Acquisisco esperienze e faccio scoperte. Le esperienze possono anche essere molto minimaliste e le scoperte tipo quella dell’acqua calda. Comunque oggi dirò di una mia esperienza e di una mia scoperta senza badare a che genere di esse appartengono.
L’esperienza. Ne scelgo una che riguarda smanettamenti elettronici sia perché può interessare, chissà, qualcun altro sia perché invece qualcuno può aver ritenuto mio errore ciò che essa ha generato. Ecco di che si tratta.
Dovevo, di recente, inoltrare telematicamente a un quotidiano un articolo corredato da illustrazioni. Erano dei disegni di una cinquantina d’anni fa, tracciati a inchiostro di china. Lo scanner non ne riproduceva bene l’aspetto perché eseguiti su una carta di cattiva qualità e per giunta tanto invecchiata: invece di spiccare nero su bianco, cioè, l’insieme forniva un impasto grigiastro assai imbruttente. Mi venne perciò l’idea di provare a passare dalla scansione in bianco/nero a quella a colori e il risultato diventò di colpo buono: lo sfondo infatti trasformò in delicato ocraceo l’ingiallimento per età della carta e ritornò evidente il contrasto col nero anche se quest’ultimo figurò appena appena meno intenso.
Come apparve tuttociò poi, quando fu stampato sul quotidiano? L’effetto restò ottimo e il contrasto chiaro, ma la stampa in bianco e nero produsse un alleggerimento complessivo per cui sul fondo di un tenue grigio risaltavano le figure come se fossero, per lo sbiadimento così ulteriormente indotto della china, eseguite invece a tratto di matita. Con anche quel zinzino di sgranatura conferito dalla digitalizzazione dell’immagine, a definizione non altissima, ad accrescere tale impressione; lasciandola in apparenza salva da equivoci: era certo grafite, non poteva esser stata fatta in quel modo con un pennino. Bèh, ma se era bello da vedere, che importava? Il fatto è che io, nel testo, come disegni a china veritieramente li indicavo (e per giunta proprio senza sottostante uso di matita) mentre le immagini mi smentivano in modo che più evidente di così non poteva essere; mostrando me come se avessi scritto una frescaccia, o comunque sbagliato, da incompetente. Pazienza. Ma adesso so come regolarmi in futuri casi del genere.
Così come quando una volta ricevetti da un’amica una foto jpg che rappresentava una moschea di Istanbul sotto la neve e che, stampatala, rilevai praticamente monocroma sul grigiazzurro e per questo brutta. Provai comunque a disappiattirla un poco col comando di saturazione dei colori e solo allora lungo il marciapiede mi apparvero, praticamente dal nulla e inaspettate, un’edicola di giornali e un automobile, in due ravvivanti toni di rosso, e una fila di lampioni accesi, e sotto gli archi di facciata delle altre luci. Adesso la foto, che volando nell’etere s’era evidentemente, o per mia postuma immaginazione, protetto in seno uno dei tre colori primari, era di nuovo bella. Imparato anche questo.
La scoperta, ora. Quando l’ho fatta mi son chiesto - ritenendola importante - perché nessuno ne avesse mai parlato o ne parlasse, e l’ho orgogliosamente inserita in una mia lezione in aula. Non molto tempo dopo, un noto magazine nazionale su quella stessa cosa pubblicò un ampio servizio pieno di autorevoli interventi, sbattendolo anche su una copertina trionfale. Ho comunque a testimoni i miei studenti che, per quanto beninteso pochissimo ciò possa valere, ero arrivato prima io.
C’è un cambiamento nella manualità dello scrivere che sta venendo indotto dalle tecnologie, del quale non solo io ma un po’ tutti ci stiamo accorgendo solo dopo averlo abitudinariamente assorbito - perché prima era puro istinto - e che sarebbe molto piaciuto a Charles Darwin. Per la penna, il pollice e l’indice costituivano solo supporto fisso. La dattilografia dètte alle sue professioniste un’agilità di tutte e dieci le dita prossima a quella dei pianisti e tuttociò proseguì accentuandosi, per un maggior numero di funzioni di tastiera, con i computer. Con una primarietà comunque dell’indice, che in precedenza suonava solo campanelli e poi restò il dito principe per la maggior parte degli usanti tastiera, prima meccanica e dopo elettronica, in quanto normalmente è con due sole dita, i due indici appunto, che scriviamo; e tuttavia a velocità sufficiente, usando il pollice solo per lo spaziatore.
Ma qual è la rivoluzione? Che non da quando esistono i telefonini (i quali dapprincipio erano più voluminosi e li tenevamo in una mano digitando i numeri col solito indice dell’altra) però da quando i cellulari hanno il display e consentono il lancio di messaggi scritti e la tastiera è dunque pure alfabetica oltre che numerica, hanno di colpo defenestrato l’indice, rimpiazzandolo col pollice: quello della stessa mano che con comodità accoglie sul proprio palmo l’ormai microattrezzo. Una cosa da niente? Tutt’altro, invece! Questo dito, già fondamento dell’evoluzione della specie da quando era diventato pian piano opponibile alle altre dita, consentendo così di impugnare qualcosa e di conseguenza stabilendo predominio sugli altri esseri viventi, sta entrando adesso di nuovo in una stagione di propria centralità; diventa più agile, più flessibile, più veloce, più robusto, in attesa di diventare lentissimamente anche più lungo e più affilato. Lavora insomma per dare motivo di studio agli antropologhi del futuro. Chi ha detto che noi non continuiamo ad essere dei mutanti?
L’avevamo già fatto, intendiamoci, di usare il pollice in funzione analoga: col telecomando dei cancelli e dei garages, e soprattutto con quello del televisore, che monotasto non è. Ma era per una funzione diversa e più semplice, NON ERA PER SCRIVERE: è proprio qui che invece, e da pochissimo, si volta pagina; stabilendo un fulmineo relais mentale fra elaborazione lessicalsemantica e prolungato giocolierato di un dito solo E NUOVO! Oggi messaggini e domani lettere, appunti personali, testi per altro uso. E senza neanche più guardare: perché il dito si addestra, come già su una tastiera maxi, ad andar da solo dove sa essere inamovibilmente collocato il tasto giusto. Impiegando al finfine per tuttociò un’unica mano, libera l’altra per automatismi diversi, da sbottonarsi la giacca a mescolare un caffè a carezzare qualcuno.
Insomma, una mattina io mi sono accorto che stavo facendo così, e chissà da quanto. Non mi aveva indotto nessuno, nessuno me l’aveva insegnato: era un atto istintuale, una spinta eversiva proveniente dal basso. Si chiama «il golpe del Pollice».
Il golpe del Pollice
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- Scritto da Etrio Fidora
- Categoria: Secolo postmoderno