Il referendum votato a giugno dagli italiani (bene che ne parliamo solo adesso a materia raffreddata) è stato un caso da poter collocare in vetrina come esemplare. Diciamo intanto che è andata bene, e inaspettatamente anche molto bene; sia dal punto di vista civico per il pur non necessario superamento del quorum, sia da quello politico-istituzionale per la salvifica schiacciante prevalenza dei «No» sui «Sì» nonostante il fortissimo pressing a favore di questi ultimi da parte del centrodestra e la maggiore visibilità della sua campagna anche sul territorio. Ma diciamo anche che questo suo buon esito non è stato certamente merito del centrosinistra e del suo governo, risultati invece molto negligenti e pigri, e dunque appunto meno visibili nella loro mobilitazione in favore del pur da loro auspicato voto negativo. Per esso hanno in verità svolto più intensa, assidua e decisa campagna i maggiori quotidiani, in pratica e tambureggiata supplenza da edicola di quel che avrebbe dovuto essere sforzo massiccio di partiti, mentre invece i media audiovisivi si sono addirittura quasi sforzati di non far capire con esattezza per che cosa in realtà si stava votando. Il tutto abbastanza assurdo da un punto di vista strettamante comunicazionale. E cerchiamo allora adesso di capire perché.

Oggetto del voto - puntualizziamo anzitutto questo - era la dovuta conferma o abrogazione da parte popolare della riforma della nostra Costituzione voluta da Berlusconi/Bossi e assecondata dai loro alleati, imposta con colpo di maggioranza alle Camere prima delle recenti elezioni che quel governo avevano mandato a casa. Una riforma il cui osso era, anche se non stato messo in sufficiente luce da chi avrebbe dovuto esservi da una parte e dall'altra più interessato, la trasformazione dello Stato italiano da repubblica parlamentare in repubblica presidenziale. Presidenzialismo per giunta spostato dal Quirinale a Palazzo Chigi e cioè da un istituto di garanzia super partes a un istituto politico di parte quale è l'Esecutivo, specie data la struttura bipolare del nostro sistema. Esecutivo a sua volta progettato non più collegiale ma condensato in una persona sola dai poteri autoritariamente accentrati: quel Primo Ministro che avrebbe sostituito il presidente del Consiglio dei Ministri. E tuttociò aggiunto alla cosiddetta devolution, cioè a quel meccanismo di invenzione leghista per cui il reddito prodotto in una regione là debba poi essere speso, in modo - anche se sottaciuto - da arricchire ulteriormente il LombardoVeneto (non si dice più Padania...) e depauperare ulteriormente il Mezzogiorno, differenziando regione per regione livelli e caratteristiche qualitative di materie fondamentali come istruzione, sanità e polizia amministrativa.

E analizziamo ora separatamente il tipo di comunicazione che su tuttociò è stato dato all'elettorato italiano rispettivamente dal centrodestra che si batteva per convincerlo al «Sì» (chiamando "conservatrice" e addirittura indegna di italianità la parte avversa) e dal centrosinistra che si adoperava per indurlo al «No» (con passaggi - vedi Scalfaro, presidente dell'apposito comitato - spesso meramente retorici).

I messaggi del centrodestra sono stati costantemente improntati a un'enorme genericità basata su suggestioni lessicali invece che sui meccanismi di merito, accuratamente sorvolati. E' stata una campagna tutta basata sulla parola (come fosse magica) «cambiamento» e sulla frase «ammodernamento del Paese». Termini intesi come taumaturgici, mentre non è automatico che cambiare corrisponda sempre a "cambiare in meglio"; e definire «ammodernamento» lo svuotamento del Parlamento - che nell'impianto predisposto non avrebbe infatti potuto più, in caso di conflittualità, sfiduciare un premier ma solo, e al contrario, lasciarsi sciogliere da lui - altro non era che mascherare proprio il ritorno a un vecchio dejà vu italiano dai molto infausti connotati. Così come son stati glissati i previsti incrementi numerici delle nomine di fonte politica nella Corte Costituzionale e nel Consiglio Superiore della Magistratura allo scopo di sminuirne l'autonomia operativa e garante. E i casini che sarebbero intervenuti sul piano legislativo consentendo a ciascuna Camera (non più con poteri paritari) di intervenire con proposte ed emendamenti nell'attività dell'altra. Nonché - questione tutt'altro che di secondo piano - quale immenso aumento di costi tali così complesse ristrutturazioni avrebbero comportato nei bilanci statale, già così gravemente disastrato, e regionali. Ci sarebbe poi anche dell'altro, per la verità, ma penso sufficit questo esemplificante toccar di tasti qui adottato.

E passiamo ai messaggi del centrosinistra, pieni di omissis anch'essi e in cambio ponenti in primo piano il proprio vistoso consenso a una parte di questo quadro riformatore che peraltro ne costituisce l'unico aspetto positivo: non più cioè stessi compiti e poteri a Camera e Senato (il che ne fa in atto farraginosi doppioni) ma invece differenziazione funzionale e - soprattutto - forte diminuzione nel numero dei parlamentari, invero eccessivo. Quanto agli attacchi sull'avere adottato e tentar di imporre a tutti e di rendere per tutti valido un nuovo progetto di Costituzione votato dalla sola propria maggioranza di governo, erano di per sé inficiati dal doverli accompagnare da autocritica per aver fatto il centrosinistra esattamente lo stesso varando un sia pur più piccolo e meno dannoso mostricciattolo nella Legislatura precedente. Dove però questi messaggi a favore del «No» divenivano a loro volta generici e sfumati erano su uno degli aspetti più pericolosi di questa riforma: quello dello spostamento d'accenti prevalenti sul capo del governo nei confronti del Parlamento. E questo per evitare l'imbarazzo d'evocare un ambiguo precedente, essendo stato il cosiddetto «premierato forte» proprio un caval di battaglia di D'Alema ai tempi in cui, prima che essa fallisse, nella famosa Commissione Bicamerale andava di conserva con Berlusconi nel modellare riconfigurazioni statuali.

