L’inglese "to play" sta per "recitare", "suonare", ma anche "giocare". E in tedesco "spielen" è "suonare", e pure "giocare". Quanto ai francesi, "recitare" lo dicono "jouer" che però significa anch’esso, appunto, "giocare". Solo la lingua italiana indica "recitare", "suonare" e "giocare" con tre verbi diversi e ben distinti. Solo in italiano dunque il palcoscenico è luogo per attori e musicanti e il gioco-gioco è un’altra cosa. Che peccato. Quale - lasciatemelo dire - carenza. Eppure l’italica lingua viene dal latino e possiede l’aggettivo "ludico", cui però manca il sostantivo foneticamente corrispondente che l’antica Roma usava e "ludi" erano appunto i giochi, che essendo per lo più anche gare e certami presupponevano comunque spettacolo e cultura.
Non sono sfumature e sottigliezze: anche l’antico greco "agòn" stava per "gioco" e "gara" (e noi contemporanei ne deriviamo "agonistico", che è ancora una volta un aggettivo), ma "agòn" era anche il luogo dove ciò si svolgeva ed era dunque palestra o circo o stadio o anfiteatro o agorà cioè piazza, ma era in più sede di assemblea e dunque altresì di dibattito e di fronteggiamenti politici. "Agòne" è desueto nella nostra lingua, ed è comunque un termine che includeva persino valenza militare e dunque di torneo armato e "scendere nell’agòne" con riferimento ad azioni di tipo politico resta ad ogni modo espressione non più che ottocentesca e può oggi rientrare in accezione casomai poetica e anzi, più che altro, vetustamente retorica. Torniamo allora al verbo "giocare" e poniamo attenzione lessicale alla nostra figura linguistica di "giocare una parte" o "giocare un ruolo" in cui non resta, alla luce del già detto, che riconoscere nient’altro che un puro e semplice francesismo. La cui particolare accezione ricade peraltro anch’essa in un’area definibile come soprattutto "politica".
Il gioco delle parole è affascinante per chi fa mestiere di comunicazione. Oh, certo, è una scienza; ma potrebbe anche essere molto noiosa se noi la vedessimo solo sotto il profilo, come dire, tabellare e paradigmatico e non la "sentissimo" anche e proprio ludicamente. Esser privi di senso ludico, in qualunque nostra intrapresa attività, è un difetto e probabilmente, più ancora, una menomazione. Intanto perchè ci mancherebbe così il "piacere" di praticarla e poi anche, diciamolo, perchè la vivremmo in modo meno umano ed assolutamente più meccanico. Togliete il gioco dalla vostra ottica sociale e vi resterà solo il dramma. Togliete il gioco dall’interpretare personaggi o dal comporre suoni e vi mancherà l’integrata assonanza concettuale del "to play", dello "spielen" e del "jouer" e vi resterà solo la differenziazione, di tipo quasi giuridico, dei tre separati verbi che invece usiamo noi. Ma c’è appunto un tipo di cultura, anche nel nostro italo retroterra linguistico, che viene proprio direttamente dallo "jus": nel senso, intendo, di una meticolosità espressiva (quante altre lingue dispongono p.es. del tempo congiuntivo? o del presente storico il quale riflette l’aoristo greco?). Persino la pubblicità (ehi, attenzione: è un altro gioco!) che noi recepiamo direttamente dal latino "publicum facere", come si trattasse semplicemente di un’informazione notificata - letteralmente, infatti, "render noto" -, comunità linguistiche meno antiche e meno ingessate la esprimono con terminologia indicativamente più realistica e culturalmente meno ipocrita come, rispettivamente, "advertising" (dalla radice "sollecitare"), "réclame", (dalla radice "propagandare"), "reklame" (dalla radice "pretendere").
