«La laurea in giornalismo è una cazzata!» Marianna Bartoccelli, redattrice de «Il Giornale» dixit. Proprio così e stop, senza conoscenza dei fatti e senza argomentare. Dove? Nel salotto di casa sua? A un tavolino di bar? Al mare con gli amici? No, nell'Aula Magna dell'Università di Palermo, sotto l'egida specifica di Scienze della Comunicazione, presenti autorità accademiche, un centinaio di studenti del corso di laurea appunto di giornalismo, i loro docenti giornalisti e no e tre direttori di quotidiani. Col sorriso sullelabbra, al microfono, dal podio dell'oratore, in un luogo dov'era ospite. A questo punto ognuno ha saputo che se la invitate a cena mangerà le lasagne con le mani - e dunque non lo farete più - ed è successo un pandemonio. Perché il diritto all'opinione è notoriamente sacro ma i modi di esprimerla possibili perché ci sia un confronto o comunque esso venga favorito, sono tantissimi e tutti comunque diversi da questo qua. Scartare l'apodittico e cercare invece di essere persuasivi è una delle primissime regole di buon giornalismo che in genere si impara. O si dovrebbe.
Fino a quel momento era andato tutto bene, nessuno aveva maneggiato esplosivi, e il dibattito era assai interessante: si trattava di un incontro fra giornalisti siciliani che erano "emigrati", non siciliani che qui erano "immigrati" e altri che erano semplicemente "rimasti": esposizione scambievole di motivi ed esperienze. Tutto questo, dopo quella frase, è saltato in aria e ci si è invece trovati a discutere di (polemizzare su) tutt'altra cosa. Alla quale molti si sono trovati spreparati., quando non addirittura privi non tanto di idee, per carità, quanto di gran parte delle informazioni concrete attinenti al tema e tuttavia necessarie a valutare i contenuti di realtà nuove alle quali si è esterni. Sentirsi per esempio dire che è inutile siano impartite nozioni accademiche a chi deve poi andare ad attingere notizie nei pronti soccorso e che invece bisogna imparare a impaginare e titolare testi al computer e a montare digitalmente servizi radiotelevisivi, béh è desolante: chi mai autorizza a ritenere non sia appunto questo che soprattutto - e con esercitazioni giornaliere a pioggia - in un corso universitario di giornalismo si faccia? Facendo in web - testi, immagini e grafica - addirittura un quotidiano, ed aggiungendovi mesate di stages redazionali esterni?
Non si discute mai efficacemente sulla base di questioni di principio, di pregiudiziali ed apriorismi, che anzi fan rolotolare cavalli di frisia a intralciare l'accesso ai dati reali e veritieri. Ridursi alla schematica questione quasi referendaria se si debba imparare questo mestiere delicatissimo con il tradizionale apprendistato artigianale “a bottega“ presso le testate oppure apprendendo nelle aule attrezzate e lavorando nei laboratori di un'Università, è certamente esercitarsi in qualcosa che non porta da nessuna parte ed anzi fomenta incomprensione. E' quanto è avvenuto in quest'occasione sotto i preziosi soffitti lignei dipinti della Sala dei Baroni di Palazzo Chiaromonte, detto lo Steri. Certo, comunque, che la nostra laurea in Giornalismo prevede anche altro, e guai se no. La complessità globalizzata della nostra società, così veloce e ricca di imprevisti nel suo processo mutante, non consente più che al giornalista sian sufficienti le proprie antenne, l'aver rapporto con le fonti e lo scriver chiaro. Ed è per questo che il corso di laurea prevede la specializzazione del praticantato giornalistico solo nell'ultimo biennio e per il tempo previsto dalla legge professionale, però dopo un triennio precedente dedicato a tutto quel che nelle redazioni è più empirico che scientifico, e comunque incompleto, l'impartire ma che oggi come oggi è indispensabile sia già bagaglio tuo fin da prima dell'esservi entrato. Semiotica e linguaggi e lingue straniere, abilità ai new media, storia e geopolitica, marketing e demoscopìa, metodologia della ricerca sociale e psicologia dell'opinione pubblica, percezione e tecniche delle arti visive, comunicazione pubblicitaria e cura dell'immagine, economia politica, legislazioni comparate e deontologia... potrei continuare ma è sufficiente così. Apprendimenti tutti importanti anche per la gran massa di coloro che non faranno i giornalisti (numero chiuso di solo quindici, e non tutti superano la selezione) ma che corrisponderanno all'immensa e variegatissima domanda che la planetaria espansione mediatica propone oggi sul mercato del lavoro. Quasi tutti i presenti avevano ancora nelle orecchie un'approfondita e documentata lezione che era venuto a tener qui da noi Paolo Mieli - non certo l'ultimo arrivato - il quale indicava d'ora in poi e sempre più come necessaria e attualissima, in Italia come all'estero, appunto la strada universitaria per accedere alla grande reponsabilità professionale di operatori dell'informazione giornalistica. E anche per sottrarre così agli editori la discrezionalità esclusiva sin qui goduta nel selezionare non sempre nell'interesse dell'opinione pubblica coloro di cui si servono per fare i loro giornali. E' dai tirocini non universitari che si rovesciano per ora due volte all'anno sull'Ordine, a quattro-cinquecento per volta, i candidati all'esame di stato per l'abilitazione professionale, altro che i selettivissimi corsi di Ateneo.
Di un'altra cosa madornale affacciata in questo dibattito è ancora il caso di dare criticamente conto. Uno degli interlocutori , pure stato graziosissimo nella sua prima parte quando ancora non era intervenuto Pietro Micca, ma travolto evidentemente anche lui dal successivo surriscaldarsi a vuoto della discussione (é il direttore di un importantissimo quotidiano italiano che si stampa su carta rosa), se ne esce a un certo punto con la seguente tremenda affermazione che lascia sgomento il pubblico: «Ho centoventi redattori, ne avevo centottanta nella mia redazione precedente, e vi posso dire che sono mediamente così suddivisi: un terzo che lavora bene e con cui faccio davvero il giornale, un terzo che galleggia barcamenandosi, un terzo che non dà gli apporti che dovrebbe»: E come non bastasse aggiunge che non può esistere una politica seria delle assunzioni perché, come vuole il sindacato, la precedenza tocca ai giornalisti disoccupati, tutti di anagrafe più alta. E del sindacato dice, in proposito, che «costituisce il più grande cancro che fa da freno alle imprese», provocando così (erano ahimé presenti in sala anche dirigenti del sindacato di categoria e l'oratore poteva ben supporlo) un'altra sviante ondata di drifting impossibilitante qualsiasi dialogo. Già reso difficile dal continuo far confusione, pur da così alto soglio, fra quel che è "comunicazione" e quel che è "giornalismo". Confusione che nessuno dei nostri studenti più fa dopo il primo anno. A loro conforto mi par giusto spendere, in finale, la frase con la quale Paolo Mieli aveva concluso quella sua lezione: «Ragazzi, il futuro è certamente vostro e non più dei "biondini" di redazione». Non sarà certo facile e non ci arriveranno tutti, ma la strada - non c'è niente da fare, penso proprio - è quella così segnata. Dalle spinte esterne e dagli argomenti in questa sede esposti.