Ma il tema su cui la comunicazione verso l'elettorato è stata oggetto d'autocensura sia da parte del centrosinistra che del centrodestra è quello delle norme cosiddette «antiribaltone» in questa riforma inserite. Norme che in realtà piacevano a tutti e due gli opposti schieramenti, essendo di "ribaltoni" stati vittima a suo tempo - ma è la vita, quando si commettono errori - entrambi: Berlusconi ad opera di Bossi e Prodi ad opera di Bertinotti, anche se ora l'uno e l'altro al momento ravveduti. Ma perché non gettare tutta la luce dovuta su questo particolare "lucchetto costituzionale" progettato a scopo di praticamente impedire per tutta la durata di una legislatura che una maggioranza cambi o che uno o più parlamentari mutino comportamento di voto, rendendo anzi ciò oggetto di conseguenze sanzionatorie? Perché esso rappresentava uno "strappo", un vulnus, particolarmente efferato alla Costituzione così rimasta invece, e meno male, vigente: quello alla sua importante e significativa prescrizione che i parlamentari di questa Repubblica svolgono il proprio ruolo «senza vincolo di mandato». In piena e indipendente libertà, cioè, delle proprie opinioni e della facoltà di evolverle, adeguarle e anche motivatamente cambiarle. E già c'era stato, varando l'ultima legge elettorale, un brutto segnale in questa direzione con la soppressione del voto di preferenza. Derubando così i cittadini della possibilità di scegliere liberamente, come prima, fra i nomi in lista e rendendo invece gli eletti debitori del seggio esclusivamente ai partiti che in essa li avevano collocati con insindacabile e predeterminato dall'alto ordine di priorità.

Soltanto i giornali a stampa, e non tutti, avevano provveduto, avvicinandosi la data del referendum, a pubblicare tabelle in cui venivano, articolo per articolo della Costituzione, confrontati il testo vigente e quello riformato da sottoppore a giudizio popolare. Ma il medium principe, il più seguìto ed influente, cioè quello televisivo, si era limitato nelle sue reti private come in quelle pubbliche ad esporre, senza spiegazioni precise, che si trattava di «cambiamenti» riguardanti il rapporto fra Parlamento e Governo, fra presidenza di questo e quella della Repubblica e facendo solo capire che il premier non avrebbe più solo "proposto" bensì direttamente "nominato", e anche a suo piacere "revocato", i singoli ministri. E' vero, in tv siamo stati anche annegati di dibattiti fra leaders e simil-leaders delle opposte parti, tutti però recitanti sino alla noia le stesse formulette e slogan e pasticciando tutto col darsi l'un l'altro rissosamente sulla voce. Certo, non era facile "comunicare" all'elettorato il complesso e controverso contenuto di ben cinquantatré articoli (un terzo!) della nostra Costituzione completamente riscritti fino a stramutarla, ma era uno sforzo da affrontare doverosamente con testarda e professionale pazienza. E questo sforzo è invece mancato, lasciando così le parti libere di vendere il fumo che volevano.

Buoinasorte però ha voluto che i cittadini supplissero con l'istinto, individuando a pelle sia trucchi che pericoli, e che la valanga dei loro spontaneissimi «No» seppellisse il tentativo illiberale di trasformazione delle istituzioni che era stato messo in atto. La dimostrazione che ciò ha superato destra e sinistra, semplicemente amalgamandosi in voto civile, sta nel fatto che anche le aree dove l'elettorato di destra prevale (in alcune erano contemporaneamente in corso elezioni amministrative che la destra ha infatti localmente in qualche caso vinto) hanno espresso coralmente schede referendariamente invece negative. Tranne Lombardia e Veneto ma con la significativa eccezione delle loro Capitali (Milano e Venezia). Tuttociò va preso, penso, ripetendo quanto avevo detto all'inizio, come una lezione esemplare ed ammaestrante, che scoraggi d'ora in avanti chiunque, sia da destra sia da sinistra, a proporsi - magari insieme - qualcosa che vada oltre il non mantenere identici i compiti di Camera e Senato, far giustamente dimagrire il loro numero e definir meglio il rapporto Stato-Regioni senza però tramutare queste in mostri autoreferenti. E stop qui, va auspicato, d'ogni possibile nuova proponibile riforma costituzionale.

Questo sul merito del referendum è ovviamente inevitabile assuma anche connotati di analisi politica, ma vorrei restasse chiaro come il senso primario di tutto quanto qui scritto sia invece prioritariamente attinente al tema COMUNICAZIONE e a come sia stata questa ad essere stata rischiosamente lesa in questa occasione, e per ragioni squisitamente politiche, da entrambe le parti. Lo sottolineo appunto per evidenziare quanto si faccia cattivo uso della risorsa comunicazione, cioè più emozionale che funzionale/razionale, nei tempi in cui ci è stato assegnato di vivere e che parrebbero dover invece essere contrassegnati proprio dal top dello sviluppo comunicativo globale. Sono distorsive ironìe epocali, queste, alle quali non porremo mai attenzione che possa esser ritenuta troppa.