giornalista». «Ha il mio numero. Aspetterò». Mi alzo e gli lascio lo spazio per passare. E intanto faccio segno al fotografo che s'era defilato dietro l'angolo e quello fa tre passi avanti e spara tre flash su noi due faccia a faccia. Ciancimino allarga le braccia, scuote la testa, mi volta le spalle e sale sulla Mercedes che sgomma via mentre inutilmente gli grido «Mi fermo qui ancora domani».
Bene, questa è dunque la storia di un'intervista fallita. E a questo punto mi sono anche sentito molto Maramaldo, perchè avevo fatto mille chilometri solo per appostare e tormentare uno sconfitto. Ma cosa mai avevo creduto mi potesse dire senza morftificazione? L'indomani ho parlato col suo compagno di scopone, col sindaco e col parroco, col fruttivendolo e il macellaio, e sono andato a Larino a sentire il capitano dei carabinieri. Al ritorno ho costruito il servizio con quegli appunti e non vi ho incluso che un paio di queste nostre battute di dialogo, vergognandomene anche un poco.
Questo ex padrone di Palermo ha scritto un memoriale autodifensivo, poi, e ha anche fornito qualche consulenza all'Antimafia. Piccola e discreta, perché di certe cose chi parla, o lascia intuire di poter parlare muore. Un suo successore a sindaco di Palermo, si chiamava Insalaco, aprì per esempio parlantina su alcune connessioni in cui determinati personaggi fra i quali anche Ciancimino entravano, e gli spararono in testa. Chiuso.
Venne chiamato «Il sacco di Palermo»
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- Scritto da Etrio Fidora
- Categoria: Secolo postmoderno