Quando le parole si radicano nell’uso che via via se ne fa possono spesso perdere o diluire il loro significato originario e finir col corrispondere anche a una concettualità del tutto diversa. Prendiamone ora una, infatti, che era già poco fa entrata nel nostro discorso: "politica". Viene da "polis", no? E dunque definisce ciò che attiene l’interesse della comunità; della comunità intesa come civica e statuale, per essere precisi. Ed è strumento del rapporto fra le componenti di questa comunità. Ma nella sempre più invalsa pragmaticità corrente essa ha finito con l’essere invece definita (e, occhio, non è più una battuta: è divenuta una teoria) "l’arte del possibile". Se analizziamo questa transizione nel "far politica", come ora si dice, non possiamo che pervenire al seguente riconoscimento: che alla concezione della politica come confronto è subentrata la concezione della politica come negoziato. Dò per superfluo spiegare qui la differenza semantica tra "confronto" e "negoziato": basterà sottolineare che le iniziative di confronto si svolgono presso l’opinione pubblica e non solo quella sua parte di cui si è rappresentanza e coinvolgono quindi tutti i referenti di base; e che le iniziative di negoziato si svolgono invece a livello di vertice, tagliano fuori queste referenze - che vengono giudicate essenziali solo nel momento elettorale, il quale stabilisce i rapporti di forza validi per un certo duraturo ciclo - e hanno come interlocutori protagonisti soltanto i dirigenti dei diversi raggruppamenti di maggioranza e di opposizione. L’aver assunto in questi ultimi anni la vita politica nel nostro Paese un connotato del genere - senza naturalmente che in questa sede sia lecito entrare nel merito delle singole posizioni - ha creato ripercussioni notevoli di carattere negativo sul piano generale, che stanno adesso producendo rilevanti contraccolpi intrisi di delusione, di incertezze anche rabbiose e forse pure di avventatezze.
Le parole sono messaggi ma non tutti i messaggi sono fatti di parole. E anche per evidenziare al meglio che si vuole qui occuparsi di qualcosa di assolutamente generale sul senso di quel che comunicativamente trasmettiamo e recepiamo nella vita di ogni giorno, concludo dunque con un’altra esemplificazione di tutt’altro genere. La settimana scorsa in questa rubrica mi sono occupato del percorso messaggisticamente mutante del festival di Sanremo nel volgere di questi anni, che ha radicalmente cambiato i canoni di quanto esso comunica. E lì ritorno, citando qualcosa che solo apparentemente non c’entra con le esposizioni fatte fin qui stavolta. La sua edizione che fu vinta da Anna Oxa (quella di due anni fa o di tre, non ricordo bene) indusse un fenomeno poco avvertito come tale, se non forse dai più solo subliminalmente, e che non aveva nulla a che vedere nè con le canzoni nè con le presenze non canore che le accompagnavano.
La Oxa venne in scena, l’ultima serata, con un paio di calzoni dalla vita molto bassa come da moda subombelicale già invalsa, ma esibendo una particolarità in più: la visibilità cioè delle stringhe laterali dello slip ancorate sull’anca e da essi emergenti. Nulla di scandaloso, per carità, ma costituente, se vogliamo chiamarla così, una novità iconica. Esiste qualcosa che io neologisticamente chiamo, quando mi riferisco a una particolare tipologia di linguaggi non scritti, "wearcommunication"; e ciò di cui sto parlando ne è riprova. Ripassiamoci infatti in mente le ultime sfilate di moda e qualche caratteristica visuale delle pubblicità (di abbigliamento ma non solo, profumeria per esempio) di quest’ultimo paio d’anni, e annotiamo la frequenza crescente con cui questo particolare vi si è affacciato. L’innalzarsi laterale di quegli ancoraggi elastici oltre la cinta dell’indumento inferiore esterno, o la loro visione per suo spacco o trasparenza, ha assunto vera e propria valenza stilistica e si è altresì fatto portatore di sottolineature particolari anche negli atteggiamenti di posa di top models e/o testimonials, che vi infilano sempre più spesso a spostarli uno o entrambi i pollici come significativo complemento d’attenzione. E non ha nessuna importanza, si badi, che vi sia o meno in ciò un richiamo erotico perchè si tratta esattamente dello stesso segnale dato in campo maschile, e in molto diversa sede, dall’adozione della cravatta blu con puntolini bianchi, finita col dilagare come parola d’ordine di un certo status qualitativo.
Questo per dire che il linguaggio dei segni noto come semiotica non consiste solo in codici alfanumerici e che dunque sta giustamente ai semiologi di non trascurare neanche questi che non lo sono. Le tecniche della comunicazione postmoderna li hanno infatti, e sempre più, come essenziali.
Codici comunicativi, che bel gioco (e mica tutti sono alfanumerici)
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- Scritto da Etrio Fidora
- Categoria: Secolo postmoderno